NEXUS-6

Da  http://giulianolazzari.myblog.it

       http://pietroautier.myblog.it

– Il punto è che il suo test per la determinazione dell’empatia con mia

nipote ha fatto cilecca.

Le posso spiegare perché i risultato è simile a quello che avrebbe potuto

ottenere un androide.

Rachael è cresciuta a bordo del Salander 3.

Ci è nata.

Ha passato 14 dei suoi  16 anni nutrendosi della videoteca e di quello

che gli altri membri dell’equipaggio, tutti adulti, sapevano della Terra.

Poi come saprà, la nave ha invertito la rotta dopo aver percorso un sesto

del tragitto verso Proxima. Altrimenti Rachael non avrebbe mai visto

la Terra – comunque non fino a quando fosse stata molto più avanti

con gli anni.

– Mi avrebbe ritirato, disse Rachael volgendo solo il capo.

– A un controllo di polizia sarei stata ammazzata. Lo sapevo da quando

sono arrivata qui quattro anni fa. Non è la prima volta che mi fanno il

Voigt-Kampff. Infatti non esco quasi mai da questo palazzo.

Il rischio è enorme.

Per via dei blocchi stradali che voi poliziotti istituite, quella specie di

imbuti a sorpresa disseminati qui e là per incastrare gli androidi non

ancora classificati.

-E gli androidi, aggiunse Eldon Rosen.

– Solo che naturalmente al pubblico non lo si dice: non si vuole che si

sappia che gli androidi sono sulla Terra tra di noi.

– Non penso che ce ne siano, disse Rick.

– Credo che i vari corpi di polizia qui e nell’Unione Sovietica li abbiano

presi tutti. La popolazione si è abbastanza ridotta adesso; tutti, prima o 

poi, incappano in un posto di blocco volante.

Questa, comunque, era la filosofia di base.

– Che istruzioni aveva, chiese Eldon Rosen, nel caso le fosse capitato di

classificare come androide un essere umano?

– Segreto professionale……

( P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?)

 

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FINESTRA SULL’ANIMA

Da  http://giulianolazzari.myblog.it

http://pietroautier.myblog.it

Nel 1931 Godel ormai padroneggiava l’arte di usare un’analisi rigorosa

per trovare nuovi sentieri nel labirinto del pensiero autoreferenziale.

A ogni stadio della sua carriera apparve evidente che egli apriva nuovi

orizzonti concettuali: nei primi anni, segnati dai trionfi in matematica e

logica, nella seconda fase, in cui si rivolse a questioni di fisica, nella

speranza di ripetere i suoi precedenti successi; e negli ultimi anni, in cui

si dedicò principalmente alla riflessione su problemi filosofici.

Nella filosofia della matematica Godel era un platonista risoluto.

Assumeva che gli oggetti matematici esistessero da qualche parte oltre lo

spazio e il tempo, ma che non fossero per questo meno reali.

Nelle sue parole, ‘abbiamo una certa percezione degli oggetti della teoria

quantitativa, e ci formiamo anche le nostre idee di questi oggetti sulla base

di qualcosa che è direttamente dato’.

Non ci sono dubbi che questa sia una concezione platonica degli oggetti

matematici. Per il platonista gli oggetti si presentano come dati all’intuizione.

Al contrario, per l’intuizionista o il costruttivista essi sono invenzioni della

mente umana. Dunque, un ‘realista’ matematico come Godel afferra mediante

l’intuizione oggetti matematici che esistono indipendentemente, e poi dimostra

le proprietà di questi oggetti usando l’analisi logica.

Così, l’intuizione matematica è un mezzo per un fine cognitivo, non semplicemente

una fonte di finzioni della mente.

Come dice il matematico e filosofo Renè Thom, ‘ La voce della realtà è nel

senso dei simboli’.

Anche nel caso di Godel si riscontra un intreccio tipicamente platonistico di un

concetto oggettivo di realtà con un tipo di percezione extrasensoriale di idee

platoniche astratte.

Per Godel non vi erano più ragioni per dubitare dell’esistenza degli oggetti

dei suoi studi di quante ne avessero i fisici per dubitare della realtà degli

oggetti materiali su cui vertevano le loro ricerche.

Questi oggetti matematici devono dunque esistere fuori dallo spazio e dal

tempo, e non c’è da stupirsi del fatto che Godel, più tardi, cominciò a interessarsi

di percezioni extrasensoriali di trasmigrazione delle anime e di occultismo

in tutte le sue varianti.

( Casti/DePauli, Godel, Raffaello Cortina Ed.)

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LA VIOLENZA

Da http://giulianolazzari.myblog.it

http://pietroautier.myblog.it

Un presupposto dello scatenarsi della violenza è la capacità    ioujhnb.jpg

di immaginazione.

E’ la fantasia che porta l’uomo fuori dalla sfera di influenza

delle sue esperienze.

Lo esonera dalle sue condizioni di vita e lo libera dalle solite

abitudini.

Gli permette di diventare qualcun’altro.

La fantasia non è legata al vissuto o al reale e non è sottoposta

a inibizioni.

Non ci sono limiti che gli uomini non possono pensare di superare.

La violenza immaginata è libera, la si può pensare senza pericoli,

e per questo stimola l’azione. Infatti, una volta aperta la prospettiva

attraente di superare il limite, il primo passo a volte è breve.

