LA CACCIA (13)

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A causa della sua immensa mole e della quantità di olio che poteva

esserne estratto (un eseplare grande poteva darne persino 3000 galloni,

cioè 12.000 litri circa) la balenottera azzurra fu dapprima il bersaglio

principale dei norvegesi nel Mare delle Balene.

I norvegesi si dedicarono alla caccia di questi cetacei con tale ferocia e

competenza che ancora nel 1905 la loro flotta fu in grado di massacrare

265 balenottere azzurre in un’unica stagione, ma nel 1908 una flotta ben

più consistente poté trovarne e ucciderne solo 36. Sotto tutti i punti di

vista, la balenottera azzurra si era commercialmente estinta nel Mare delle

Balene a quell’epoca; così i norvegesi cominciarono a dare la caccia alla

balenottera comune e a ciò che restava della megattera nodosa.

E’ a Millais che dobbiamo la seguente significativa descrizione della caccia

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dei norvegesi alla megattera nodosa:

Le balene manifestano un insolito attaccamento ai piccoli. Li assistono e tentano di difenderli

se sono gravemente ferite. Quest’effetto è contraccambiato dal piccolo… Il comandante Neilson

si trovava a caccia nella baia di Hermitage quando incontrò un’enorme megattera nodosa

femmina con il suo piccolo. Una volta ‘agganciata’ la madre, vedendo che era esausta, il

comandante diede l’ordine di calare la barca per fiocinare l’animale. Ma quando la barca si

avvicinò alla balena ferita, il piccolo continuò a muoversi intorno al corpo della madre

frapponendosi tra la barca e la preda. Tutte le volte che il primo ufficiale tentava di mettere

in azione la fiocina, il piccolo interveniva tenendo a bada per oltre mezz’ora il ramponiere,

rivolgendo la coda verso la barca e sbattendola furiosamente sull’acqua quando questa si

avvicinava. Alla fine, la barca dovette essere rihiamata per evitare un incidente.

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Un nuovo arpione venne sparato contro la madre, che morì.

Il fedele piccolo si adagiò a questo punto a fianco del corpo della madre morta dove

venne colpito in malo modo dalle fiocine, ma non ucciso. Data la posizione nella

quale si trovava, fu impossibile ucciderlo, per cui un’arpione gli fu sparato contro.

Le grandi balenottere scomparvero dalle acque di Terranova (non già per

rifugiarsi in qualche lontano santuario, come pretendono certi apologisti per

giustificare l’assenza degli animali) per finire nei calderoni, nelle pentole a

pressione e nelle attrezzature per la conversione in farina di pesce dell’industria

della caccia alla balena.

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Lo scoppio della prima guerra mondiale diede un po’ di sollievo, mentre gli

uomini concentravano le loro energie distruttive gli uni contro gli altri. A quell’

epoca, le grandi balenottere dell’Atlantico nordoccidentale avevano proprio un

disperato bisogno di tregua. Dall’inizio dell’offensiva norvegese nel 1898, più

di 1700 balenottere azzurre, 6000 balenottere comuni e 1200 megattere nodose

erano state ‘raccolte’ nel Mare delle Balene. Questi numeri, bisogna tenerlo

presente, rappresentano solo le balene consegnate agli stabilimenti di lavorazione.

Essi non tengono conto delle balene mortalmente ferite, dei piccoli morti di

fame dopo l’uccisione della madre e neppure delle balenottere che perirono

in seguito alle ferite infette.

Se insisto su questo punto, lo faccio perché sembra che le balene siano singolarmente

indifese nei confronti dei batteri e dei virus. Pare che non dispongano di un

sistema immunitario di protezione. Ciò costituisce un fattore di mortalità

raramente menzionato nelle discussioni sulla caccia alle balene e di solito

ignorato nelle statistiche ufficiali che registrano i danni inflitti dalle baleniere.

I balenieri, invece, si sono sempre resi ben conto del fattore ‘infezione’ e se ne

sono serviti a proprio vantaggio sin dai tempi remoti.

Già nel IX secolo gli abitanti dei fiordi norvegesi attiravano branchi di balenottere

minori nelle insenature più profonde dei loro lunghissimi fiordi, impedendone

poi la fuga con le reti. Gli animali intrappolati venivano attaccati non con

giavellotti o lance ma con proiettili sparati da balestre, proiettili specialissimi

che erano stati di proposito intinti in botti piene di carne in putrefazione.

