Un eretico x 2 innocenti
in: lodissea-di-due-innocenti-sacco-e.html &
una-stanza-tutta-degli-altri.html
Un eretico x 2 innocenti
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….In nessun luogo della terra, come osservava un autore
del tempo, si concentrava tanta miseria come nella stiva
di una nave di schiavi.
Due volte al giorno, alle nove del mattino e alle quattro
del pomeriggio, ricevevano il loro cibo.
Per i commercianti essi erano solo articoli commerciali.
Un capitano, la cui nave era fortemente ritardata dalla
bonaccia e poi dai venti avversi, non esitò ad avvelena-
re il suo carico.
Un altro uccise alcuni schiavi per nutrire gli altri con la
loro carne.
I negri morivano soltanto di stenti, ma anche per lo stra-
zio, la rabbia, la disperazione.
Più volte tentarono prolungati scioperi della fame; spez-
zarono a volte le catene per scagliarsi sulla ciurma in
futili tentativi d’insurrezione.
Ma cosa potevano questi indigeni della terraferma in
alto mare, su un complicato vascello a vela?
Nel tentativo di allievare il loro spirito oppresso invalse
l’abitudine di farli salire in coperta una volta al giorno
per obbligarli a danzare.
Alcuni ne approfittarono per saltare, emettendo urla di
trionfo mentre gettandosi dal veliero, scomparivano tra
le onde.
Tutta l’America e tutte le Indie Occidentali importavano
schiavi.
Il carico umano saliva in coperta per essere venduto non
appena la nave giungeva al porto di destinazione.
Qui probabili acquirenti esaminavano la merce per ac-
certarne eventuali difetti : ne scrutavano la dentatura,
ne palpavano le carni, talvolta ne odoravano il sudore,
per accertarsi che il sangue fosse puro e la salute dav-
vero buona come l’apparenza lasciava supporre.
Questi, una volta divenuto proprietà legittima del com-
pratore, veniva marchiato su entrambi i lati del petto
con un ferro rovente, riceveva la spiegazione concern-
enti i suoi doveri attraverso un prete e un prete lo istrui-
va ai principi del cristianesimo.
(C.L.R. James, I giacobini neri, Derive Approdi)
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Ma da dove veniva quella parola così inconsueta?
Un’ipotesi per così dire dotta, e quindi altamente impro-
babile, la fa discendere da ‘jas’, un termine che alla fine
del Cinquecento nei vocabolari inglesi col significato di
‘chass’ o ‘chase’, caccia, inseguimento.
Un’altra suppone che si tratti di una corruzione della
parola ‘jasm’, che indica energia, oppure di ‘chasse’, un
ballo condannato dai puritani che, per i creoli, era anche
diventato ‘chasse-beau’, una forma di lotta: da qui avreb-
be preso il soprannome di ‘Jasbo’ un ballerino e cantante
di ‘mistrel’: e quindi da lui potrebbe derivare il termine
‘jazz’.
Altra supposizione: ‘jaser’, verbo francese che sta per
chiacchierare. L’idea non tiene però conto della pronun-
cia creola che non scivola sulla ‘j’, ma al contrario la
indurisce in una ‘i’.
E ancora, esisteva un gioco coi dadi, il crap, durante il
quale i giocatori si incitavano a vicenda con vigorosi
‘jazz-it’.
Infine, nelle case di tolleranza era diffusa una parola scon-
cia, ‘jass’, con la quale si incitavano i clienti a ballare nel-
le sale dove suonavano i pianisti, oppure nelle camere
da letto dove le danze erano di un genere diverso.
….Abbiamo soltanto una certezza: il 6 marzo 1913, sul
‘Bulletin di San Francisco’, un certo T.E. Gleeson, parlan-
do di musica sincopata, adoperò per primo la parola….
‘jazz’, che fino agli anni Venti fu scritta in ugual misura
con due ‘s’ o con due ‘z’……finali.
