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Un re sulla scena, quando va a letto, depone lo scettro e la
corona, mentre nel mondo chi la possiede ci dorme, e un’infinità
di quelli che non la posseggono la sognano.
Sulle tavole del palcoscenico si può fischiare il tiranno; nel mondo
bisogna sopportarlo.
Lì lo si va a vedere come una cosa insolita, come una belva che
viene mostrata per denaro; nella società ogni preoccupazione è
un re, ogni uomo un tiranno, e della sua catena non ci si può
liberare.
Ogni individuo si tramuta in un suo anello; ciascuno degli uomini
è una catena per l’altro.
Da questi due teatri, l’uno peggiore dell’altro, tuttavia, venne a
sloggiarmi una farsa che invase tutto: la politica.
Chi avrebbe ancora letto un lieve schizzo dei nostri costumi,
tracciato forse in maniera tenue e maldestra, quando si stavano
delineando sulla grande tela della politica scene, se non migliori,
di interesse certamente più immediato e concreto?
Risuonò il primo archibugio della fazione, e tutti volgemmo la testa
da dove veniva.
In questa nuova rappresentazione, simile fantasmagoria di Mantilla,
dove si comincia col vedere una strega, dalla quale ne nasce un’altra
e un’altra ancora, ‘fino a moltiplicarsi all’infinito’, vedemmo prima un
fazioso, e poi ‘un altro fazioso’, e poi dietro di lui l’affollarsi di faziosi
sul palcoscenico.
Lanciatomi sul mio nuovo terreno, impugnai la penna contro le pallottole
e, rivolgendomi all’una e all’altra parte fronteggiai due nemici: il fazioso
esterno e il ‘giusto mezzo’, l’intera meschinità.
Sforzi ben deboli!
Il mostro della politica era gravido e partorì ciò che aveva mal concepito;
ma di seguito dovevano venire i suoi fratelli minori, e uno di quelli,
novello Giove, era destinato a soppiantare suo padre.
( Mariano José De Larra, Un condannato a morte, Colonnese ed.)