Gli organismi ‘inoculati’ in tale maniera nella balena erano così virulenti che la

balenottera infetta moriva in tre o quattro giorni, con il corpo ridotto a un’

unica massa di tessuti in preda alla cancrena e alla setticemia.

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La carne delle carogne era naturalmente priva di valore, ma il grasso restava

incontaminato e veniva estratto per produrre olio da lucerna, pece d’olio e

altri prodotti simili. Le balenottere boreali venivano ancora uccise in alcuni

fordi nei pressi di Bergen con lo stesso barbaro metodo fino all’inizio del

nostro secolo.

Verso il 1908, dopo aver sterminato le grandi balenottere su entrambi i versanti

del Nord Atlantico, sciami di battelli-killer norvegesi scesero oltre l’equatore nell’

Atlantico meridionale. Da qui si diffusero ben presto nel Pacifico e poi nell’

oceano Indiano. Alle loro spalle sorsero stabilimenti costieri e si diffuse come

un miasma il puzzo della ‘megamorte’. Il massacro delle balene dei mari tropicali

temperati assunse proporzioni senza precedenti: comportò la virtuale eliminazione

in pochi anni delle balene nere australi, delle tribù finora indenni di megattere e

l’estinzione quasi completa delle balene grigie nel Pacifico settentrionale.

Ma non era abbastanza.

L’industria norvegese della caccia alla balena diventava una specie di moderno

Moloch dall’appetito insaziabile. Ed era rimasto ancora un grande oceano da

sconvolgere. La flotta dei Killer si spinse ancora più a sud finché non trovò,

al largo dell’estrema punta dell’America meridionale, una tale quantità di

balene quale non si era più vista sin da quando i primi baschi si erano spinti

nel Mare delle Balene quattro secoli prima.

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Nel 1912, 62 baleniere d’assalto salparono dalle basi sulle Falkland e sulle

Orcadi australi, spazzando le acque circostanti con tale rapacità da consegnare

nell’estate di quell’anno agli stabilimenti per la lavorazione oltre 20.000

carcasse di balene. Circa l’80% di queste era costituito da animali della

specie meattera nodosa, il resto da un misto di balene franche, balenottere

azzurre e balenottere comuni. Poiché le balene erano presenti con incredibile

abbondanza, i singoli balenieri potevano ucciderne con facilità decine e più

in una sola giornata. E siccome potevano farlo, spesso lo facevano. Una

baleniera salpata dalle Falkland uccise 37 balene tra l’alba e il tramonto.

Le carcasse vennero munite di opportune bandierine e lasciate andare alla

deriva per essere recuperate quando il battello, finito il massacro della

giornata, fosse pronto a ritornare allo stabilimento. Venivano recuperate se

si riusciva ancora a trovarle. Troppo spesso si perdevano nel buio o nella

nebbia, o erano portate via dal vento e dalle correnti. Se prendiamo in

considerazione le perdite dovute a questo solo motivo, insieme alla mortalità

abituale delle balene ferite e dei piccoli rimasti orfani, le vere dimensioni del

massacro cominciano a scuotere davvero la fantasia.

La lavorazione delle carcasse era improntata agli stessi criteri di spreco dell’uccisione

degli animali. Siccome le carcasse erano tante, gli uomini tagliavano via solo

gli strati di grasso più spessi della schiena e del ventre, come racconta Ommaney:

Le carogne venivano lasciate andare alla deriva nel porto. Le carcasse finivano prima o poi

all’asciutto per decomporsi sulla costa, e ancora oggi l’insenatura di Deception Harbour

nelle Shetland australi e molte baie e insenature dell’isola Georgia del Sud circondate da

banchi di ossa, crani, vertebre e costole sbiancati, un momento alla rapacità della specie

umana.

Il puzzo aleggiante nell’atmosfera di questi porti era leggendario.

Ma il direttore di uno stabilimento americano per la lavorazione delle balene

proclamò non tanto tempo fa:

E chi se ne frega? Quello è il puzzo dei soldi, e per me è un buonissimo odore.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

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