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Il biologo August Weismann (1834-1914) può essere considerato padre del
paradigma dell’uguaglianza biologica dei sessi, concetto che si trova al centro
del pensiero eugenetico tedesco di cui lo stato nazista intende farsi erede.
I fautori dell’eugenetica partono dal presupposto che la civiltà ha pervertito
il processo di selezione naturale. A loro avviso, gli aiuti forniti dallo stato assistenziale
ai più deboli accrescono artificialmente il numero degli ‘esseri inferiori’, dal
momento che lasciano a costoro la libertà di riprodursi.
L’eugenetica si richiama all’ipotesi della ‘continuità del plasma germinale’
per mostrare fino a che punto una giudiziosa scelta del coniuge condizioni l’efficacia
della battaglia contro la ‘degenerazione’ biologica e sociale.
Davanti al congresso internazionale di scienze demografiche, riunito a Berlino
nell’estate del 1935, il ministro degli Interni Frick dichiarò che ‘l’obiettivo ultimo
di ogni politica demografica nazionale è un popolo liberato da disposizioni ereditarie
patologiche, geneticamente sano e valido da un punto di vista razziale’.
La politica tedesca di igiene razziale, alquanto ben accolta negli Stati Uniti e in
Scandinavia, incontrò, in quell’occasione, una vasta approvazione internazionale.
Lo stato nazista, confortato nelle sue mire, avvia, a partire dal 1935, un lungo
lavoro di classificazione. L’obiettivo della ‘purezza del sangue tedesco’ presuppone
una vera e propria cartografia sanguigna GENETICA e PSICOLOGICA del
Reich, realizzata individuo per individuo, famiglia per famiglia, località per
località, regione per regione. Si tratta di un ‘censimento totale’: definire, classificare
e gerarchizzare gli ‘elementi del corpo del popolo’ per meglio isolare, separare,
neutralizzare e in seguito espellere quanti sono percepiti come INDESIDERABILI.
‘Secondo il significato primordiale attribuito dalla concezione del mondo
nazionalsocialista al sangue e alla razza’, precisa la nuova legge sullo stato
civile del novembre 1937, ‘gli intrecci del sangue tedesco devono essere resi più
visibili di quanto sia avvenuto finora nel quadro dell’amministrazione dello stato
civile’.
Questa concezione, che sottende le legislazioni matrimoniale nazista rinvia a
un vecchio sogno eugenetico: il criterio di salute ereditaria – e non l’amore romantico –
deve regolare, in ultima istanza, la scelta del coniuge. Giacché, se uno dei coniugi,
considerato sano in virtù del suo fenotipo, è portatore e veicolo, a sua insaputa,
di una malattia ereditaria – o di una identità razziale ‘allogena’ – nascosta, egli
INFETTA l’eredità, il genotipo, del patner e della loro discendenza comune.
Questo perverso pensiero biologizzante trasforma il caso in necessità: la ‘cattiva
eredità’, il ‘cattivo sangue’ riaffiorano inevitabilmente, secondo le leggi di
Mendel, e accresceranno per le generazioni future la probabilità di accoppiamenti
tra ‘portatori di malattie occulte’.
La scelta del coniuge si impone dunque come un atto decisivo nella vita dell’
individuo: essa determina o, al contrario, compromette l’ ‘immortalità’ di due
lignaggi ancestrali, contribuendo così a improntare il destino genetico del popolo.
Si tratta di un atto senza appello: la ‘cattiva’ eredità non può essere cancellata o
rivalorizzata da una successiva ‘ipergamia genetica’, mentre quella ‘buona’
può essere corrotta dall’ ‘ipogomia genetica’.
(Conte/Essner, Culti di sangue Antropologia del nazismo)