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Stavo seduto su una panchina lungo il Tamigi, guardando i
riflessi di luce sull’acqua.
Era quasi mezzanotte e davanti a me sciamavano allegri uomini e
donne delle classi alte, che tornavano a casa evitando le strade più
pericolose.
Nella panchina vicino alla mia sedevano due pezzenti, un uomo e
una donna, che ciondolavano la testa e sonnecchiavano.
La donna sedeva con le braccia incrociate strette sul petto e il corpo
in costante movimento : ora si piegava in avanti finché sembrava che
perdesse l’equilibrio e cadesse a terra, ora si inclinava verso sinistra
finché la sua testa non incontrava la spalla dell’uomo, e ora verso
destra, finché la tensione non la svegliava e lei si rimetteva dritta.
Poi ricominciava a piegarsi in avanti, e il ciclo si ripeteva finchè la
donna non si svegliava di nuovo.
Spesso ragazzini e giovani si fermavano per andare dietro la panchina
e lanciare urla spaventose e improvvise.
L’uomo e la donna allora si svegliavano di soprassalto, e le loro
espressioni sofferenti e spaventate facevano ridere i passanti.
Questo era ciò che colpiva, la mancanza di compassione che tutti
dimostravano.
E’ un’immagine stereotipata quella del barbone su una panchina,
del poveraccio di cui ci si può burlare perché è innocuo.
Mentro ero lì saranno passate cinquantamila persone davanti a
quella panchina, e nessuna, in quel giorno di festa, si è sentita
abbastanza toccata da dire : “Eccoti sei pence, vai a cercarti un letto”.
Le donne, soprattutto quelle giovani, facevano osservazioni spiritose
sulla barbona che ciondolava la testa, e i loro compagni ridevano.
(J. London, Il popolo degli abissi, Robin ed.)
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