Precedente capitolo:
Prosegue in:
….Dal giorno in cui Danco morì la nostra esistenza si fece più cupa.
Sembrava che la morte, questa morte che ci aveva da così poco tempo
visitati, avesse lasciato ovunque traccia del suo malaugurato passaggio,
gettando a bordo come la sementa di una pianta perniciosa.
In un certo qual modo diminuì la nostra vitalità; ci sentimmo tutti
pervarsi da un tenue languore; ed in ciascuno di noi il medico ebbe
anche a constatare la decolorazione delle mucose e l’acceleramento
del polso divenuto irregolare e irrequieto.
Accadeva che pur dopo il minimo sforzo fisico, o dopo una semplice
escursione, di una mezz’ora appena, il polso giungeva ad avere 130
e anche 140 pulsazioni e non pochi di noi cominciarono a soffrir di
vertigini.
Qualsiasi lavoro intellettuale, per poco che lo si fosse prolungato,
diveniva impossibile il seguitarlo, ed il nostro sonno era interrotto
da lunghe veglie morbose quando non veniva agitato dal tormentoso
incubo.
Così, ci mancavano nell’un tempo le due sole cose che avrebbero
potuto darci conforto e cioè la distrazione e il riposo.
Ben presto il nostro colorito prese una tinta giallo-verdastra; i nostri
organi di secrezione funzionavano male ed inquietanti sintomi di
affezioni cardiache e cerebrali cominciarono a manifestarsi…
Uno dei marinai, difatti, fu assalito da convulsioni isteriche sì forti,
che ebbe a mancargli – per qualche giorno – l’udito e la parola, e fu
soltanto il ritorno del sole che lo salvò da una quasi certa pazzia.
Per un altro degli uomini, un novegiano, le conseguenze di un
inverno antartico, dovevano essere ancorar più gravi.
Questo marinaio, intelligentissimo, dato il suo vivo interesse ai
lavori del laboratorio scientifico, vi era assai sovente addetto
quale aiutante per lo scuoiamento e la imbalsamazione sommaria
di alcuni animali. Un bel giorno, senza ragione, dichiarò che lo si
adibiva ad un lavoro indegno di lui, rifiutandosi così, ostinatamente,
da quel momento di continuarlo.
Ci ritornarono alla memoria, allora, alcuni altri piccoli incidenti che
ci avevano, per il passato, sorpresi e, al dottore non fu cosa difficile
il dimostrare che il povero giovane era stato colpito dalla mania di
grandezza.
Questa sua follia che rimase sempre mite assunse, nondimeno,
a’nostri occhi un carattere di maggiore inquietudine allorquando
dichiarò che i suoi compagni attentavano alla sua esistenza che non
sentivasi più al sicuro presso di loro.
Perseguitato da questa idea fissa disertò la sua branda e addormentavasi
in un angolo remoto del falso ponte. Da quel giorno il povero marinaio
divenne oggetto di una ininterrotta sorveglianza, poiché temevano il
verificarsi di qualche personale accidente o che la sua pazzia divenisse,
ad un tratto, furiosa.
Serie inquietudini, infine, ci diede anche il povereo Van Rysselberghe,
colpito da attacchi cardiaci; e, benché non abbia mai avuto occasione di
tenere il letto, pure, il suo stato richiese le più grandi precauzioni.
Ogni giorno prendeva, a schiena nuda, un bagno di calore presso la
stufa della piccola sala.
Riguardo agli ufficiali, non uno poté sottrarsi alla malattia.
Arctowski e Racovitza soffrivano orribilmente di mal di stomaco;
Leiconte fu in pericolo vari giorni ed io stesso ebbi a soffrire ben
seriamente. Ci fu un momento in cui il dottore si credette in dovere
di dirmi che egli aveva osservato nel mio stato alcuni sintomi che in
generale non ingannano e per i quali mi riteneva colpito dallo scorbuto.
Da tutto ciò, vedesi, come l’ufficio di medico, a bordo, non fosse
certo una sinecura…
Il Cook, che aveva acquistate grandi esperienze in una spedizione
artica condotta dal luogotenente Peary, trovò in mezzo a noi numerose
occasioni di dar prova di una abnegazione che non ebbe a smentirsi
giammai.
Ma le cause dell’infelice stato della nostra salute non erano soltanto
la oscurità prolungata, l’isolamento, il freddo e, più ancora del freddo,
la continua umidità; ma erano anche prodotte dall’uso costante ed
esclusivo, abuso quasi, al quale ervamo obbligati, delle conserve
alimentari; quantunque esse fossero eccellenti, quest’uso, anzi dirò
quest’abuso, avevano determinato in ciascuno di noi una vera e propria
atonia intestinale estremamente dannosa.
(De Gerlache, Il viaggio della ‘Belgica’ al Polo Sud)