Forse all’inizio si sperimenta ancora con esitazione, un tira e molla di

tentativo ed errore. Ma se l’occasione è propizia, è lo stesso primo atto

ad aprire la strada a ulteriori fantasie e atti.

L’immaginazione è senza limiti e ossessiva, inventa nuove pratiche,

sperimenta nuove perturbazioni mentali.

La capacità di immaginazione non è solita limitarsi all’uccisione, il

culmine di tutta la violenza (prima di essa vi è la tortura).

E’ l’immaginazione, una facoltà del tutto umana, che mette al mondo

nuove forme di violenza e fa sì che la storia della violenza continui.

I motivi della violenza sono molteplici.

E’ illusorio credere che chi compie atti di violenza sia sempre mosso dall’

aggressività.

La natura e le proposizioni di alcune atrocità portano a supporre che chi le

ha compiute debba essere stato spinto da un fortissimo fanatismo o da

impulsi molto intensi.

Già la pura logica contraddice questa intuizione.

Gli uomini possono manifestare comportamenti molto diversi per

gli stessi motivi. E viceversa possono fare la stessa cosa per motivi

molto diversi.

Tra l’atto e il motivo non c’è un rapporto di necessità.

La violenza può essere legata al compiacimento e alla voglia di arbitrio,

alla rabbia cieca o al disgusto, al senso del dovere o al bisogno di

farsi notare, alla brama di APPROVAZIONE ed al successo conseguente,

al sangue freddo o all’assuefazione sorda e senza motivo.

In altre parole: per quanto riguarda i loro stati d’animo,                iujhnb.jpg

coloro che compiono atti di violenza non sono tutti uguali.

Inoltre è una caratteristica dell’uomo la capacità di variazione

di sé.

Soltanto l’uomo è in grado di compiere le peggiori atrocità, la

Natura assiste inerme ed impietrita.

Poiché è per sua costituzione aperto è anche pericoloso.

Nella maggior parte dei casi la violenza è un processo di

trasformazione sociale.

Il compito prioritario di uno studio sulla violenza quindi non è

l’individuazione di cause presumibili, bensì la descrizione analitica del

processo stesso della violenza.

(W. Sofsky, Il paradiso della crudeltà, Einaudi)

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IL GHIACCIO (2)

Nelle foreste, oltre ad un senso primordiale di pace, subentra nei nostri fedeli

compagni (e non solo), quell’istinto immutato di caccia e curiosità. 

Il fiume o torrente che scorre, originato dal ghiaccio, non rappresenta solo 

una fonte di approvvigionamento legato alla sete, ma l’istinto porta a cercare

qualcosa di altro, con il quale combattere le fatiche dei sentieri. Il muso di 

Vela nell’acqua del torrente, non cerca più di assecondare la sete, ma qualcosa

di cui conserva memoria genetica di antico cacciatore, l’istinto che la porta ad

aprire le mascelle per afferrare ed assecondare una fame vorace improvvisa 

dalla forma antica di un pesce. Un tempo andava a pesca in tal modo, e la

mattina sfamava così i suoi piccoli. Una buona colazione, e gli occhi brillano

dal piacere ritrovato. E così anche nel bosco, spesso durante le passeggiate

spariva per ricomparire puntuale dopo quindici o venti minuti, gli odori l’

hanno ricondotta per la libertà ritrovata di antico predatore quale era. Le

prede non mancano, e il suo istinto sembra divenire più sensibile e indipendente

ogni giorno che passa. Ricondurla al guinzaglio poi, in un contesto sociale 

più normale, sembra impresa ardua. Cerca di condividere con me tutto, non

sottostà ad un ruolo marginale. La sua capacità di udito e di olfatto in alcuni

luoghi è superiore alla mia, e la rendono sorda e insensibile ai comandi.

Tende ad entrare in competizione con me.

Come per dire, ‘in fatto di caccia conservo la supremezia, quindi se vuoi sopravvivere

segui me e il mio fiuto’. Il vecchio istinto riaffiora, e sollecitarlo e contemplarlo è

uno spettacolo della natura nella natura. Non ci sono termini artificiosi interposti

fra noi e quel sogno primordiale di libertà. 

Non sogniamo la fuga, siamo la fuga, e rappresentiamo questo a tutti coloro che

scandalizzati indagano una probabile verità su noi e la nostra venuta. Anche il

nostro comportamento nell’insieme appare sospetto. Per tutti coloro che abituati

al proprio Fido, bello, socievole, ubbidiente e con qualche chilo di troppo (ad

immagine e somiglianza dei padroni), lo spettacolo che scorre come acqua di 

torrente in piena e si offre ai loro occhi indiscreti è orribile e terrificante se 

non addirittura scandaloso, quanto una natura indomata.

Vela di carattere socievole ed espansivo, inventrice di mille giochi, abituata a

voler bene, perché è ben voluta, offre uno spettacolo dissacrante per sé e il

suo padrone. E visto la mia ammirazione per le sue doti di cacciatore sembra

volermi insegnare i segreti della raccolta, approfondendo e affinando il fiuto 

con funghi, bacche, e radici. Vuole essere riconosciuta a tutti gli effetti capobranco,

di tutto il branco a cui lei si offre degna cornice. 

