ERA SEMPRE VITA DA PIANTAGIONE

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era sempre vita da piantagione

 

 







La musica che si faceva, nella seconda metà degli anni 30,

e poco dopo, nelle case di cinque piani allineate lungo la

‘Strada’ era, in linea generale, piuttosto diversa da quella

che suonavano le grandi orchestre nelle sale degli alberghi

e nelle ‘ballrooms’ di New York, di Chicago, di Los Angeles,

e di altre grandi città.

Era più negra, più vicina alle forme del jazz degli anni 20,

e non era destinata al ballo. Tuttavia il divario che separa-

va quel jazz da quello che si era ascoltato una decina di

anni prima nel South Side di Chicago, e più ancora dal

genuino blues, era notevole.

Salvo eccezioni, magari vistose come quelle rappresenta-

te dalle orchestre di Count Basie e di Woody Herman, il

blues aveva soltanto un posto secondario nel 


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repertorio delle formazioni swing, e lo si poteva riconoscere di

solito nelle armonie e nella struttura di alcuni pezzi strumenta-

li, piuttosto che nello spirito delle esecuzioni.

Per sentire nuovamente dell’autentico blues del South Side chi-

cagoano e, prima ancora, del Sud-Ovest – si dovette attendere

la riscoperta del boogie woogie e il grande successo che i miglio-

ri suoi esponenti riportarono alla Carnegie Hall e che si ripeté

durante la loro permanenza al Cafè Society, nel Greenwich

Village, un locale frequentato dalle celebrità.

 

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Nel Village, il jazz più autentico, e più precisamente il Dixie-

land, trovò un altro sicuro rifugio, sul finire degli anni 30, in

un locale gestito da Nick Rongetti, il Nick’s. 

Lì finirono per ritrovarsi molti dei musicisti che avevano im-

parato a suonare il jazz a Chicago una quindicina di anni pri-

ma, e che avevano  ora il loro condottiero in Eddie Condon.

 

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Sempre nel Village, al Café Society, si cominciarono anche a

presentare, proprio in quel periodo, dei jazzmen negri assie-

me ai bianchi, anticipando una prassi che si sarebbe genera-

lizzata nella 52a Strada solo più tardi. 

Più tempo ci volle, sia nel Village che nella ‘Swing Street’,

perché mutasse anche la politica di questi locali per quanto

riguarda il colore della pelle dei loro clienti, che per anni,

salvo eccezioni, doveva essere necessariamente bianco.

  

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Soltanto nel 1942-43 i pregiudizi dei gestori dei clubs (e dei clienti

bianchi) nei confronti del pubblico di pelle scura poterono consi-

derarsi in larga misura superati. 

Ricordando gli anni in cui era una delle vedettes della 52a Strada,

Billie Holiday ha avuto parole amare su questo argomento:

 

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‘Non c’era cotone da raccogliere tra il Leon & Eddie’s e l’East

River, ma, credetemi, da qualunque punto di vista la guarda-

ste, era vita di piantagione.

E noi non andavamo lì per guardare; dovevamo viverci.

Fraternizzare coi bianchi era proibito nel modo più assoluto:

appena finito il nostro numero, ci toccava scappar via dalla

porta posteriore e metterci a sedere nel vicolo, fuori’. 

Un giorno Billie fu licenziata, insieme con Teddy Wilson, 

perché si era trattenuta al tavolo con Charlie Barnet, che

veniva spesso a farle visita. 

La discriminazione in atto nei locali jazzistici ebbe notevoli

conseguenze sia sull’atteggiamento degli artisti negri che sul-

la qualità della loro musica. 

 

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Soprattutto durante l’era dello swing, in cui videro allargarsi smi-

suratamente il loro pubblico e aumentare conseguentemente, an-

che se non in proporzione, i loro guadagni, molti musicisti negri

furono tentati di assumere verso i bianchi che li ascoltavano un

atteggiamento compiacente, fondamentalmente servile, che i lo-

ro più dignitosi fratelli di razza definiscono con disprezzo ‘zio

Tommismo’. 

 

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Nel mondo del jazz, fare lo zio Tom non significa soltanto dare

al pubblico bianco ciò che questo vuole, ma recitare la parte del

negro visto secondo l’ottica distorcente del pregiudizio razziale,

proprio come i negri furono costretti a fare negli spettacoli dei

minstrels.

Significa presentarsi dinanzi all’auditorio con l’aria e gli atteg-

giamenti del negro infantile, allegro, che riconosce con letizia la

propria inferiorità.

Significa anche presentare la propria musica come qualcosa di

deteriore, di scarsamente importante, che serve solamente a far

passare qualche ora di allegria.

(A. Polillo, Jazz)




 

 

era sempre vita da piantagione

  

ERA SEMPRE VITA DA PIANTAGIONEultima modifica: 2012-08-08T19:00:00+02:00da giuliano106
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