In riferimento
grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2202&ID_sezione=58 (Il ritorno dei KKK)
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La sera del lunedì successivo, alle otto precise, arrivai al 198 di
Whitehall Street (…Place, io vi arrivai prima di questo post, alle
otto di questa mattina, su una piazza del tutto simile, e all’ap-
parenza normale dopo i tumulti di una notte …da KKK appun-
to.
Ma in un ambiente del tutto uguale, cioè dal sapore e odore
non troppo dissimile da quello che provo qui ad accennare in
questo breve post.)
Che i miei zelanti Kavalieri del KKK (e non), non si offendano di queste
parole a loro dedicate, per l’attenzione a loro riposta, ricordando loro,
anzi raccomandando loro, dopo aver descritto le prassi d’iscrizione,
quale ruolo, pur l’apparenza, a lor conviene.
Che i zelanti progressisti e valenti fotografi non si offendano
per questo umile consiglio, dopo una notte da KKK, convien loro,
dopo il servizio offerto, una celere adesione.
Non si offendano le forze dell’ordine, e zelanti graduati e segreti
ciarlatani, che abdicano il dovere al mattino, il lavoro di preven-
zione che dovrebbero svolgere in ogni ora della giornata e della
notte.
Costringendo interi quartieri a notti da KKK, oggi come ieri.
E non parlo solo del bianco cavaliere!
Non si offenda il Klan dal rito scozzese o meno, il loro ruolo è già
scritto nel libro, io qui ne traccio breve memoria, cara ai roghi
della storia
Non si offenda il bottegaio, se preferisce il giovane ragazzino mal-
istruito, con l’urlo e il motorino, se al libro preferisce, il gioco del
giovane aguzzino.
Non si offendano neppure gli zelanti protettori, che fan del loro
rito del giorno e del mattino, il gran quattrino del becchino che
si chiama aguzzino.
Non si offendano i ben-pensanti, quelli che la sera chiudono be-
ne le imposte, ed al mattino ciarlano per una cacata fuori le loro
porte.
Non si offenda la scopetta del mattino, che ben lucida lo zerbino,
se la notte urla il grido forte del Klan e tutta la sua corte, lei li
voterà di sicuro,…. in nome del Dio quattrino.
Non si offendano i medici dei pazzi, se anche noi urliamo fuori
dalle loro porte, perché i camici di quel Klan ha lo stesso loro
colore, allor preferiam esser pazzi e mai loro pazienti, che affi-
liati e vivere vestiti come deficienti.
Quel colore, solo a loro si addice, noi poveri eretici, urliamo
come sempre contro gli stenti dei nostri umili patimenti, sen-
za neppur esser negri.
Non si offendano dunque i religiosi, accompagnati dai penni-
vendoli, se il post o libro non è piaciuto, c’è sempre il Klan che
urla il disappunto venduto ad un fanciullo arguto.
Loro son solo bravi ed onesti Kavalieri, accompagnati da fidi
scudieri, che poi sian anche progressisti, o inquisitori, l’abito
li unisce nell’urlo saputo.
Non v’è gran differenza nella casta, loro grande sostanza,
lor non nominano le storie per ingannar la gente, perché noi
sappiamo per il vero il loro antico mestiere!
Se poi son dentro anche nei tribunali, quali alti e protetti ma-
gistrati, Dio ci protegga da li inganni di codesti ciarlatani,
perché hanno sbagliato mestiere: l’innocente non va contro la
legge, ma spesso chi la legge si intende, trae vantaggio dal
proprio et (non) umile mestiere.
E noi speriam che non sia quello l’antico dovere che più si
addice ad un giovane coglione con la divisa pulita a dovere….
E al posto del cappello uno strano cappuccio, così han cattu-
rato il vero et antico cappuccino; l’eretico ed il negro, dell’-
intera storia qui narrata,….che il loro Dio non ce ne voglia
in questa bella giornata, dopo una nottata dedicata ai KKK
della strada…..