Non posso dargli torto.

E’ acqua che scorre, uccello che vola, pioggia che cade, luce che risplende, e spesso,

ghiaccio che si ritira per paura e colpa dell’umano.

Il suo nuovo terrore ritrovato.

Fornendo così pretesto per ogni sorta di equivoci.

Le fondamenta della sua educazione poggiano su basi differenti, per cui agli occhi

di esterrefatti turisti debbo apparire una sorta di disadattato, frutto di una schizofrenia

metropolitana. Che in barba alle buone regole non si sottomette alle fiere ambulanti di

circhi divenuti per l’occasione campeggi. I circhi non appartengono più alla sfera

culturale. Così ritornando a quei momenti di quiete millenaria, adagiato fra la neve

e il ghiaccio, senza lancia, ma con altri utensili che il progresso mi ha fornito, un

occhio artificiale per rendere immortali nel tempo questo ‘Viaggio’ nel tempo

appunto, la ritraggo come l’artista con i suoi panorami.

Non è dissimile da essi, sono loro che mi danzano attorno.

(Giuliano Lazzari, Il Viaggio, http://giulianolazzari.myblog.it )

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IL GHIACCIO

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L’uomo si fa sciamano:’Io stesso sono uno sciamano’, disse qualcuno a Rasmussen.

‘Ma non so nulla in confronto a mio nonno, Tiqua Tsaq. Egli viveva nei tempi in

cui uno sciamano poteva discendere fino alla madre degli Animali del mare, volare

fino alla Luna o far viaggi attraverso l’atmosfera tutto il mio corpo è fatto solo di

occhi! guardatelo! Non temete! io vedo da tutte le parti!’

Alludendo probabilmente all’esperienza mistica della luce interiore prima di entrare

in trance. Quando sta per entrare in trance lo sciamano fa movimenti di chi si immerge.

Anche quando si ritiene che egli penetri nelle regioni sotterranee, è come se egli s’

immergesse e poi tornase alla superficie delle acque.

A Thalbitzer è stato raccontato che uno sciamano ‘riappare tre volte prima di immergersi

definitivamente’. L’espressione usata più comunemente per designare uno sciamano è

colui che scende in fondo al mare (Rasmussen). Infatti in fondo all’oceano si trova la

madre degli animali marini, sorgente e matrice della vita universale, dalla cui volontà

dipende l’esistenza della tribù. Per questo lo sciamano deve discendere (o dipendere)

periodicamente nelle acque, per ristabilire il contatto spirituale con la madre degli animali.

(M. Eliade, Lo Sciamanismo)

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E allora il sogno dello sciamano cosa era?

E’ affiorata parte della nostra coscienza, dell’io originario?

Cosa ha dimenticato Rasmussen nel cercare di far emergere questo antico sogno

dell’uomo?

Quale prospettiva simmetrica ci sfugge ancora nella coscienza primordiale.

Quel primitivo stato di trance, è l’oceano interiore di materia, di prima roccia

baciata dai raggi ultravioletti.

Affiora la spirale del DNA sotto forma di sogno?

Cosa direbbe Jung a tal proposito?

Certo non possiamo dargli torto mentre si concentrava sui suoi studi, collezionando

fra l’altro molti reperti sullo Gnosticismo.

Nell’orologio biologico esposto al Gletshergarten di Lucerna, la storia della terra è

rappresentata nell’arco delle 12 ore: 4.600.000.000 di anni, 1 ora 380.000.000 di anni,

1 minuto 6.000.000 di anni, 1 secondo 100.000 anni.

Nella prima ora abbiamo la solidificazione e quindi la formazione delle rocce, fra la

sesta e la settima ora compaiono le stromatoliti, fra l’ottava o la nona ora le cellule

eucariote, fra la nona e la decima le alghe pluricellulari, le meduse i trilobiti. Fra la

decima e l’undicesima ora sempre trilobiti, ammoniti, meduse e alghe pluricellulari

e piante palustri. Fra l’undicesima e la didicesima ora: molluschi, pesci, rettili, dinosauri,

mammiferi, conifere, piante e fiori, e nell’ultimo minuto prima delle ore 12, l’uomo.

A che ora si era attestato l’orologio dello sciamano di Rasmussen?

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A che ora si erano fermate le lancette del mio ‘orologio biologico’ nell’attimo che la

retina fissava l’immagine in sintonia con quella spirale primordiale.

Soprattutto poi gli elementi esterni, e la scarsa presenza umana hanno contribuito a

questa sorta di ‘Viaggio’. Per cui gli elementi primi nel loro primordiale stato naturale

hanno influito in questa sorta di regressione antropologica e psicologica.

E Murphy, Ulisse e Vela, cosa centrano questi animali?

Perché in quell’attimo e in quegli istanti sembriamo condividere assieme un patrimonio

comune?

Perché in quegli attimi le nostre distanze si sono assottigliate trovandoci quasi alla

pari, così come lo eravamo millenni fa’?

