VIAGGI IN ALTRI MONDI: IL JAZZ (Gerry Mulligan)

Per molti amatori del                                              Gerry_Mulligan.jpg

jazz Gerry Mulligan è

l’ultimo grande che abbia

fatto della musica accettabile

prima che venisse il caos.

Per tanti altri invece

è stato l’ultimo dei borghesi:

un conservatore che si

presentò sotto le mentite

spoglie dell’innovatore

per fare della blanda

musica di consumo,

ben costruita e gradevole

quanto disimpegnata.

Mulligan, in verità è

un personaggio emblematico,

uno di quelli che vengono portati

a esempio di un certo modo di

concepire e di gustare il jazz:                                           Mulligan Monterey.jpg 

un modo ‘bianco’, per certi

aspetti antitetico a quello

‘negro’, e questo basta,

agli occhi di molti, per

contestarne il valore.

Non agli occhi di alcuni

illustri musicisti negri, ad

ogni modo. Miles Davis,

per cominciare, non ha

nascosto la sua ammirazione

per lui; e il compositore George

Russell, che gli fu vicino nel

primo periodo della carriera,

non ha esitato a definirlo ‘il più

importante innovatore degli

anni 50.

Comunque lo si voglia giudicare,

non si può negare che Mulligan

fu il solista che fece parlare di sé,                                             mulligan.jpg

più di ogni altro, negli anni 50,

e che esercitò la più forte

influenza su gran parte del jazz

prodotto in quel periodo.

La sua apparizione in mezzo ai

protagonisti della scena del jazz

fu pressoché improvvisa, e fu 

sensazionale. 

Ebbe luogo nel 1948, quando

alcuni musicisti che gravitavano

attorno a Gil Evans si riunirono

sotto la guida di Miles Davis per

esibirsi per un paio di settimane al

Royal Roost, a Broadway, e per 

incidere nei mesi successivi una 

serie di dischi rimasti famosi.

A quel tempo Gerald

Mulligan, un ragazzo                                             saxmulligan.jpg

allampanato dai corti

capelli biondo-rossicci, di origine

irlandese, era sconosciuto ai più.

Era nato a New York il 6 aprile

1927, ma aveva trascorso l’infanzia

e l’adolescenza in diverse località

degli Stati Uniti, e da ultimo a 

Filadelfia; a New York era 

tornato soltanto da un paio d’anni,

dopo aver lavorato soprattutto come

arrangiatore per le orchestre da ballo

di Tommy Tucker e di Elliot Lawrence.

Era stato poi assunto, per un anno, come

arrangiatore per l’orchestra di Gene Krupa,

per cui scrisse un azzeccato ‘Disc jockey jump’,

e quindi nella formazione di Claude Thornhill,

in cui era stato introdotto da Gil Evans e nella

quale incontrò Lee Konitz.

Si è già avuto occasione di dire delle serate trascorse nell’appartamento di Evans e

della nascita del complesso di Davis e dei suoi dischi per la Capitol, che costituirono

i più felici esempi di cool jazz. Il ruolo avuto da Mulligan in quell’impresa fu di grande

rilievo: l’idea di utilizzare il suono (quello cioè dato dai corni e dal basso tuba) dell’

orchestra di Thornhill in un suo gruppo squisitamente jazzistico fu infatti sua e di Evans,

e suoi furono alcuni degli arrangiamenti più belli da esso eseguiti: Godchild Jeru,

Rocker e Venus de Milo. I mesi che seguirono la prima esibizione con quel complesso

furono molto difficili per Mulligan, non soltanto perché stentava a trovare lavoro ma

perché era divenuto ormai prigioniero dell’eroina.

Di quel periodo si ricordano le prime incisioni realizzate sotto suo nome, per la Prestige,

con un gruppo di studio in cui erano George Wallington e il tenorsassofonista Allen

Eager, due brevi associazioni coi suoi vecchi capiorchestra Tommy Tucker e Claude

Thornhill, le prove fatte al Central Park con una grande formazione che non trovò

mai una scrittura, e la sua affettuosa amicizia con Gale Madden, una donna famosa

per il suo non conformismo e che esercitò su di lui un’influenza notevole. Fu lei a

convincerlo a lasciare New York, nella primavera del 1951, e ad accompagnarlo verso

Ovest, in cerca di fortuna. 