Se poi voglion conoscere i motivi di questa strofa, si accomo-
dino pure che a loro sarà servita la verità dell’intiera rima,
sempre che non l’abbian già rubata,…è questa la sostanza
della loro onesta panza….
Noi siam fiduciosi della nostra umile creanza, e quando sarà
l’ora, mentre loro s’affannano sulla (antica) storia, noi pub-
blicheremo l’intera rima…con il nostro bel nome, sperando
che qualcuno non si senta come quel tale, che non nomino per
lo vero nome, ma gridava: ‘son io e solo, il vero Napoleone,
tutti gli altri non son nessuno, perché io son il medico e tutti
gli altri han taciuto….,chiamandalo per nome.
Salutiamo a te il solo e vero Imperatore’.
E che Dio ci benedica, perché mai nominammo il suo nome!
Lui con il mio si sente un Dio. Povero Dio sei morto due vol-
te, e certo non per mano mia che conosco il tuo pensiero e
mai l’ho offeso…in questa lunga litania, e che Dio ci benedica!
Una grossa baracca di legno dove la Kavern n. 1 teneva abitualmente
le sue riunioni.
C’erano sulla porta una mezza dozzina di persone.
‘Cerco degli Americani mancini’ dissi avvicinandomi e tenendo la
mano sinistra.
‘Allora il posto è questo’ mi rispose un grosso uomo che stava di
guardia all’ingresso e che riconobbi subito, era il Falco Notturno.
‘Sali pure’.
Mi arrampicai sulla scala e arrivai in un’ampia stanza dove c’erano
una cinquantina di persone. In fondo alla camera una porta chiusa,
e dopo pochi minuti comparve di nuovo il Falco Notturno.
‘Klansmen’, disse.
‘Venite qui che vi insegno la Regola della Kaverna’.
Si mise a sedere al centro della stanza e noi ci radunammo intorno
a lui.
‘Per prima cosa’, continuò ‘ora che siete diventati cittadini dell’Invi-
sibile Impero, dovete imparare il nostro linguaggio. In genere la ter-
minologia del Klan deriva dalla sostituzione della lettera ‘c’ con la
lettera ‘k’. Per esempio, noi non diciamo caverna, ma Kaverna.
Avete capito?’.
(Allora da domani tutte le lettere vengano immediatamente
soppresse e sostituite…)
Assentimmo tutti in coro (e tutti rimanemmo in un silenzio
compassionevole) e subito Falco Notturno ricominciò a parlare.
Il nostro nome deriva dalla parola greca ‘kuklos’ che significa
circolo (in effetti girano costantemente in circolo, come sono so-
lito fare i deficienti ed i malati psichici, non nominando gli osses-
sivi e gli idioti; che poi si intendano anche di filosofia conservia-
mo seri ed onesti dubbi….).
Nel periodo successivo alla Guerra Civile, le prime società segre-
te vennero chiamate ‘Circoli Bianchi’ e solo nel 1865, nel Tennes-
see, venne fondato il Klan dal generale Forrest che ne fu il primo
affiliato (non so se prima o dopo il vescovo; comunque non vi
fate meschine illusioni, se pensiate che lo stato del Tennesse
disti troppi chilometri da Roma. Vi invito a verificare, da quello
che risulta taluni nella antica capitale pagherebbero ben più
dei 3 $ previsti per la modesta iscrizione. Nella differenza che
lì non è il negro, povero disgraziato, il problema, ma la delin-
quenza di opposte bande per il controllo dei cartelli della dro-
ga…).
‘E la parola Klan da che cosa deriva?’, domandai io.
‘Dai clan scozzesi’, replicò Falco Notturno.
”Questi usavano mandare in giro dei cavalieri con croci illumi-
nate per invitare alla guerra i loro membri’.
Ma soprattutto, colmo della beffa, inneggiano anche alla libertà
di parola, prima e dopo il rito della storia….
(continua….)
(F. Nencini, Storia del KKK)
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‘Nell’entrare nella piazza, il visitatore vede la folla suddivisa
in gruppi disposti in stretti cerchi, dal diametro di pochi piedi
soltanto.