Esiste uno specifico rapporto di subordinazione con tutti gli elementi esterni, tutti quelli

che mette a disposizione la natura, con tutte le differenti gamme di proporzioni, dalle

basse quote fino alle più alte, ad ogni ecosistema corrispondente si attiva una vasta

gamma di sollecitazioni (e relative connessioni) per coloro che in questa astrazione

di un ‘Viaggio‘ all’interno della natura riescono a percepire quel linguaggio mutato

ma non del tutto perso nei meandri della nostra ‘coscienza‘, che per il resto del

mondo nella propria ‘dipendenza’ è tradotto come ‘incoscienza’.

Nelle foreste, oltre ad un senso primordiale di pace…..

(Giuliano Lazzari, Il Viaggio)

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IN ATTESA DEL PRANZO DI NATALE RACCONTIAMO LE CUCINE: COME SI SFRUTTA LA BALENA (..e non solo) (20)

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Precedente capitolo:

le-balene-e-non-solo-parlano-cantano-ascoltano.html

Il ponte di prua della Pelagos è il luogo più sinistro di questo scannatoio

galleggiante su cui passo le mie giornate. Nelle venti ore su 24 in cui ferve

il lavoro questa parte della nave è perpetuamente avvolta dai fediti vapori della

bollitura. In certi momenti lo spettacolo per quello di un palcoscenico ove si

aspetta da un momento all’altro l’apparizione di Metistofile; esce il fumo in

velenose spire dalle botole allineate, una salsa vermiglia copre ogni cosa, gli

uomini si muovono in uno scenario di macello, fra montagne di carne fumante,

(salmone, pesce, agnelli, aragoste, merluzzi, caviale, ….) seghe meccaniche,

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trancianti a ghigliottina, e un fiume di sangue.

E’ il ‘reparto carne ed ossa’, il banco di squartamento della balena, la sala

anatomica del gigante dei mari. La platea di poppa, dove avviene la sbucciatura

del cetaceo, sembra un luogo quasi pulito in confronto a questo, dove in uno spazio

di pochi metri quadrati si esegue la demolizione sistematica di un animale che,

quando è piccolo, racchiude un volume di polpa e di visceri e una impalcatura di

ossa non inferiore all’addizione di 60 buoi.

La prima idea che suggerisce quel carnaio è di una macellazione a scopo annonario:

invece il prodotto che si ricava qui è sempre lo stesso: olio. Carne ed ossa vengono

convertiti in olio con un processo di cottura che è un tantino più lungo di quello

occorrente per il grasso, ma non diverso.

Ormai si può dire che la balena, ai nostri giorni, non si sfrutta che per l’olio, e

questo olio va per il mondo sotto forma di burro margarinato, di saponi, di

cosmetici, di ceri d’altare. Oggi si buttano via soltanto le parti che non possono

dare olio, quindi i visceri, quindi il sangue, e persino quelle sorprendenti

scaglie di materia cornea, che pendono a frangia dall’arco della bocca mostruosa

e fino a qualche decina d’anni fa, trasformate in asticelle che si chiamavano per

l’appunto ‘balene‘, gareggiavano col cerchio e con la crinolina per impalcare

il trionfo matronale della femminilità.

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Sono rimasto alquanto sorpreso nel veder gettar via i fanoni. Il loro ruolo è

finito. Ma essi non sono stati sbancati soltanto dal reggipetto. Hanno perduto

il mercato per l’avvento della celluloide. Se qualche cosa della balena ricompare

addosso a una signora moderna, questo qualche cosa è l’olio del capodoglio,

erroneamente detto spermaceti, che con processi si trasforma in quelle nivee

creme raccomandate sulle quarte pagine dalla fanciulla che ha potuto ‘ballare

col principe’ e ‘sposare il milionario’.

Sul ponte della prua la balena arriva scotennata e senza testa, ma conservando

ancora la sua forma, e strabiliando con le sue dimensioni. Ma non vi rimane a

lungo. Mentre la grande cerniera della mandibola inferiore, che per linea potrebbe

prendere il posto di un architrave in un edificio di stile gotico, è già sotto i

denti della sega meccanica, che la riduce in pezzi simmetrici da mezzo quintale

l’uno, la carcassa è assalita da tutte le parti, demolita razionalmente. Vedo

spalancarsi dinanzi ai miei occhi la mostruosa e meravigliosa anatomia del

gigante degli Oceani. Ecco, l’enorme ventre è aperto, traspare la poderosa

armatura delle vertebre, sgusciano intestini bluastri dai nodi grossi come

pneumatici d’automobile, si scoprono quarti di filetto da nutrire una popolazione.

Vogliamo interrogare la bilancia?

Ecco i dati forniti da una balena blu di 27 metri, cioè non eccezionale, sottoposta

a controllo scientifico l’anno scorso su questa stessa nave.

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Peso totale 122 tonnellate; lingua, 3158 chili; cuore, 631 chili; fegato, 935; il sacco

dello stomaco vuoto, 516; la vertebra maggiore, 240. Lo strato di lardo aveva il

peso di 25.600 chilogrammi, la carne di 56.600, le ossa di 22.280; dall’intero

animale si ricavarono 27.700 chili di olio per un valore lordo, al prezzo di 20

sterline alla tonnellata, di oltre 50.000…lire.

A prima vista i lavoranti di questo reparto hanno un’aria grossolana; al loro

confronto, i flensers del ponte di poppa sembrano dei chirurghi.

Ma non è esatto!

