Tutte le notti, durante il sonno, furtivamente mi invadeva la febbre: una febbre intensa,
di natura sconosciuta, che toccava il suo massimo verso il mattino.
Mi svegliavo prostrato, cosciente solo a mezzo, e con un polso, o un gomito, o un
ginocchio, inchiodati da dolori lancinanti.
Giacevo così, sul pavimento del vagone o sul cemento delle banchine, in preda al
delirio e al dolore, fin verso mezzoggiorno: poi, entro poche ore, tutto rientrava
nell’ordine, e verso sera mi sentivo in condizioni pressoché normali.
Leonardo e Gottlieb mi guardavano perplessi e impotenti.
Il treno percorreva pianure coltivate, città e villaggi foschi, foreste dense e selvagge,
che credevo scomparse da millenni dal cuore dell’Europa: conifere e betulle talmente
fitte che, per attingere la luce del sole, dalla reciproca concorrenza erano costrette a
spingersi disperatamente all’insù, in una verticalità opprimente.
Il treno si faceva strada come in gallerie, in una penombra verde-nera, frammezzo
ai tronchi nudi e lisci, sotto la volta altissima e continua dei rami fittamente intralciati.
Rzeszow, Przemysl dalle truci fortificazioni, Leopoli.
A Leopoli, città-scheletro, sconvolta dai bombardamenti e dalla guerra, il treno sostò
per tutta una notte di diluvio. Il tetto del nostro vagone non era stagno: dovemmo
scendere, e cercare riparo. Con pochi altri, non trovammo di meglio che il sottopassaggio
di servizio: buio, due dita di fango, e feroci correnti d’aria.
Ma a metà notte giunse puntuale la febbre, come una pietosa mazzata sul capo, a
portarmi il beneficio ambiguo dell’incoscienza.
Ternopol, Proskurov.
A Proskurov il treno giunse al tramonto, la locomotiva fu staccata, e Gottlieb ci assicurò
che fino al mattino non saremmo ripartiti. Ci disponemmo pertanto in stazione.
La sala d’aspetto era molto ampia: Cesare, Leonardo, Daniele ed io prendemmo
possesso di un angolo, Cesare partì per il paese in qualità di addetto alla sussistenza,
e tornò poco dopo con uova, insalata e un pacchetto di tè.
Accendemmo un fuoco sul pavimento.
Cesare fece cuocere le uova, e preparò un tè abbondante e bene zuccherato.
Ora, o quel tè era ben più gagliardo di quello nostrano, o Cesare doveva aver sbagliato
le dosi: poiché in breve ogni traccia di sonno e di stanchezza fuggì da noi, e ci sentimmo
invece vivificati da uno stato d’animo inconsueto, alacre, ilare, teso, lucido, sensibile.
Perciò, ogni fatto e ogni parola di quella notte è rimasto impresso nella mia memoria,
e ne posso raccontare come di cose di ieri.
La luce del giorno svaniva con estrema lentezza, prima rosea, poi viola, poi grigia; seguì
lo splendore argenteo di un tiepido plenilunio.
Accanto a noi, che fumavamo e discorrevamo vivacemente, sedevano su una cassetta
di legno due ragazze vestite di nero, molto giovani. Parlavano fra loro: non in russo
bensì in yiddish.
– Capisci cosa dicono? – chiese Cesare.
– Qualche parola.
– Dài, allora: attacca. Vedi se ci stanno.
Quella notte tutto mi sembrava facile, perfino capire il yiddish.
Con audacia inconsueta, mi rivolsi alle ragazze, le salutai, e sforzandomi di imitarne
la pronunzia chiesi loro in tedesco se erano ebree, e dichiarai che anche noi quattro
lo eravamo.
Le ragazze scoppiarono a ridere: ” Voi non parlate yiddish: dunque non siete ebrei!”
Nel loro linguaggio, la frase equivaleva ad un rigoroso ragionamento.
Eppure eravamo proprio ebrei, spiegai.
Ebrei italiani: gli ebrei, in Italia e in tutta l’Europa occidentale, non parlano yiddish.
Questa, per loro, era una grande novità, una curiosità comica, come se qualcuno
affermasse che esistono francesi che non parlano francese…..
(Primo Levi, La Tregua)
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