E lì, al centro di ciascun cerchio, è seduto il musicista, il qua-
le tiene fra le gambe un barile, il cui robusto fondo percuote
con due bastoni, incessantemente, per ore ed ore, come un fol-
le, mentre il sudore gli cola, letteralmente, a rivoli e bagna il
terreno.
Lì, anche, faticano i danzatori, uomini e donne, posseduti, i-
spirati, al punto da non avvertire alcun senso di stanchezza
nelle membra, che si muovono con una tale rapidità e una ta-
le continuità che sembrerebbe possibile soltanto a delle mac-
chine.
La testa è reclinata sul petto, o è rovesciata all’indietro, gli
occhi sono chiusi o mandano lampi, mentre le braccia, fra le
grida, gli urli, gli acuti strilli, si muovono nell’aria o segnano
il tempo, e le mani percuotono le cosce, accompagnando una
musica che sembra eterna.
‘I piedi difficilmente si muovono per uno spazio maggiore
della loro lunghezza, ma si sollevano e ricadano, si torcono
in dentro e in fuori, toccano il terreno prima coi talloni e poi
con le punte, sempre più rapidamente, tanto che l’occhio del-
l’osservatore non è in grado di seguirli’.
Più di trent’anni dopo, nel numero del febbraio 1886 di ‘Cen-
tury Magazine’, George W. Cable, un romanziere di New Or-
leans, scriveva:
‘La bamboula continua a urlare, a rumoreggire, a contercer-
si, a far capitomboli…. La musica però è cambiata….’
(A. Polillo, Jazz)
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…..Il luogo vendeva chincaglieria, giornali, dolci, oggetti
di artigianato, cestini fatti di canna di palude così come
venivano intrecciati in quella zona, con disegni elaborati.
C’erano figurine e bigiotteria, alcuni oggetti in espositori
di vetro, ombrelli, pantofole, perline blu per riti voodoo
e candele votive.
Entrando, si passava in mezzo a lavorazioni in ferro a
forma di ramo di quercia e motivi ornamentali a forma
di ghianda, e alcuni adesivi da paraurti.
Uno diceva IL PIU’ GRANDE NONNO DEL MONDO,
un altro SILENZIO, un altro ancora, TIRA LA CARRET-
TA.
Era anche un posto dove si veniva a mangiare dei gam-
beri d’acqua dolce, con un piccolo bancone su un lato
della stanza.
Il proprietario era un vecchietto di nome Sun Pie, Torta
di Sole, uno dei personaggi più singolari che si possano
incontrare in una vita.
Era piccolo, nerboruto come una pantera, viso nero ma
con tratti slavi, con in testa un cappello di paglia piatto
e dalla tesa corta.
Gli stava sulle ossa la pelle nuda della Terra.
La giovane sul patio era sua moglie, sembrava una ra-
gazzina. C’era fin troppa luce e i tavoli splendevano di
cera per mobili.
Sun Pie stava lavorando a una poltrona imponente, sem-
brava uscita da una cattedrale.
– In cerca di un bel posto per pescare?
– No, siamo solo di passaggio.
– Lei è uno che prega?
mi chiese.
– Uh, uh.
– Bene, sarà meglio per quando arriveranno i cinesi.
Lo disse senza guardarmi.
Aveva uno strano modo di parlare, come se non fossi
stato io a entrare a casa sua, ma lui a mettere piede nel-
la mia.
– Sa, al principio qui c’erano i cinesi. Erano gli indiani.
Lo sa, i pellerossa, i comanche, i siox, gli arapaho, i che-
yenne, tutta quella gente, erano tutti cinesi. Sono venuti
qui all’epoca in cui Cristo guariva gli infermi.
– Tutte le squaw e i capitribù sono venuti dalla Cina, han-
no attraversato l’Asia, sono scesi dall’Alaska e hanno
scoperto questo posto. Sono diventati gli indiani un bel
po’ di tempo dopo.