Anche qui, anzi proprio qui, ci sono gli artisti della lancetta, flebotomi, i

maestri settori. Un uomo è esclusivamente occupato a recidere le arterie e

aprire la via al sangue, che sprizza in certi momenti come vino da una botte.

La spina dorsale è liberata dai tessuti, spinta verso la sega che l’affetta,

passata alla ghigliottina che cala il suo tranciante con un tonfo antipatico.

Dalle botole aperte esce un fumo acre, disgustoso. La cottura delle ossa,

che avviene sotto coperta, insinua in quella nuvola bianca una vera aromatica

di unghia di cavallo bruciata.

Mentre osservo questi particolari un personaggio si avvicina a me prendendo

appunti su un taccuino.

Come va, caro capitano Sundt?

Il capitano Sundt è il controllore governativo, un funzionario autorizzato a ficcare

lo sguardo dappertutto come l’agente di finanza nelle distillerie e negli zuccherifici.

Ma non ha un compito fiscale. Egli è il difensore d’ufficio delle povere balene. Si

trova a bordo della nave-fattoria in forza dell’accordo del 21 settembre 1931, una

convenzione sul tipo di quelle che elabora la Società delle Nazioni perché ad essa

aderiscono soltanto la Norvegia, la Gran Bretagna, l’Argentina, e l’Unione Sud

Africana.

Il Giappone non ne vuole sapere col pretesto che la carne di balena è un alimento

di prima necessità per il popolo nipponico, perciò il Giappone caccia cetacei a tutte

le latitudini, a tutte le stagioni, senza sottostare a nessuna limitazione.

(Cesco Tomaselli, La corrida delle balene)

Alcuni video

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Un sito

www.seashepherd.org

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LE BALENE (e non solo) PARLANO, CANTANO, ASCOLTANO (19)

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Aristotele non ignorava che i delfini ‘parlano‘.

Lo scrisse, ma la sua testimonianza fu trascurata, oppure fu creduta leggenda

fino al giorno che la marina americana, durante la seconda guerra mondiale,

immerse lungo le coste degli Stati Uniti degli idrofoni, battezzati SOFAR,

destinati a rivelare l’avvicinarsi dei sottomarini nemici. Gli apparecchi si

riempirono di cigolii, miagolii: il mare parlava.

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Furono così scoperte le ‘voci‘ del mondo del silenzio di fondo dei crostacei,

i brontolii dei pesci, i fischi delle focene, i piagnoculii dei delfini, i richiami

dei capodogli, i trilli delle balene. Quanto ai cetacei, le emissioni che diffondono

non hanno tutte carattere di ‘linguaggio‘. Alcune rappresentano non un modo

di esprimersi, ma un sistema per dirigersi. Non è stato l’uomo il primo essere

che si sia guidato con i suoni e gli ultrasuoni negli abissi marini: i cetacei sono

dotati di un sonar, esattamente come, fuori dell’acqua, i pipistrelli. Questo

sistema che permette ai mammiferi marini di sentire gli ostacoli e di avvistare

nemici o prede, è ancora più complesso di quanto si possa immaginare.

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Oggi si pensa che funzioni a due livelli: ad esempio, le frequenze più basse

sarebbero utilizzate dai capodogli per individuare i calamari a grande

profondità, o dai delfini per localizzare prede e ostacoli a distanza, mentre

le frequenze alte servono soprattutto a comunicazioni fra individui della

medesima specie.

La vista che ha tanta importanza nel comportamento dei mammiferi terrestri,

non è il senso principale dei cetacei, nei quali prevale il senso dell’udito. Le

balene e i capodogli regolano e dirigono la loro vita in un universo di suoni.

Benché sprovvisti di corde vocali, parlano e cantano. Ascoltano ed emettono

quei segnali sonori che, riflettendosi, forniscono loro costanti informazioni

sull’ambiente in cui si muovono.

I capodogli grugniscono per scambiarsi le impressioni e gracchiano molto

ritmicamente emettendo stridi assai sonori per esplorare lo spazio. Si

capiscono e si reperiscono fra loro perfettamente, anche alla distanza di più

di tre miglia marine. Questo spiega perché si incontrino individui giovani

isolati lontani dai genitori: sanno di continuo e reciprocamente dove si

trovano e che cosa fanno. Questa localizzazione e questo stare in ascolto

non sono né automatici né passivi. Penso che i cetacei debbano orientare

emissioni e recezioni, e girarsi come antenne del radar per esplorare lo

spazio. In superficie i capodogli esplorano continuamente gli abissi marini

con il loro sonar: tac, tac, tac, tac….e se scoprono uno o più calamari di

grandi dimensioni sotto di loro, a 600-800 metri, o anche a 1000 metri,

scendono a capofitto e si dirigono verso la preda senza esitazioni. Questa

perpendicolarità del piano del sonar spiega, secondo me, le immersioni dei

capodogli e dei globicefali. Il fracasso dei motori fuoribordo riesce particolarmente

spiacevole a questi animali. Probabilmente è una questione di frequenza. Per

questo, la tattica della ‘giostra’ di un fuoribordo che volteggia come un calabrone

intorno a uno di loro, vicinissimo, è spesso coronata da buon successo. Al centro

di quel cerchio infernale il capodoglio, probabilmente con il sonar disturbato,

rimane in superficie, furibondo di non riuscire a muoversi, perché senza

dubbio la possibilità di immergersi è collegata alle informazioni del sonar.

