I’ HO SI’ POCO DI QUEL CH’I’ VORREI

I  ho  sì  poco  di  quel  ch’i’  vorrei,

ch’i’  non  so  ch’i’  potesse  menomare;

e  sì  mi  poss’un  cotal  vanto  dare,

che  del  contraro  par  non  travarei;

ché  s’i’  andass’al  mar,  non  credarei

gocciola  d’acqua  potervi  trovare:

sì  ch’i  son  oggimai ‘n  sul  montare,

ché,  s’i’  volesse, scender  non  potrei.

Però  malinconia  non  prenderaggio,

anzi  m’allegrerò  del  mi’  tormento,

come  fa  del  rie  tempo  l’om  selvaggio.

Ma’  che  m’aiuta  sol  un  argomento:

ch’i  aggio  udito  ad  un  om  saggio

che  ven  un  dì,  che  val  per  più  di  cento.

(Cecco Angiolieri)

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IL RIMPATRIO

Tutte le notti, durante il sonno, furtivamente mi invadeva la febbre: una febbre intensa,

di natura sconosciuta, che toccava il suo massimo verso il mattino.

Mi svegliavo prostrato, cosciente solo a mezzo, e con un polso, o un gomito, o un

ginocchio, inchiodati da dolori lancinanti.

Giacevo così, sul pavimento del vagone o sul cemento delle banchine, in preda al

delirio e al dolore, fin verso mezzoggiorno: poi, entro poche ore, tutto rientrava

nell’ordine, e verso sera mi sentivo in condizioni pressoché normali.

Leonardo e Gottlieb mi guardavano perplessi e impotenti.

Il treno percorreva pianure coltivate, città e villaggi foschi, foreste dense e selvagge,

che credevo scomparse da millenni dal cuore dell’Europa: conifere e betulle talmente

fitte che, per attingere la luce del sole, dalla reciproca concorrenza erano costrette a

spingersi disperatamente all’insù, in una verticalità opprimente.

Il treno si faceva strada come in gallerie, in una penombra verde-nera, frammezzo

ai tronchi nudi e lisci, sotto la volta altissima e continua dei rami fittamente intralciati.

Rzeszow, Przemysl dalle truci fortificazioni, Leopoli.

A Leopoli, città-scheletro, sconvolta dai bombardamenti e dalla guerra, il treno sostò

per tutta una notte di diluvio. Il tetto del nostro vagone non era stagno: dovemmo

scendere, e cercare riparo. Con pochi altri, non trovammo di meglio che il sottopassaggio

di servizio: buio, due dita di fango, e feroci correnti d’aria.

Ma a metà notte giunse puntuale la febbre, come una pietosa mazzata sul capo, a

portarmi il beneficio ambiguo dell’incoscienza.

Ternopol, Proskurov.

A Proskurov il treno giunse al tramonto, la locomotiva fu staccata, e Gottlieb ci assicurò

che fino al mattino non saremmo ripartiti. Ci disponemmo pertanto in stazione.

La sala d’aspetto era molto ampia: Cesare, Leonardo, Daniele ed io prendemmo

possesso di un angolo, Cesare partì per il paese in qualità di addetto alla sussistenza,

e tornò poco dopo con uova, insalata e un pacchetto di tè.

Accendemmo un fuoco sul pavimento.

Cesare fece cuocere le uova, e preparò un tè abbondante e bene zuccherato.

Ora, o quel tè era ben più gagliardo di quello nostrano, o Cesare doveva aver sbagliato

le dosi: poiché in breve ogni traccia di sonno e di stanchezza fuggì da noi, e ci sentimmo

invece vivificati da uno stato d’animo inconsueto, alacre, ilare, teso, lucido, sensibile.

Perciò, ogni fatto e ogni parola di quella notte è rimasto impresso nella mia memoria,

e ne posso raccontare come di cose di ieri. 

La luce del giorno svaniva con estrema lentezza, prima rosea, poi viola, poi grigia; seguì

lo splendore argenteo di un tiepido plenilunio.

Accanto a noi, che fumavamo e discorrevamo vivacemente, sedevano su una cassetta

di legno due ragazze vestite di nero, molto giovani. Parlavano fra loro: non in russo 

bensì in yiddish.

– Capisci cosa dicono? – chiese Cesare.

– Qualche parola.

– Dài, allora: attacca. Vedi se ci stanno.

Quella notte tutto mi sembrava facile, perfino capire il yiddish.

Con audacia inconsueta, mi rivolsi alle ragazze, le salutai, e sforzandomi di imitarne

la pronunzia chiesi loro in tedesco se erano ebree, e dichiarai che anche noi quattro

lo eravamo.

Le ragazze scoppiarono a ridere: ” Voi non parlate yiddish: dunque non siete ebrei!”

Nel loro linguaggio, la frase equivaleva ad un rigoroso ragionamento.

Eppure eravamo proprio ebrei, spiegai.

Ebrei italiani: gli ebrei, in Italia e in tutta l’Europa occidentale, non parlano yiddish.

Questa, per loro, era una grande novità, una curiosità comica, come se qualcuno

affermasse che esistono francesi che non parlano francese…..

(Primo Levi, La Tregua)

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L’IMPALATORE (2)

– Guarda, guarda!                                                                           romania.jpg

– evidentemente gli era bastata un’occhiata –

“una è scritta da voi, e al mio amico

Peter Hawkins. 

L’altra…”

e a questo punto ha notato gli

strani caratteri, e il volto gli si

è oscurato, gli occhi hanno avuto

un lampo perfido – ” l’altra E’ UNA

COSA INDEGNA, UN OLTRAGGIO, ALL’AMICIZIA E ALL’OSPITALITA’!

Non è firmata. Bene, qund’è così NON CI INTERESSA…”

E, con tutta tranquillità, ha avvicinato lettera e busta alla fiamma della lampada,

(non oserai quelle rime….sono solo fuoco che brucia…tu essere….), fino a 

ridurle in cenere. 

Poi ha proseguito.

” La lettera a Hawkins…Be’, quella naturalmente la spedirò, visto che è priva di 

materia, e visto che è vostra. Le vostre missive per me sono sacre. 

VOGLIATE SCUSARMI, AMICO MIO, SE HO SPEZZATO IL SIGILLO, ma sono 

tzigano anche io e all’oscuro ….

Non volete richiuderla?”

Mi ha porto la lettera e, con un corretto inchino DA PRINCIPE, mi ha dato una 

busta nuova. No ho potuto far altro che riscrevere l’indirizzo e consegnargliela

in silenzio.

Qand’è uscito dalla stanza, ho udito una chiave girare piano nella serratura.

Un istante dopo, sono corso all’uscio, l’ho tentato: era serrato.

Quando un paio d’ore dopo, il Conte è tornato in silenzio nella stanza, mi ha risvegliato

perchè ero addormentato sul divano. 

I suoi modi sono apparsi estremamente cortesi e cordiali; avvedutosi che avevo 

dormito, ha detto: ” Oh, amico mio, siete stanco? Andate a letto. E’ quello il miglior

luogo di riposo. Questa sera può darsi che io non abbia il piacere di conversare con 

voi, perché ho molte INCOMBENZE DA SBRIGARE. Ma voi dormite pure, ve ne prego.”

Sono andato in camera mia e mi sono messo a letto e, strano a dirsi, ho dormito senza 

sogni. 

La disperazione ha le sue calme.

(Bram Stoker, Dracula)

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