Quella storia l’avevo già sentita, che una volta il Mare di
Bering era stato una massa di terraferma così che chiunque
avrebbe potuto arrivare a piedi dall’Asia o dalla Russia….
Era possibile che quello che diceva Sun Pie fosse vero….
(prosegue in sun-pie-2.html)
(Bob Dylan, Chronicles)
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la-mia-vita-nel-bosco-degli-spiriti.html &
il-canto-degli-antenati-2.html &
il-canto-degli-antenati-3.html
Oh, il flauto.
Lasciatemi vedere: voglio appartarmi con voi…
ma perché vi adoperate a venirmi sopravvento,
come se voleste mandarmi a finire dentro una
rete?
GUILDENSTERN: O mio signore, l’amor mio di-
viene troppo scortese soltanto perch’io mi faccio
troppo ardito nel compiere il mio dovere.
AMLETO: Non riesco a capir troppo bene.
Vuoi suonare questo flauto?
G: Mio signore, non posso.
A: Suvvìa, te ne prego.
G: Credetemi, non posso.
A: Te ne scongiuro.
G: Non saprei nemmeno incominciare, signor mio.
A: E’ facile, come dir bugie. Governa questi fori con le
dita e con il pollice, dà fiato con la bocca, e discorrerà
con una musica eloquente. Guarda: questi sono i tasti.
G: Ma io non posso costringerli a esprimere alcuna sor-
ta d’armonia. Non ne conosco l’arte.
A: Ebbene; guarda ora quanto poca stima tu fai di me!
arrivi fino a volermi suonare, e fingi di conoscere i miei
tasti; vorresti estirpare addirittura il cuore del mio se-
greto, vorresti suonarmi dalle note più basse a quelle
più alte del mio registro. E c’è della buona musica, e
una splendida voce, in questo mio organo. E non-
dimeno tu non saprai trarne alcuna espressione.
Per il sangue di Nostro Signore, credi tu che sia più
facile suonar me che un flauto? Chiamami pure
col nome dello strumento che preferisci: per quan-
to mi verrai tastando in giro, a suonarmi non….
riuscirai.
Iddio ti benedica.
POLONIO: Mio signore, la regina vorrebbe parlar
con voi, e subito.
AMLETO : Vedete anche voi quella nuvola? quella
che ha quasi la forma d’un cammello?
P: Per la messa, par proprio un cammello.
A: Eppure, mi sembra che somigli una dònnola.
P: Il dorso par quello d’una dònnola.
A: O quello d’una balena?
P: Proprio quello d’una balena.
A: E allora andrò subito da mia madre. Secondano
la mia pazzia per quant’io li incoraggio.
Andrò subito.
P: Ed io vado intanto ad annunziarvi.
A: ‘Subito?’ è ben facile a dirsi. Lasciatemi amici.
Volge in questo punto quell’ora della notte in cui si
radunan le streghe, s’apron le bocche dei sepolcri e
l’inferno stesso alita un contagio su questo mondo.
Ed io potrei ber sangue caldo e compiere azioni così
crudeli che il giorno tremerebbe a guardarle.
Ma zitto!
Debbo andar da mia madre.
O cuore, non perdere la tua umana natura: non per-
mettere che l’anima di Nerone entri mai in questo
petto risoluto.
Ch’io sia crudele, ma non snaturato.
A parole, la trafiggerò come se le piantassi dei pu-
gnali in seno; ma non ne userò alcuno. Siano in
questo ipocrite, la mia lingua e l’anima mia.
Per quanto le mie parole possan riprenderla vio-
lentamente, la mia anima non consenta per nul-
la a dar loro il suggello dell’azione.
(W. Shakespeare, Amleto)
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La nonna era un’ardente seguace della chiesa Avventista
del Settimo Giorno, ed io costretto a simulare un’adora-
zione per il suo Dio; era questo il compenso che’ella esi-
geva da me per il mio mantenimento.