Se il sonar dà informazioni confuse, sprofondare è impossibile. Qui non

si può parlare di ‘riflessi‘, perché il capodoglio ha uno psichismo abbastanza

sviluppato da fargli operare una scelta nel modo di condursi.

Prima di capire perfettamente l’efficacia del loro sistema acustico, abbiamo

accusato alla leggera i capodogli di mancanza di solidarietà.

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Sbagliatissimo.

Quando uno dei loro è in difficoltà, il capo prende la decisione di far ripiegare

tutto il branco. Ma rimangono tutti nel raggio del sonar, il che può significare

qualche miglio. Se l’incidente si prolunga, mandano un emissario o emissari:

la madre se si tratta di un giovane, un grosso maschio se si tratta di un adulto.

In parecchi casi di questo genere il branco è scomparso un miglio a est del

prigioniero, ed è ricomparso un miglio a ovest trenta o quaranta minuti più

tardi. Dato che per percorrere tale distanza ci vogliono per loro meno di

venti minuti, il gruppo si era certamente fermato un bel momento, chiamando

il compagno, avvertendolo che lo avrebbe aspettato….proprio entro il raggio

di facile ascolto per un animale in superficie.

un sito

www.seashepherd.org

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LA CACCIA (18)

Precedente capitolo:

la-catastrofe-17.html

….Piaceva tanto ai norvegesi che subito dopo la prima guerra mondiale

alcune delle loro baleniere di maggiore stazza si spinsero ancora più a

sud per esplorare le possibilità di un massacro ancora più redditizio.

Quando avvistarono i ghiacci permanenti del pack nell’oceano Antartico,

scoprirono ciò che Herman Melville, il celebre autore di Moby Dick,

credeva sarebbe rimasto per sempre un rifugio inviolabile dove

le balene possono infine ricorrere alle loro cittadelle polari e, tuffandosi sotto quelle

estreme barriere e pareti vitree, risalire tra i campi e i banchi di ghiaccio, e in un

cerchio incantato di eterno dicembre, lanciar la sfida a ogni inseguimento umano

(Cesare Pavese).

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L’ultimo rifugio non esisteva più.

Quando i comandanti delle baleniere riferirono al ritorno di aver trovato una

quantità quasi astronomica di balenottere, né la distanza dell’oceano Antartico

dalle basi né la candida ostilità del clima potereno bastare per proteggere le

balene dalla spietata ingordigia dell’uomo.

All’inizio, la distanza fu un ostacolo. Sul ghiaccio del continente congelato non

era possibile erigere stabilimenti per la lavorazione delle balene, e d’altra parte

le basi sulle isole erano troppo lontane dal Nord.

Nel 1925, comunque, un certo comandante Sorlle, di Vestfold in Norvegia, inventò

l’arma suprema per trasformare ciò che restava delle grandi balene del mondo

in denaro sonante. Il comandante inventò la ‘nave-officina pelagica’, una nave

molto grande, progettata per operare in mare aperto, provvista di un’immensa

apertura a poppa e di una rampa, sulla quale le balene potevano essere trascinate

con l’argano in un impianto combinato che fungeva da mattatoio galleggiante.

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Già la prima di queste navi fu abbastanza grande e resistente per ‘lavorare’ in

navigazione le balene in pratica con qualsiasi tempo; poteva portare provviste

per sei mesi e anche più. Ognuna di queste navi diventò il nucleo di una

flotta paragonabile, con un po’ di cinismo, a un gruppo d’azione delle

marine da guerra moderne. Comprendeva baleniere provviste di un nuovo e

più terribile potenziale d’attacco, battelli-boa per segnalare la presenza delle

carcasse, rimorchiatori per trascinare queste alle navi-officina, nonché navi-

cisterna per rifornire la flotta in navigazione. Ultimato il loro compito, queste

navi-appoggio portavano i prodotti accumulati, risultati dalla lavorazione

delle balene, dalla nave-officina ai mercati lontani. Persino il rudimentale

prototipo di Sorlle era in grado di penetrare a sud fino ai limiti del pack

dell’Antartide, e le versioni successive della stessa nave operavano in

tutto l’oceano Antartico, uccidendo e ‘lavorando’ le balenottere e gli altri

tipi di balena che le baleniere riuscivano a trovare lavorando ventiquatt’

ore al giorno. Ormai non esisteva più un solo posto sul globo dove le

balene potessero rifugiarsi per sfuggire al destino da noi riservato.

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Il successivo massacro non trova precedenti nella storia dello sfruttamento

umano inflitto agli altri esseri viventi. Probabilmente non verrà mai

superato se non altro perché non esiste sul pianeta alcun agglomerato

così grande di animali di grandi dimensioni.