(A. Polillo, Jazz)

…a proposito di jazz

http://www.terranews.it/opinioni/2010/11/cena-segreta-grana-al-banco

da http://giulianolazzari.splinder.com

desmond e mulligan.jpg

 

 

 

  

1446 DA FIRENZE A BRUGES: LA STRADA DELLA BANCA (3)

Precedenti capitoli:

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2010/11/08/1446-da-firenze-a-bruges-la-strada-della-banca.html

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2010/11/08/1446-da-firenze-a-bruges-la-strada-della-banca-2.html

Al momento, nella pianura                                                italia.jpg

umida d’acque, sotto un

cielo azzurro verso cui

salivano dai comignoli

solo fiumi di legna, si

alzavano sopra i tetti

le muraglie del duomo

eternamente in

costruzione.

Anche le campagne di

Novara, terra viscontea,

ricorderanno al

Commynes

le Fiandre:

fossi profondi ai due lati della strada, gran fango d’inverno, polvere d’estate. Fra l’altro,

è in quegli anni che si cominciava a coltivare il riso in Lombardia. A Vercelli si entrava

nelle terre del duca di Savoia. Francesco Janis dice che nelle osterie si vende vino, bianco

o rosso di ‘dolce sapor’: viene da Monferrato.

Tra Firenze e Bruges vi sono quasi otto gradi di latitudine. E’ un viaggio dal Mediterraneo

all’Europa settentrionale con tutto quello che significa. Qui d’estate le giornate sono più

lunghe e i crepuscoli più lenti, d’inverno sono più lunghe le notti; il sole è meno intenso,

il cielo più frequentemente opaco. Da una parte sempre un panorama raccolto di colli,

con fruscianti ulivi e i cipressi lungo i sentieri, i colori intensi; dall’altra i colori sono più

morbidi, gli orizzonti più vasti, ma smorti e spesso inafferrabili per le brume. E’ facile

supporre queste o analoghe sensazioni seguendo il cavallo di Gerozzo. Più difficile 

ritrovarsi nella sua geografia politica. Per noi l’itinerario significa percorrere Italia,

Svizzera, Francia, Belgio. L’Italia e il Belgio non esistevano in quanto entità politiche,

la parte di Svizzera che si percorre non era ancora Svizzera, la parte di Francia non

era del tutto Francia. Da Vercelli sino a Bruges si viaggiava per due formazioni del

tutto singolari: gli stati sabaudi e quelli borgognoni. Il ducato sabaudo – i Savoia 

erano duchi dal 1416 per concessione dell’imperatore Sigismondo – era una bizzarra

costruzione dinastica feudale, in quel momento al suo vertice: un insieme di terre

non particolarmente pingui, fitte di castelli annidati in impervie vallate e di un 

numero limitato di centri urbani, comunali, poco popolosi. Si estendeva sui due

versanti delle Alpi tra il mare e il lago di Neuchatel, da Vercelli fino a poca distanza

da Lione e dal corso della Saona. 

Al valico transalpino si saliva da Aosta, sempre racchiusa nel suo perimetro romano.

Alcune famiglie di nobili                                   sanbernardo6.jpg

impossessatesi delle 

mura romane vi 

avevano frammischiato 

le torri dei loro

castelli. Il colle       

del Gran San Bernardo

(m 2473) è coperto di

neve nove mesi l’anno;

l’ospizio del valico nel

vallone aspro e desolato –

quattrocento anni prima

l’aveva fondato un

arcidiacono della

chiesa aostana,

Bernardo di Mentone,

da poco la zona

era stata                                                              sanbernardo4.jpg

ripulita dai saraceni

– era il più alto lungo il

percorso ma non l’unico.

La strada non era facile,

ma Amedeo VIII vi aveva

fatto passare le artiglierie,

persino in dicembre (1434).

I giovani del villaggio di

Saint-Rhemy, annidato in una

gola dieci chilometri prima e ottocento metri sotto il passo, avevano sostituito l’obbligo

feudale di prendere le armi con quello di tener sgombra la strada dalla neve e di

provvedere alla sicurezza dei viaggiatori.

Nella valle del Rodano (il Valais), in cui si scendeva, sul versante sinistro, nell’ombra

di rocce a picco, si incontrava l’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune. Ricordava Maurizio

e i suoi commilitoni della legione tebana, cristiani martirizzati undici secoli prima, e

possedeva già il suo prezioso tesoro: cofani reliquari di argento sbalzato o d’oro e

smalti, l’acquamanile orientale di Carlomagno e la teca con una spina della corona del

Cristo deriso, donata da san Luigi.