Gli anziani della sua setta commentavano un Vangelo
sovraccarico d’immagini d’immensi laghi di fuoco e-
terno, di mari prosciugati, di valli piene di ossa calci-
nate, di un sole che inceneriva, di una luna sanguigna,
di stelle che cadevano sulla terra, di un bastone che si
tramutava in un serpente, di voci che parlavano delle
nubi, di uomini che camminavano sull’acqua, di Dio
che cavalcava i venti, di acqua cambiata in vino, dei
morti che si alzavano e tornavano vivi, dei ciechi che
ci vedevano, degli storpi che si mettevano a cammina-
re; una salvazione piena di bestie fantastiche, con mol-
teplici teste, corna, occhi e piedi; sermoni che parlavano
di statue con la testa d’oro, spalle d’argento, gambe d’ot-
tone e piedi d’argilla; una narrazione cosmica che inco-
minciava prima del principio dei tempi e finiva con le
nubi del cielo che si dissipavano al Secondo Avvento di
Cristo; cronache che si concludevano con l’Armageddon;
drammi affollati dai miliardi e miliardi di esseri umani
che erano vissuti o morti nei tempi e finalmente Dio li
giudicava per la vita o per la morte….
Mentre ascoltavo il vivido linguaggio dei sermoni ero spinto
ad una fede emotiva, ma non appena uscivo dalla chiesa e
vedevo lo smagliante splendore del sole e sentivo la vita pal-
pitante della gente per le strade mi persuadevo che nulla di
tutto quello era vero, che nulla sarebbe accaduto.
E una volta ancora conobbi la fame, la fame pungente, la
fame che metteva nel mio corpo un’irrequietezza senza
scopo, la fame che mi rendeva impaziente, che mi faceva
ardere di collera, che faceva balzar l’odio dal mio cuore
come il dardo della lingua d’un serpente, la fame che
creava in me esigenze strane.
Qualsiasi cibo potessi sognare non mi appariva nean-
che per la metà così delizioso quanto i wafer vanigliati.
Ogni volta che avevo un nichel correvo all’alimentari
dell’angolo e mi comperavo una scatola di wafer vani-
gliati, e poi me ne tornavo verso casa, adagio, in modo
da poterli mangiare senza doverne far parte ad alcu-
no.
Poi mi mettevo a sedere sui gradini della porta di ca-
sa e sognavo di mangiarne un’altra scatola; il desiderio
diventava poi così acuto che mi dovevo forzare a far
qualcosa per dimenticare.
Imparai un sistema di bere acqua che, avessi o no de-
siderio di acqua, mi faceva sentir pieno per un po’ di
tempo; mettevo la bocca sotto un rubinetto e lasciavo
venir giù l’acqua a tutta forza, facendo entrare la vio-
lenta cascata direttamente nello stomaco fino a riem-
pirlo.
Alle volte lo stomaco mi doleva, ma per un poco mi sentivo
pieno.
In casa della nonna non si mangiava mai carne di maiale o
di vitella e raramente carne di qualsiasi sorta.
Di rado si mangiava pesce, e in questo caso soltanto quello
pieno di scaglie e di spine. Lievito non se usava mai; addu-
cevano che contenesse una sostanza chimica dannosa per
l’organismo.
Per colazione mangiavo polenta al sugo, fatta di farina e
lardo, che continuavo poi a sentirmi sullo stomaco per ore
ed ore.
Dovevamo prendere continuamente bicarbonato di soda
contro l’acidità di stomaco.
Alle quattro del pomeriggio mangiavo un piatto di verdu-
ra condita al lardo. Alle volte, la domenica, compravamo
dieci soldi di carne di bue che normalmente risultava im-
mangiabile.
Il piatto favorito della nonna era un arrosto di pistacchi
ch’ella faceva rassomigliare alla carne, ma che aveva un
sapore alquanto diverso.
La mia posizione in casa era delicata; io ero un inferiore, un
dipendente non invitato, un congiunto che non professava
alcuna religione e la cui anima si trovava in pericolo morta-
le.
