NEMESI

E’ stato scritto nelle sinistre                                           lovecraft2.jpg

prime ore della cupa

mattina di Ognisanti,

il che potrebbe dar

conto del tono e dell’

atmosfera. Presenta il

concerto, accettabile

per la mente ortodossa,

che gli incubi

costituiscano la

punizione inflitta

all’anima per colpe

commesse in una

precedente incarnazione, forse milioni di anni prima!

NEMESI

Oltre le cupe soglie del sopore

vigilate dai ghoul,

oltre i notturni abissi della luna,

ho vissuto esistenze senza numero,

ho sondato ogni cosa col mio

sguardo

e grido disperato ad ogni aurora

perché divento folle di terrore.

Ruotavo con la Terra al suo mattino,

quando il cielo era un turbine di 

fiamma;

ho vissuto il cosmo oscuro spalancarsi

là dove neri mondi vagan senza

scopo,

vagano nell’orrore inavvertiti,

senza fama né nome né

coscienza.

Ho aleggiato sui mari sconfinati,

sotto sinistri cieli grigio-piombo,

lacerati da fòlgori improvvise,

fra tuoni come grida di terrore,

coi gemiti di dèmoni invisibili

emersi dalle acque di

smeraldo.

Come un daino ho sostato sotto gli

archi

delle grandi foreste primordiali,

ove s’avverte la Presenza Immonda,

in luoghi dagli spettri anche

evitati,

alla Casa che Avvinghia son

sfuggito, a Colei che

sogghigna dietro i rami.

Sui monti crivellati di caverne

che si levano squallidi dal piano

ho bevuto acque infette dalle rane,

che filtran dagli stagni e dagli scoli;

ed in fonti maledette ho

visto cose che non oso dire.

Ho visto un gran palazzo cinto

d’edera,

nelle sue sale vuote sono entrato,

dove la luna alta sulle valli

proietta strane ombre sulle mura:

apparenze deformi ed intrecciate, il

cui ricordo non oso

richiamare.

Ho spiato dubbioso nelle case,

da giardini in rovina circondate,

di un villaggio maledetto cinto

da un lugubre terreno sepolcrale:

e dai lunghi filari d’urne bianche ho

ascoltato levarsi voci arcane.

Ho sostato fra tombe di millenni,

ho volato su vette di terrore

là dove infuria l’Erebo fumante,

dove s’ergono picchi desolati;

e in regni dove il sole del deserto

consuma ciò che mai può

rallegrare.

Ero già vecchio quando i Faraoni

salirono sul trono presso il Nilo;

ero vecchio nell’epoca lontana

in cui io solo davo corpo al male,

ed innocente aveva sede l’uomo

nell’isola felice dell’Antartide.

Oh, grande fu la colpa del mio

spirito,

e atroce è la vendetta del destino.

Né la pietà del Cielo può placarmi,

né il sepolcro può darmi alcun

riposo:

da ère interminate per me battono le

ali d’un dolore sconfinato.

Oltre le cupe soglie del sopore,

vigilate dai ghoul,

oltre i notturni abissi della luna,

ho vissuto esistenze senza numero,

ho sondato ogni cosa col mio

sguardo

e grido disperato ad ogni aurora perché

divento folle dal terrore.

(Lovecraft)

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IL MELOGRANO: OVVERO L’ETERNO RITORNO (6)

Nel Rinascimento la granata, che sotto                           melograno.jpg

la sua scorza raccoglie

armonicamente i grani

color del rubino, era

considerata sacra a

Giunone come

‘conservatrice dell’

unione dei popoli’,

visti come tanti chicchi,

e suscitatrice di concordia

nella grande famiglia

sociale. Perciò, spiegava

alla fine del XVI secolo Cesare

Ripa nella sua ‘Iconologia’, si raffigurava la Concordia come ‘una bella donna che mostra gravità

e tiene nella mano destra una tazza con un pomo granato, nella sinistra uno scettro che in

cima abbia fiori e frutti di varie sorti, in capo haverà una ghirlanda di mele granate con le

foglie e i frutti’. A sua volta l’Accademia, come congregazione di molte persone riunite per

perseguire un fine intellettuale comune, era simboleggiata dalla mela granata, la quale

infine concorreva a formare l’immagine della Conversazione: un uomo giovane, allegro e

ridente, vestito pomposamente con un abito verde, il capo cinto da una ghirlanda di alloro

e nella mano sinistra un caduceo che, invece delle due serpi allacciate, presenta un ramo

di mirto e uno di melograno, entrambi fioriti; e sopra le alette una lingua umana. Il giovane

è ritratto nell’atto di far riverenza, con una gamba sospinta indietro, mentre sul braccio

destro, teso in avanti come per abbracciare o ricevere un abbraccio, pende un nastro che

reca il motto ‘Veh soli’.