Sul lago di Ginevra si poteva proseguire per acqua o contornarne le rive, quella di vigne

al sole del paese di Vaud o quella di fronte del Chablais. Dominavano le rive grigi castelli,

Chillon e Morges da un lato, Evian e Thonon dall’altro. Erano alcuni di quelli per i

quali girovagavano perennemente i Savoia, che si muovevano per loro terre, portandosi

dietro utensili e arredi, perché le dimore erano alquanto spoglie; letti e altri mobili spesso

dovevano essere graziosamente dati in prestito dai sudditi ai principi e al seguito.

Ginevra, tra il lago, il Rodano e l’Arve, con lo scintillio dei ghiacci e l’aria fredda del

Monte Bianco, era città di sovranità vescovile, comune di borghesia attiva, ostinata

a difendere le sue libertà. La sua importanza economica più che per i commerci di

panni, formaggi, spezie e sale, i prodotti dei conciatori, pelletterie e orefici, veniva

dalla posizione all’incrocio delle vie dall’Italia alla Fiandra e dalla Germania meridionale

alla Spagna; forse ancor più dalle quattro fiere, per l’Epifania, la Pasqua, San Pietro in

vincoli e Ognisanti: vi convenivano uomini di affari di ogni parte d’Europa, erano il

mercato delle lettere di cambio, il principale strumento, allora, del credito, in 

sostanza la camera di compensazione della finanza internazionale. 

(L. Camusso,Guida ai Viaggi nell’Europa del 1492)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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ASSAGGI DI PIETANZA: LA CENA SVELATA (altre pitture)

– Ti rendi conto, ragazzo,                             rembrandt.jpg

diceva, le leggi di quel

Sicardi hanno abolito i

cosiddetti privilegi del

clero.

Perché abolire il diritto

di asilo nei luoghi sacri?

Forse che una chiesa ha

meno diritti di una

gendarmeria?

Perché abolire il tribunale

ecclesiastico per religiosi

accusati di delitti comuni?

La chiesa non ha forse diritto

di giudicare i suoi?

Perché abolire la censura

religiosa preventiva sulle

pubblicazioni? Forse che

ormai ciascuno può dire

quel che gli aggrada, senza ritegno e senza rispetto per la fede e per la morale?

E quando il nostro arcivescovo Fransoni ha invitato il clero di Torino a disobbedire

a questi provvedimenti, è stato arrestato come un malfattore e condannato a un mese

di carcere! E ora siamo arrivati alla soppressione degli ordini mendicanti e contemplativi,

quasi  seimila religiosi. Lo stato ne incamera i beni, e dice che serviranno per il pagamento

delle congrue ai parroci, ma se metti insieme tutti i beni di questi ordini raggiungi una

cifra che è dieci, che dico, cento volte tanto tutte le congrue del regno, e il governo spenderà

questi soldi per la scuola pubblica dove si insegnerà quello che agli umili non serve o 

non servirà per selciare i ghetti! E tutto all’insegna del motto ‘libera chiesa in libero

stato’, là dove chi è veramente libero di prevaricare è solo lo stato. La vera libertà è

il diritto dell’uomo di seguire la legge di Dio, di meritarsi il paradiso o l’inferno.

Ora invece s’intende per libertà la possibilità di scegliere le credenze e le opinioni

che più ti aggradano, dove una vale l’altra – ed è uguale per lo stato che tu sia massone,

cristiano, giudeo o seguace del Gran Turco. In tal modo si diventa indifferenti alla

Verità.

– E così, figlio mio, aveva pianto una sera il nonno, che nel suo marasma non mi

distingueva più da mio padre, e parlava ormai ansimando e gemendo, scompaiono

canonici lateranensi, canoci regolari di sant’Egidio, carmelitani calzati e scalzi, certosini,

benedettini cassinesi, cisternensi, olivetani, minimi, minori conventuali, minori dell’

osservanza, minori riformati, minori cappuccini, oblati di santa Maria, passionisti, 

domenicani, merercedari, servi di Maria, padri dell’Oratorio, e poi clarisse, crocifisse,

celestine o turchine, e battistine.

E, recitando quell’elenco come un rosario, in modo sempre più agitato e come se alla

fine avesse dimenticato di prendere fiato, aveva fatto portare in tavola il civet, con 

lardo, burro, farina, prezzemolo, mezzo litro di barbera, una lepre tagliata a pezzi

grossi come uova, cuore e fegato compresi, cipolline, sale, pepe, spezie e zucchero.

Si era consolato, ma a un certo punto aveva sbarrato gli occhi e si era spento, con

un rutto leggero. 

La pendola batte la mezzanotte e mi avverte che è da troppo tempo che scrivo quasi

ininterrottamente. Ora, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare più nulla degli 

anni che sono seguiti alla morte del nonno.

Mi gira la testa.

(Umberto Eco, Il cimitero di Praga)

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