La nonna, basando la sua logica sulla giustizia di Dio, asseri-
va decisamente che un peccatore, in una famiglia, poteva at-
tirare l’ira del Signore sull’intera casa, dannando tanto il
colpevole che l’innocente, e in più di un’occasione interpre-
tò la lunga infermità di mia madre come il risultato della
mia mancanza di fede.
Io divenni abile nell’ignorare queste minacce cosmiche, e
mi si sviluppò una sorta d’insensibilità verso tutte le pre-
diche metafisiche.
(Richard Wright, Ragazzo negro)
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Presi Betsy e corsi fino a casa, contento di non averla
venduta.
Ma mi tornò la fame.
Avrei fatto meglio a prendere i 97 centesimi?
Ormai era troppo tardi.
Mi stringevo Betsy tra le braccia e attesi.
Quando tornò la mamma le raccontai quello che era
successo.
– E tu non hai preso i soldi?,
mi disse.
– No.
– Perché?
– Non lo so,
dissi incerto.
– Non lo sai che 97 centesimi sono quasi un dollaro?,
mi disse.
Sì, dissi, contando sulle dita, 97, 98, 99,…100. Ma non
volevo vendere Betsy a gente bianca (si erano oltretut-
to radunati…intorno).
– Perché?
– Perché sono bianchi,
dissi.
– Non do la mia Betsy a dei bianchi…
– Sei uno sciocco,
disse la mamma.
Una settimana dopo Betsy andò schiacciata sotto le
ruote di un carro carbone.
Io piansi e la sotterrai nel cortile piantando una doga
di botte sulla testa della tomba.
La mamma fece questo solo commento.
– Potevi avere un dollaro e mangiarti un bell’hambur-
ger in attesa dello show.
– Adesso mangia un cane morto, se puoi.
Io non le risposi.
Avanti e indietro, nel bagnato e nella polvere, dentro casa
o fuori, i giorni e le notti cominciavano a sgranarmi tante
magiche possibilità.
Se strappavo un pelo alla coda di un cavallo e lo tappavo
in una brocca, il pelo nottetempo diventava un serpente.
Se incontrando una suora o una madre cattolica vestita
di nero sorridevo e le lasciavo vedere i denti, dovevo mo-
rire.
Se passavo tra una scala appoggiata e il muro, avrei certo
avuto una disgrazia.
Se mi baciavo un gomito, diventavo una ragazza.
Se mi prudeva l’orecchio destro, allora qualcuno parla-
va bene di me.
Se toccavo un gobbetto sulla gobba, non avrei avuto ma-
lattie.
Se mettevo uno spillo da balia sulla rotaia del treno, e il
treno ci passava, lo spillo sarebbe diventato un magnifi-
co paio di forbici nuove.
Se sentivo una voce e nessuno mi era vicino, allora erano
Iddio o il Diavolo che cercavano di palparmi.
Tutte le volte che orinavo ci sputavo dentro per buon
augurio.
Se mi prudeva il naso, qualcuno doveva venire a trovarmi.
Se canzonavo uno storpio, Iddio mi avrebbe fatto storpio.
Se nominavo il nome di Dio invano, Dio mi avrebbe ucciso
sul colpo.
Se pioveva e faceva il sole, era il diavolo che picchiava sua
moglie.
Se, in qualunque notte, le stelle scintillavano più del solito,
voleva dire che gli angeli in cielo eran felici e svolazzavano
sui pavimenti del paradiso, non essendo le stelle altro che
fori per ventilare il paradiso, lo scintillio era prodotto dagli
angeli che passavano e ripassavano sui fori per i quali l’aria
entrava nella santa dimora di Dio.
Se rompevo uno specchio, erano sette anni di guai.
Se ero buono con la mamma, sarei diventato vecchio e
ricco.
Se avevo un raffreddore e mi legavo una calza smessa e
sporca intorno alla gola prima d’andare a letto, l’indoma-
ni mattina ero guarito.