Nel 1931, solo sei anni dopo il viaggio inaugurale della prima nave-officina,

41 di questi natanti, assistiti da 232 baleniere d’assalto, stavano facendo strage

delle balenottere nell’Antartide. Battevano le bandiere delle varie nazioni presso

cui uomini d’affari si erano precipitati a strappare una porzione della redditizia

impresa. Di queste nazioni facevano parte Stati Uniti, Norvegia, Gran Bretagna,

Giappone, Panama, Argentina, Germania e Olanda, ma erano i norvegesi che

dettavano legge, o per conto proprio o mediante gli equipaggi e le navi che

cedevano a nolo o in affitto. Quell’anno, 40.200 balenottere, quasi tutte azzurre,

vennero fatte a pezzi negli stabilimenti galleggianti, e le acque gelide del lontano

Sud si tinsero di rosso.

Un anno di primati per l’industria della caccia alla balena e per gli uomini seduti

intorno ai tavoli dei consigli di amministrazione a Londra, Tokio, New York e

altri bastioni della civiltà. Una di queste navi, la Sir James Clark Ross, attraccò

a New York dopo una campagna di sei mesi nell’Antartide, con un carico consistente,

in parte, in 18.000 tonnellate di olio di balena del valore di oltre due milioni e

mezzo di dollari.

Bei tempi per i balenieri.

Tempi brutti per le balene.

Tra il 1904 e il 1939, oltre due milioni di grandi balene morirono secondo le modalità

prescritte dal mondo moderno degli affari. Nel 1915, l’ultima baleniera norvegese

aveva abbandonato l’ormai devastato Mare delle Balene per prendere parte alla

carneficina nell’Atlantico meridionale. Ma le balene superstiti dell’Atlantico

settentrionale non erano comunque al riparo dagli uomini assassini. Mentre la

minaccia dei sommergibili tedeschi aumentavano nell’Atlantico, gli Alleati

continuarano a varare un numero sempre maggiore di imbarcazioni anti-

sommergibile, finché varie centinaia di cacciatorpedinieri snelli e micidiali non

entrarono in azione contro le balene meccaniche altrettanto micidiali.

Ma gli equipaggi dei cacciatorpedinieri, composti di reclute, avevano bisogno

di essere addestrati, e siccome la natura umana è quella che è, si giunse alla

conclusione che una maniera efficace per aumentare le capacità tecniche dei

marinai sarebbe stata quella di esercitarsi con le balene vive. Da segnalazioni

ufficiose si desume che varie migliaia di balene siano state uccise a scopi

addestrativi. Quasi tutte rimasero vittime delle armi di bordo dei mezzi

militari, ma altre furono ridotte ad ammassi informi di carne quando venivano

usate come bersagli per le cariche di profondità. Esiste il noto esempio di

un cacciatorpediniere che uccideva le balene con azioni di speronamento;

ed è probabile che altre balene siano rimaste vittime di incontri ‘fortuiti’, se

scambiate per sommergibili nemici. Ma nessuno ha tenuto conto del

numero delle balene sacrificate alla Vittoria sul mare.

Tra il 1923 e il 1930, tre stabilimenti norvegesi ripresero a lavorare lungo le

coste settentrionali di Terranova e del Labrador meridionale, uccidendo e

portando a terra 153 balenottere azzurre, 2026 balenottere comuni, 199

megattere nodose, 43 balenottere boreali e 94 capodogli.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

un sito

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LA CATASTROFE (17)

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la-caccia-16.html

Non ci può essere altra spiegazione….

alle aberrazioni disumane che vengono perpetrate sistematicamente giorno

dopo giorno, per fare un esempio, nei campi di concentramento voluti dai

totalitarismi.

E’ letteralmente un ritorno alle barbarie.

A meno che uno non si renda conto che gli esseri umani sono creature talmente

sociali, talmente civilizzate (anche se, presi uno per uno, può capitare che siano

persone spregevoli come marinai, rinnegati e reietti) che soltanto la più atroce delle

barbarie può reprimerli, non resta altro che la teoria secondo cui il male è insito

nella natura umana; questo atteggiamento, però, porta alla sfiducia e allo sconforto

che, al giorno d’oggi, sono sentimenti imperanti.

Totalitarismo e barbarie sono inscindibili, due facce della stessa medaglia: ecco

perché Melville fa sì che Fedallah e Achab siano inseperabili.

Il selvaggio sa con certezza che Achab è destinato a fallire, così come lo è il suo

tentativo di adattare l’industria e la scienza alla natura dell’uomo.

Fedallah attende il giorno in cui l’uomo si inchinerà di nuovo davanti al fuoco,

con un atto totalmente passivo come quello degli aborigeni che lo adorano.

E’ proprio questa l’essenza che Achab ha abbandonato.

Fedallah aspetta: Achab, ne è certo tornerà da lui.

Profetizza che sarà una corda a uccidere il capitano, il quale nel frattempo è

diventato incapace di fermare il pensiero su qualsiasi cosa si opponga al suo

progetto. L’ipotesi più ovvia è che la corda vada intesa come la sagola dell’

arpione ma Achab, pensando che si tratti della forca, ride della profezia.

Fedallah predice inoltre che la bara del capitano potrà essere fatta esclusivamente

di legno americano.

Intende la nave.

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Achab seppellirà se stesso nel naufragio della società industrializzata americana,

simboleggiata dalla sagola e dalla baleniera. Il capitano deride anche questa profezia

ma ben presto si zittisce, e i due ritornano a guardarsi in silenzio, giorno dopo

giorno.