‘Il ramo della mortella e del pomo granato’, spiega il Ripa ‘ambidue fioriti con bei rivolgimenti

intrecciati insieme, significano che nella Conversatione conviene che vi sia unione e vera

amicizia e che anche le parti rendano di sé scambievolmente buonissimo odore e pigliare

insieme dalle dette piante, essendo tra di loro si amano tanto che, quantunque posti lontanetti

l’una dall’altra radice, si vanno a trovare e si avviticchiano insieme a confusione di chi sfugge

la Conversatione’. L’uomo è giovane perché secondo l’iconografia i giovani si diletterebbero

più degli anziani a vivere insieme. E’ ridente e vestito di verde perchè questo colore indurrebbe

all’allegria. L’alloro ammonisce a rendere ogni conversazione virtuosa e mai viziosa. La lingua

sopra le alette ci ricorda che la natura ha dato parola all’uomo non perchè parli con sé

medesimo, ma perché esprima amore e affetto agli altri. L’atto di far riverenza e il braccio

aperto dimostrano a loro volta che conversando occorre essere cortesi e benigni verso chi è

degno della ‘vera e virtuosa conversatione’.

Anche un poeta del Novecento volle ispirarsi al melograno. 

Nel vestibolo della Priora, al Vittoriale degli Italiani, una colonna di pietra dono di Assisi a

Gabbriele d’Annunzio, sostiene un canestro colmo di melograne. Quei frutti, che in vetro, in 

pietra, in rame, disseccati o dipinti, sono sparsi in ogni stanza, non sono una decorazione 

causale: molti anni prima infatti, nel 1898, egli aveva voluto intitolare ‘I romanzi del melograno’

un ciclo narrativo di cui scrisse soltanto la prima opera, ‘il fuoco’, per trarre delle melegrane,

che in autunno, schiudendosi, lasciano intravedere i grani rossi, il simbolo della fecondità del

poeta. 

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

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LA BICICLETTA (l’amante segreta) (10)

Le fascie di caoutchoux vennero applicate                     michaud1.jpg

alle ruote del velocipedi

quando ancora non si era

sostituito ferro al legno,

e le prime applicazioni

furono di gomma pura,

coperta di cuoio o di

zinco perché troppo

molle.

Il processo di

galvanizzazione

permise più tardi di

munire le ruote di gomma

piene resistenti a sufficienza,

e tali da difendere

efficacemente il

velocipedista

dai sobbalzi incomodi e 

pericolosi causati dalle ineguaglianze del suolo.

Nel frattempo l’Inghilterra, paese classico del ferro e dell’acciaio, contribuiva in gran parte a

sostituire il ferro al legno nella costruzione dei velocipedi, nell’intento di renderli più leggeri.

Da allora ebbe inizio l’applicazione dei cuscinetti a sfere alle assi delle ruote, dai quali l’idea

prima pare sia sorta in America nel 1861, mentre alcuni l’attribuiscono a un costruttore

francese, Surinay, ed altri ancora ricordano invenzioni consimili nel 1857 e nel 1851. E’ 

però indubitabile che l’applicazione dei cuscinetti a sfera di acciaio costituì uno dei più

notevoli e più utili miglioramenti – soprattutto perché concesse ai ciclisti di quel tempo

 di raggiungere per la prima volta, senza necessità di sforzi in breve tempo esaurienti,

velocità di 10 e 12 chilometri l’ora. La scorrevolezza acquisita alle nuove macchine e la

relativa silenziosità del movimento, già favorita dalla applicazione delle fascie di gomma,

contribuirono non poco a conquistare al calunniato e disprezzato ed anche perseguitato 

ordigno un merito di praticità vera fino a quel punto ignoto. 

Narrano infatti le cronache come in quell’epoca si avesse la prima corsa velocipedista su

strada, Parigi-Rouen, vinta dall’inglese S. Moore, il quale coprì i 120 chilometri di distanza

in dieci ore e tre quarti. E si afferma sia stato questo il primo saggio di propaganda 

popolare dello sport ciclistico, ben che assai maggiore importanza abbia assunta, pure

in Francia, la prova compiuta                                                velocipede-and-motorcycle.jpg

alcuni anni più tardi ,

nel 1875, in occasione

del celebre record

Parigi-Vienna. 

La distanza che 

separa queste due

città (1252 km.), fu

percorsa in 12 giorni

e 10 ore da Laumaillé,

e da Pagis del Vélo di 

Parigi, con una media

giornaliera di oltre 100

chilometri! Prova che anche oggi appare meravigliosa, quando si rifletta che essa fu compiuta

su strade pessime in quel tempo e con macchine affatto primitive, se paragonate alle agili e

comode biclette attuali. Appunto nel 1875 l’ingegnere Truffault, costruttore di Tours, formò

per la prima volta di ferro vuoto le intelaiature dei velocipedi, applicando anche i cerchioni

vuoti o incavati e raggiungendo un grado di leggerezza relativa certamente notevole. E in 

quel volger di tempo venivano pure modificandosi i modelli-tipo di velocipede.

Il velocipedista, mancando ancora qualsiasi sistema di moltiplicazione ed essendo le ruote

non molto alte, doveva imprimere ai pedali un movimento assai rapido per ottenere una

certà velocità, non proporzionata d’altronde allo sforzo sviluppato.

(U. Grioni, Il ciclista)

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