Se portavo un pezzettino di assafetida in una borsetta ap-
pesa al collo, non avrei preso malattie.
Se il mattino della domenica di Pasqua guardavo il sole
attraverso un vetro affumicato, avrei visto il sole urlare
le lodi di Dio risorto.
Se un uomo confessava qualcosa in punto di morte era la
verità; perché nessuno può guardare la morte e mentire.
Se si sputava su ogni chicco di grano seminandolo, il gra-
no veniva bello alto e faceva frutto.
Se versavo il sale, dovevo buttarne un pizzico dietro la
spalla sinistra per scacciare la mala sorte.
Se coprivo uno specchio durante un temporale, la folgo-
re non mi avrebbe colpito.
Se passavo sopra una scopa buttata a terra, avrei avuto
dei guai.
Se nel sonno passeggiavo, era Iddio che cercava di con-
durmi in qualche luogo a fare una buona azione per lui….
(Richard Wright, Ragazzo negro)
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Foto del blog:
I giorni e le ore cominciavano ormai a parlare un linguag-
gio più chiaro.
Ogni esperienza aveva un suo intimo, acuto significato.
Vi fu l’anelante, ansiosa gaiezza della caccia e la cattura
delle lucciole fugaci nelle languide notti estive.
Vi fu la molle ospitalità del profumo penetrante delle
soavi magnolie.
Vi fu il senso di sconfinata libertà distillato dal fruscio
delle erbe verdi, oscillanti e luccicanti al vento e al sole.
Vi fu il senso d’impersonale abbondanza quando vidi
una capsula di cotone che aveva versato e sparso per
terra la sua bianca peluria.
Vi fu il riso di compassione che mi gorgogliò in gola
quando osservai una grassa anatra nel suo dondolante
bighellonare per il cortile.
Vi fu l’incertezza che provai quando udii il canto teso
e penetrante d’un’ape giallonera volteggiare nervosa ma
paziente sopra una rosa bianca.
Vi fu l’ottusa e sonnolenta sensazione che provai nel sor-
seggiare diversi bicchieri di latte, che bevvi lentamente
in modo da farmeli durare a lungo, e bevendone a sazie-
tà per la prima volta in vita mia.
Vi fu l’amaro divertimento di andare in città con la nonna
ed osservare gli sguardi sconcertati della gente bianca nel
vedere una vecchia donna bianca condurre due ragazzi
innegabilmente neri per i negozi di via Capitol.
Vi fu il fresco e penetrante odore dei semi di cotone in cot-
tura che faceva venir l’acqualina.
Vi fu l’eccitazione del pescare in pantani fangosi con mio
nonno, nelle giornate nuvolose.
Vi fu la timorosa soggezione che provai quando il nonno
mi portò in una segheria a veder le gigantesche lame d’-
acciaio girare velocemente, e nell’udire il gemere e lo stri-
dere che facevano mordendo i tronchi verdi e umidi.
Vi fu il gusto agro che quasi mi fece piangere quando
mangiai il mio primo cachi acerbo.
Vi fu l’avida gioia del gusto saporoso delle noci di hicko-
ry selvatico.
Vi fu l’arido e ardente mattino estivo quando mi graffiai
le braccia nude sui rovi per prendere le more, e tornai a
casa con dita e labbra tinte di nero dal dolce sugo delle
more.
Vi fu il gusto che provai nel mangiare il mio primo san-
dwich di pesce fritto, che sbocconcellai lentamente spe-
rando che non finisse mai.
Vi fu il mal di pancia duratomi tutta la notte quando mi
arrampicai sull’albero d’un vicino e mangiai le pesche a-
cerbe rubate.
Vi fu il mattino in cui credetti di cader morto dalla paura
quando posai il piede nudo su un verde e lucente serpen-
tello di giardino.
E vi furono le lunghe, lente, languide giornate e nottate
di pioggerella minuta….
(Richard Wright, Ragazzo negro)