L’interpretazione del personaggio di Fedallah dipende esclusivamente dalla

capacità di vedere Achab per quello che è. Soltanto se si parte dal presupposto che

Achab è un individuo singolo affetto da megalomania, da una crisi o da un disturbo

legato alla sfera personale, un distrurbo simbolico nel senso che è simbolo della

natura umana in genere, si può allora interpretare la figura del selvaggio come

spirito del Male, come il lato diabolico della personalità di Achab o cose del

genere. Questo porterebbe sì ad una lettura simbolica, ma soltanto della natura

umana a livello generale.

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Se al contario si considera Achab come un tipo specifico di essere umano, che

vive in un determinato momento storico e che è il prodotto di dinamiche storiche

particolari, allora Fedallah diventa lo spettro della barbarie, l’immagine dell’uomo

moderno in ginocchio di fronte ai piani economici, alle quote di produttività e a

tutto il corredo multiforme della civiltà moderna.

L’uomo, che pure sta al centro di questa macchina, si deve inchinare al suo cospetto,

cieco e impotente, mortificandosi come i selvaggi che si inchinano di fronte al fuoco

cinquemila anni fa.

(C.L.R. James, Marinai, rinnegati e reietti)

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LA CACCIA (16)

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La prua del ‘Pequod’ fu puntata e rompendo il cerchio incantato, separò

davvero la Balena Bianca dalla sua vittima. Mentre essa si allontanava

cupamente, le lance volarono in soccorso.

Tirato su Achab nella lancia di Stubb, con gli occhi accecati, iniettati di sangue,

il bianco salmastro rappreso nelle rughe, la lunga tensione della sua forza fisica

si spezzò, ed egli cedette disfatto all’accasciamento del corpo, giacendo per un

po’ tutto pesto sul fondo della lancia di Stubb, come uno schiacciato sotto i

piedi di mandrie di elefanti.

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Dal suo io più profondo uscivano lamenti senza nome, come suoni desolati

da burroni. Ma questa intensità della sua prostrazione fisica non fece che

abbreviargliela. Nello spazio di un istante, i grandi cuori talvolta concentrano

in un’angoscia abissale la somma totale di quelle sofferenze superficiali più

fortunatamente disperse sull’arco di tutta la vita a uomini più deboli. E così

simili cuori, quantunque assommino tanta sofferenza ogni volta, se gli dei

lo decretano, accumulano nella loro vita un secolo intero di dolore, tutto

fatto delle intensità di istanti, poiché proprio nel loro centro senza punto

queste nobili nature contengono l’intera circonferenza delle anime inferiori.

Il rampone, disse Achab alzandosi a mezzo, e appoggiandosi a fatica su un

braccio piegato ‘è salvo?’

– Sì signore, perché non è stato lanciato; eccolo, disse Stubb mostrandolo.

Allungalo davanti a me: marinai perduti?

– Uno, due, tre, quattro, cinque, c’erano cinque remi, signore, e qui ci sono cinque

marinai.

– Bene. Aiutami, marinaio. Voglio mettermi in piedi. Così, così, la vedo! Laggiù!

Laggiù! Va ancora a sottovento. Che getto scattante! Giù le mani da me! La linfa

eterna scorre di nuovo nelle ossa di Achab! Mettete la vela, fuori i remi, il timone!

Accade spesso che quando una lancia viene sfondata, il suo equipaggio,

raccolto da un’altra imbarcazione, aiuta il lavoro di questa seconda, e la

caccia viene così continuata con quelli che sono chiamati remi a doppio

banco. Ora fu così. Ma la forza accresciuta della lancia non uguagliò la

forza accresciuta della balena, poiché pareva che essa avesse triplicata

la forza di ogni sua pinna, nuotando a una velocità che chiaramente

mostrava come la caccia, se proseguita in queste circostanze, si sarebbe

prolungata indefinitivamente, se non disperatamente, e nessun equipaggio

avrebbe potuto reggere per un periodo così lungo a uno sforzo ai remi

tanto intenso e continuato, cosa appena tollerabile in qualche breve

momento. La nave stessa, allora, come talvolta accade, affriva il mezzo

mediato più favorevole per ricominciare la caccia. Di conseguenza, le

lance ora le si fecero incontro e presto furono issate alle gru, essendo

già state precedentemente assicurate dalla nave le due parti della

lancia distrutta; poi, issando ogni cosa ai suoi lati, levando le vele e

ampliandole di fianco con vele di caccia, come le ali doppiamente

articolate dell’albatro, il ‘Pequod’ si gettò a sottovento, nella scia di

Moby Dick.

A intervalli ben noti, metodici, la sfiatata scintillante della balena fu

regolarmente annunciata dalle teste d’albero guarnite di uomini, e

quando riferivano che era appena sparita, Achab prendeva il tempo,

poi, passeggiando sul ponte, con l’orologio della chiesuola in mano,

non appena scoccava l’ultimo secondo dell’ora prevista, faceva udire

la sua voce:‘Di chi è, adesso, il doblone? La vedete?’, e se la risposta era:

No signore!’, immediatamente dava l’ordine di issarlo al suo posatoio.

In questo modo il giorno trascorse, con Achab ora arriva e immobile,

ora inquieto, misurando coi passi le tavole.

(Melville, Moby Dick)

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