DA UNA MIGRAZIONE ALL’ALTRA

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– Ma noi dobbiamo sempre inseguire qualcuno:              Zamosc Jews .jpg

o i salmoni che risalgono la corrente per seminare

le uova, o la renna randagia che va a cercare o

la foglia.

Dice un nostro proverbio:

– Il viaggio è meglio del riposo.

E un altro insiste:

– L’acqua stagnante è fangosa.

– Per noi, il tempo non è denaro. Non lo misuriamo come voi altri,

che state attenti alle ore: ci regoliamo sulle stagioni; c’è il periodo

del buio, quello della luce, quello di mezzo.

Per due mesi è sempre giorno, per altri due è sempre notte.

– Gli antenati adoravano il sole, le rocce, i monti, c’era un dio dei

tuoni e uno che si occupava della fertilità, e uno che regolava i venti,

e una dea per le gestanti; i padri credevano che l’esistenza fosse

manovrata da potenze buone e cattive, da spiriti che penetravano

ovunque, e punivano o premiavano, a seconda del comportamento.

– Questi oscuri poteri venivano invocati perché soccorressero i pescatori

o i cacciatori; per far guarire un malato lo sciamano, lo stregone,

cadeva in estasi, forse con l’aiuto di qualche droga, e si metteva in

contatto con le forze del cielo, e battendo il suo tamburo, sul quale

erano dipinti barche, pesci, astri, strani uccelli, rivelava i segreti

dell’avvenire.

– Rispettavano l’orso, e ancora oggi abbiamo per lui riguardo e

considerazione; è il re della foresta, ha la stessa intelligenza di uno

di noi, e il vigore di nove uomini. C’è nella sua imponenza qualcosa

di magico e di poderoso; lo identificavano anche con la stella polare.

Gli usavano delle premure. Facevano in modo che, svegliatosi nella

tana, dopo il lungo letargo dell’inverno, con la voglia matta di riempirsi

la pancia di tuberi o di miele, si infilasse da solo nelle lance messe a

trabocchetto, e dopo l’uccisione, guai avvicinarsi per tre giorni, alla

moglie: nell’impresa se ne era andata la forza generatrice.

(Enzo Biagi, Scandinavia)

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ELIMINAZIONE DELL’ELEMENTO SEMITICO E ASIATICO

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Questa classificazione, elaborata dai funzionari dell’UWZ, venne applicata alla lettera

durante la prima grande operazione di espulsione, avviata il 27 novembre 1942:

In 21 giorni sono state espulse da 60 villaggi complessivamente 9771 persone.

Sono rimaste sul luogo, come lavoratori agricoli o operai specializzati, 2716 persone.

Le 7055 persone trasferite al campo di ZAMOSC sono state filtrate e accorpate ai seguenti

gruppi di valutazione:

– GRUPPO 2 (da rigermanizzare): 314 persone ossia il 4,4%;

– GRUPPO 3 (importanti solo per la loro capacità lavoro) 5147 persone ossia il 73%;

– GRUPPO 4 (PREVISTE PER IL CAMPO DI LAVORO DI AUSCHWITZ )1594 persone

ossia il 22,6%.

Del gruppo di valutazione 4, tolti i vecchi e i bambini, 910 persone sono previste per il

campo di lavoro di Auschwitz.

Le persone previste per il lavoro coatto nel vecchio Reich serviranno innanzitutto a

sostituire gli ebrei che si trovano ancora a Berlino.

Nell’ottobre 1942, 24.300 tedeschi etnici ‘rimpatriati’ erano pronti a insediarsi definitivamente

nella regione di Zamosc. Alcuni di loro, tedeschi del Volga, passano un’ultima domenica

in attesa al campo di transito per coloni di Zamosc.

Il giorno dopo, vedranno per la prima volta le loro nuove fattorie.

Il vento è glaciale, ma sulla piazza i bambini ballano intorno al palo dal quale un altoparlante

diffonde un’allegra musica di circostanza.

I vecchi, al caldo nelle baracche, canticchiano la melodia mentre gli uomini, sul punto di

ritornare’contadini tedeschi liberi’, discutono delle loro prospettive future…

Lunedì 4 gennaio. Spunta l’alba. I bambini dormono ancora. Avvolti nella penombra,

uomini e donne caricano i furgoni. Infine viene dato un segnale. Il convoglio si mette in moto,

lascia Zamosc, avanza sulla terra conquistata, si avvicina a un villaggio. ‘Tutt’intorno, nel

raggio di molti chilometri, regna ovunque ancora la quiete; le case, i granai, le stalle si

stagliano nel paesaggio come fossero morti. Non si vede neppure un uomo; non si

ode nessun rumore’.

Paesaggio-oggetto da modellare, terra defunta da rianimare; al lettore tedesco di indovinare

perché e da quando vi regnano questo silenzio, questa quiete e questa vacuità.

Paesaggio-trofeo da trasformare.

Una porta si apre all’improvviso.

