UNA LETTERA

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Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano

mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi

della spedizione d’Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all’attacco

contro i Parti.

L’accompagnavo come sempre Plotina e la nipote Matilda, la mia indulgente

suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d’intendente. Celso,

Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici sedevano ancora nel Consiglio e

dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio

nel palazzo in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con

rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in

attesa che la guerra gettasse i suoi dadi.

L’esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso

la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili.

L’imperatore e il suo seguito fecero a Comagena una sosta di pochi giorni,

in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d’Oriente, riuniti a Satala, fecero

a gara per protetargli una lealtà sulla quale al posto di Traiano, non avrei

fatto troppo affidamento per l’avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più

pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d’una vasta incursione

militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della

Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar il re

d’Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L’imperatore tornò ad

Antiochia a occupare i suoi quartieri d’inverno, rinviando a primavera

l’invasione vera e propria dell’impero partico, ma già deciso a non

accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi

piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell’avventura, differita per

tanto tempo, restituiva una nuova giovinezza a quell’uomo di sessanta-

quattro anni.

Le mie previsioni, però, restavano cupe.

L’elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i

grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le

spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l’

imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell’imperatore, si verificò

una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore

d’una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di

Antiochia. Traiano, confuso per la caduta d’un trave, continuò eroicamente

a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi

furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili

del sinistro: l’imperatore, derogando per una volta dai suoi principi

di tolleranza, commise l’errore di lasciar massacrare un gruppo di

cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso questa setta,

ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini

torturati contribuì all’inasprimento degli spirti e rese più tetro quel

sinistro inverno (cercai di appellarmi ai mercenari Galli, gli unici in

quel periodo di cui veramente mi fidavo…).

Comunque mancava il danaro per sanare immediatamente gli 

effetti della sciagura: la notte, s’accampavano sulle piazze migliaia di

persone senza tetto. I miei giri di ispezione mi rivelavano l’esistenza

d’un sordo malcontento, d’un odio segreto e insospettato dagli alti

dignitari che imgombravano il palazzo, e con loro le pessime concubine.

E tra quelle rovine, l’imperatore proseguiva i preparativi per la campagna

imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di 

ponti mobili per traversare il Tigri……

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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FRAMMENTI

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Quando, fanciullo che ancora non parla,

vivevo nei palazzi del padre mio

nella ricchezza adagiato

e nelle dolci cure di chi mi nutriva,

dalla terra d’Oriente, mia patria,

provvistomi di quanto necessita

per un lungo cammino

i genitori mi fecero partire.

Mercé la dovizia dei nostri tesori

un fardello riunirono:

era grande e leggero, per le mie giovani spalle.

L’oro proviene dalle contrade di settentrione

e l’argento dalle grandi miniere,

dell’India sono i rubini, di Koshan le agate;

mi armarono di un diamante

cui nulla resiste.

La veste costellata di gemme e di oro trapunta

che per me con amore avevan fatto

e la stola dorata dei giovani anni,

mi furono tolte.

Perché non dimenticassi,

un segno di intesa con me concordarono,

imprimendolo nella mente e nel cuore,

e dissero: se, una volta disceso in Egitto,

di là riporterai la perla, l’unica,

che giace negli inferi,

dal serpente assediata che inghiotte ogni cosa,

di nuovo vestirai la veste ingemmata

e la stola in cui la tua forma riposa:

allora con tuo fratello, che tutto ricorda,

araldo diverrai del nostro regno.

Partii dall’Oriente

per una via accedentata e paurosa

in compagnia di due guide,

inesperto com’ero di ogni cammino.

Passati i confini di Maishan,

ostello dei mercati d’Oriente,

giunsi al paese di Babilonia.

Arrivato alfine in Egitto

le guide che scortato mi avevano

mi abbandonarono,

e io, per la via più breve,

verso il serpente rivolsi i miei passi.

Per sottrargli la perla,

dove aveva la tana sostai,

in attesa che lo cogliesse il sonno notturno.

Rimasto solo, avevo aspetto straniero

e ben visibile era il mio esser-diverso

a chi mi era vicino.

In quella contrada il parente incontrai

delle terre d’Oriente;

libero era, giovane e bello a vedersi

figlio di re.

Mi si fece vicino e lo ebbi sodale,

amico divenne, e del mio còmpito

lo feci partecipe.

Lo persuasi a diffidare degli Egizi,

a non confondersi con quegli uomini impuri.

Ma io le vesti di quelli indossai

per non apparire straniero,

come chi, venuto da fuori,

cospiri per riprendersi la margherita.

Temevo gli Egizi svegliassero

il serpente contro di me.

Non ricordo per quale occasione o motivo

scoprirono che non ero dei loro.

All’inganno congiunsero l’arte

e tanto fecero che del loro cibo gustai.

Così scordai di essere figlio di re

e del loro, schiavo divenni.

Scordai anche la perla

per cui ero stato mandato,

e oppresso dal loro cibo

caddi in un sonno profondo.

(Acta Thomae, Il canto della perla)

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