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Per due ore sorvolammo la taiga (e ce ne innamorammo subito), levandoci
sempre più in alto nel cielo. A questo ci costringeva l’altezza crescente delle
montagne. Dolci e tranquilli nei dintorni di Abaza, i monti diventavano a poco a
poco severi e inquietanti. Le verdi e ridenti vallate inondate dal sole cominciarono
a restringersi gradualmente e verso la fine del percorso si mutarono in voragini
scoscese, con in fondo i fili argentati di fiumi e ruscelli.
– Eccoci arrivati, mi urlò il comandante dell’elicottero.
Nella buia valle il fiume riluceva come picchiettato di vetrini al sole, l’elicottero lo
sorvolava sempre più basso…
Atterrammo su un ghiaione presso la base dei geologi.
Sapevamo che da lì fino all’abitazione dei Lykov bisognava risalire quindici chilometri
lungo il fiume e poi su per la montagna. Ma avevamo bisogno di una guida. Trovata la
guida rieccoci in aria, sorvoliamo l’Abakan riproducendo nella stretta gola le volute del
fiume.
Atterrare vicino alla casa dei Lykov è impossibile. E’ situata sul fianco della montagna.
E, a parte il loro orto, nella taiga non c’è una sola radura. Tuttavia da qualche parte nelle
vicinanze c’è un acquitrino di montagna su cui non si può atterrrare, ma su cui si può
scendere molto bassi. Facendo ben attenzione i piloti descrivono un cerchio dopo l’altro
per avvicinarsi alla radura dove, sull’erba, luccica pericolosamente l’acqua. Durante
queste manovre vediamo sotto di noi quello stesso orto così come era stato scoperto
dall’alto.
Orto! Delle strisce di solchi di patate lungo il declivio, e più giù ancora delle altre
verdure. Accanto, la catapecchia annerita.
Quando abbiamo descritto il secondo cerchio
abbiamo visto due figurine vicino alla capanna:
un uomo e una donna. Osservavano
l’elicottero riparandosi con una mano dal sole.
Per loro la comparsa di questa macchina significa
l’arrivo di esseri umani. Sospesi sull’acquitrino
gettammo nell’erba il nostro bagaglio, poi saltammo
anche noi sul cuscinetto di muschio bagnato. Un minuto dopo, senza bagnare i
pattini d’atterraggio nell’acquitrino, l’elicottero si sollevò elastico per nascondesi
subito dietro la cresta boscosa della montagna.
Silenzio…..
Un silenzio assordante, ben noto a chiunque si sia lanciato da un elicottero.
E proprio qui sull’acquitrino Erofej confermò la triste notizia giuntaci ad Abaza:
della famiglia dei Lykov erano rimasti solo due persone – il vecchio e la figlia
minore Agaf’ja – Dmitrij, Savin e Natal’ja – erano morti l’autunno scorso uno
dietro l’altro, praticamente a catena.
– Karp Osipovic! Siete vivo?
Chiamò Erofej avvicinandosi alla porta il cui stipite superiore gli arrivava sotto
la spalla.
La porta cigolò e vedemmo emergere al sole un vecchietto.
Lo avevamo svegliato. Si stropicciò gli occhi, li strizzò, si
passò il palmo lungo la barba arruffata e infine esclamò:
– Signore, Erofej!….
Era chiaro che il vecchio era contento dell’incontro, ma
la mano non la diede a nessuno. Avvicinandosi incrociò
le braccia sul petto e si inchinò a ciascuno dei presenti.
– E noi aspettavamo, aspettavamo. Abbiamo pensato che fosse un elicottero
dei pompieri. E ci siamo messi tutti tristi a dormire.
Il vecchio riconobbe anche Nikolaj Ustinovic, che era stato da lui l’anno prima.
– E questo è un ospite di Mosca. Un mio amico. Si interessa alla vostra vita, disse
Erofej.
Il vecchio si inchinò con fare circospetto nella mia direzione:
– Siate il benvenuto, siate il benvenuto…..
(Vasilij Peskov, Eremiti nella Taiga)