Trentasei ore di diretto mi conducono in un fiato
da Milano a Reggio Calabria; scendo, disimballo
la bicicletta che avevo difesa per precauzione di
quei 1400 km, di ferrovia, e riparto immediatamente.
Sono le 9 del mattino.
I primi venti chilometri corrono presso a poco piani
lungo il mare, costeggiando lo stretto di Messina.
La Sicilia è a circa tre chilometri di distanza: il canale
ha qualche somiglianza col Lago Maggiore.
Tre grossi vapori solcano lo specchio azzurro lasciandosi dietro una larga scia divergente.
Messina è schierata di fronte, candida nel sole brillante delle Madonie, non tanto alte
da nascondere a sinistra il cono nevoso dell’Etna.
Lungo la spiaggia innumerevoli imbarcazioni da pesca e di piccolo cabotaggio, reti, argani
per trarre le barche in secco, piccoli cantieri per calafati, lavanderie, qualche rudimentale
stabilimento di bagni, casotti di finanzieri, frotte di ragazzi e ragazze a gambe nude che
fanno il chiasso, pescano colla lenza o raccolgono frutti di mare: una spiaggia formicolante
di vita come quella ligure.
La campagna è ridente, simile a quella dei dintorni di Napoli, con una nota di maggior
rigoglio. Si è sempre tra aranceti e limonaie in un inebriante acuto profumo di fiori d’arancio,
di cedro, di limone, di bergamotto: sono le nozze della natura.
Il paese, qui, è industriale: numerose e importanti filande di seta, parecchie con una architettura
disadatta di chiese mal riuscite. L’occhio, dalle finestre, vede interni disposti bene, con
macchine perfezionate. Molti capitali sono d’inglesi, altri – e furono ritirati con jattura grave –
delle banche, massime della Generale.
Di tanto in tanto nel mare, tranquillo e senza increspature appare come un filo bianco di
spuma, che si allunga, si allunga fino a mezzo chilometro contorcendosi come un serpente,
come se un grosso cetaceo corresse colla schiena al filo dell’acqua. E un gorgo, un innocente
gorgo di quelli che ai poeti disoccupati dell’antichità suggerirono la fola di Scilla e Cariddi:
oggi anche le più fragili barchette vi si avventurano senza pensarci più che tanto.
Incontro verso Villa San Giovanni una bicicletta, l’unica che vedrò fino a Salerno.
Messina resta addietro; costeggio di fronte la riviera meravigliosa del Faro: ua miriade di
casette e di paesi lungo il mare si insegue sino alla punta estrema della Sicilia, che
sembra immergersi nelle onde, come digradando. Soltanto la torre del Faro, col cupolino
che dai cristalli rimanda i bagliori acciecanti del sole, si stacca diritta e affusolata sulle
acque azzurre come sentinella avanzata. E più avanti, nell’atmosfera infuocata, il gran
dosso di un monte solitario emergente dal mare: è lo Stromboli.
Una donna mi saluta e mi dice: – Venite dall’America?
Evidentemente il mio aspetto da viaggio, che del resto nulla ha di straordinario, le pare
oltremarino. Corro in mezzo a siepi magnifiche di frangola, di rovi in fiore, di ginestre
tutte gialle, di lunghi cespugli di gaggie odoranti. In quell’istante il dolcissimo ritmo di
Lola sembra sprigionarsi da ogni fiore, da mare, dal cielo rovente, dai profumi acuti:
Fior di gaggiolo
di angeli belli è pieno il cielo…..,
e lo scintillante volar delle ruote sulla strada bianca si accorda così bene coll’ambiente, che
la mia non è una corsa, è….una poesia biciclettata.
Di mezzo in mezzo chilometro, davanti alla spiaggia, a quattro o cinqucento metri da terra
sta ferma una barca, come avamposto in vedetta. Nella barca due o tre rematori pronti a
vogare, sulla prua, ritto, un fiociniere in attitudine di gladiatore che lancia il giavellotto;
nel mezzo della barca è inflitto un palo alto tre metri, alla cui estremità poggiando i
piedi su due denti di legno sta attaccato un uomo che spia.
E’ tutto l’attiraglio per la pesca del pesce spada, che la spia vede in distanza, che i rematori
rincorrono, che il fiociniere trapassa.
(Luigi Vittorio Bertarelli, Insoliti viaggi, l’appassionante diario di un precursore)