Il capo del villaggio, col piano catastale in mano, si tiene pronto ad accogliere i suoi

abitanti; vestito con l’uniforme nera della SS, è un tedesco del REICH.

Quel contadino soldato è circondato da donne, sia reclute del servizio civile sia infermiere

del Soccorso popolare-nazionalsocialista  o ragazze del BDM. Donne che hanno preparato

tutto per i nuovi arrivati e acceso i camini.

Malgrado il ‘calore’ di questa accoglienza, regna, così ci vien detto, ‘una strana atmosfera’.

‘Dove sarà la mia fattoria?’

Un primo furgone occupato da un vedovo e dai suoi sette figli prosegue il cammino

attraverso la frazione in direzione dei campi. Si incrocia una prima casa.

L’accompagnatore grida ‘QUI !’.

IL COLONO arresta i suoi cavalli, scende, entra pensieroso nella ‘sua’ fattoria, poi va

alla stalla ed esamina il bestiame del suo predecessore e benefattore suo malgrado, verifica

se le macchine agricole funzionano. Quindi, ‘lento e pesante, avanza sulle zolle di terra

gelata verso i campi, si china gratta il suolo e annuisce col capo in segno di evidente

soddisfazione’.

Ma non c’è un minuto da perdere, bisogna ‘mettere in ordine in questa tenuta’.

Comincia una giornata di lavoro alla tedesca.

‘UN VILLAGGIO SI DESTA A UNA VITA NUOVA E MIGLIORE’.

(Conte/Essner, Culti di sangue antropologia del nazismo)

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I PICCOLI UOMINI DELLA TUNDRA

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orrore di altri mondi

l’uomo bianco nella terra bianca

Da:

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“Lindbergh” mi fece conoscere Aslak, un lappone di quelli che

hanno lasciato le montagne, un ragazzone che si adegua al

mondo, e per farsi fotografare dai turisti, con la tunica sgar-

giante – in divisa, se vogliamo – pretende un concreto ricono-

scimento, ma deve studiare e andare in città, se vuol far car-

riera come suo fratello Mutti, che è avvocato, o come Niila,

che lavora in una segheria, o come Journi, che è un bravo

mercante.

E poi si sa che molte cose sono cambiate, e anche i pastori a-

scoltano col transistor le previsioni del tempo, da che parte

si scatena la tempesta, al villaggio è arrivato il juke-box, per

coordinare il raduno del gregge alcuni adoperano il walkie-

talkie, e ci sono dei signori che possiedono più di 10.000 capi,

che si consentono l’elicottero per seguire dall’alto il lento mi-

grare della mandria o per sparare su un branco di lupi.

Aslak mi concesse la sua benevolenza, incoraggiata anche

da stufato di alce con salsa di mirtilli, trota affumicata e ce-

trioli, torta di lamponi; e da rispettosi silenzi riempiti da

qualche brindisi, e da infinite tazze di un lungo caffè, che è

la bevanda nazionale.

Io non gli chiesi mai, come mi avevano raccomandato, quan-

te renne possedesse, lui non volle sapere a quanto ammonta-

va il mio deposito in banca.

Tutti e due delicatissimi.

– Siamo il più antico popolo d’Europa, e il più misterioso.

Si sa poco di noi, neppure quanti sono rimasti (30, 35.000, for-

se), e non contiamo nulla. Una minoranza che non ha peso, e

non vuole neppure averlo.

Senza dramma.

La Lapponia è una realtà geografica, che non ha confini preci-

si. Finiscono addosso a noi quattro Stati: Svezia, Norvegia, Fin-

landia e Urss.

– Lappone, che cosa vuol dire? In svedese ‘correre’ e noi siamo

dei grandi camminatori; in finlandese ‘le terre remote dell’estre-

mo settentrione’ o anche ‘sconoscute’; per qualcun altro signifi-

ca ‘l’ultima frontiera’.

– Di certo, non si sa neppure da dove veniamo: qualcuno so-

stiene che avevamo i nonni mongoli, come gli indios, i cinesi,

gli eschimesi, gli ungheresi. La sola cosa che tutti sono d’accor-

do nel riconoscerci – oltre al fatto che siamo i più piccoli di sta-

tura e già i VICHINGHI per questo ci sfottevano -, è che i no-

stri antenati, 4000 anni fa, guardarono il piede piatto della ren-

na, che scivolava sulla neve, ebbero la buona idea di inventare

gli sci, e un cronista medioevale narra la meraviglia di quegli

uomini che su due pezzi di legno curvati riescono a raggiunger

le bestie selvagge.

– Siamo tipo che si sono sempre contentati di poco, pur di essere

liberi; già Tacito ci criticava, perché pretendevamo – vagabon-

dando, andando contro la natura, il rischio, la solitudine, l’igno-

to – di essere più felici di quelli che si fermavano a sudare nei

campi.

– Ma noi dobbiamo sempre inseguire qualcuno: o i salmoni che

risalgono la corrente per seminare le uova, o la renna randagia

che va a cercare il licheno o la foglia.

(Enzo Biagi, Scandinavia)





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