IL TEMPO (il ritmo) (5)

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I giorni e le ore cominciavano ormai a parlare un linguag-

gio più chiaro.

Ogni esperienza aveva un suo intimo, acuto significato.

Vi fu l’anelante, ansiosa gaiezza della caccia e la cattura

delle lucciole fugaci nelle languide notti estive.

Vi fu la molle ospitalità del profumo penetrante delle

soavi magnolie.

Vi fu il senso di sconfinata libertà distillato dal fruscio

delle erbe verdi, oscillanti e luccicanti al vento e al sole.

Vi fu il senso d’impersonale abbondanza quando vidi

una capsula di cotone che aveva versato e sparso per

terra la sua bianca peluria.

Vi fu il riso di compassione che mi gorgogliò in gola

quando osservai una grassa anatra nel suo dondolante

bighellonare per il cortile.

Vi fu l’incertezza che provai quando udii il canto teso

e penetrante d’un’ape giallonera volteggiare nervosa ma

paziente sopra una rosa bianca.

Vi fu l’ottusa e sonnolenta sensazione che provai nel sor-

seggiare diversi bicchieri di latte, che bevvi lentamente

in modo da farmeli durare a lungo, e bevendone a sazie-

tà per la prima volta in vita mia.

Vi fu l’amaro divertimento di andare in città con la nonna

ed osservare gli sguardi sconcertati della gente bianca nel

vedere una vecchia donna bianca condurre due ragazzi

innegabilmente neri per i negozi di via Capitol.

Vi fu il fresco e penetrante odore dei semi di cotone in cot-

tura che faceva venir l’acqualina.

Vi fu l’eccitazione del pescare in pantani fangosi con mio

nonno, nelle giornate nuvolose.

Vi fu la timorosa soggezione che provai quando il nonno

mi portò in una segheria a veder le gigantesche lame d’-

acciaio girare velocemente, e nell’udire il gemere e lo stri-

dere che facevano mordendo i tronchi verdi e umidi.

Vi fu il gusto agro che quasi mi fece piangere quando

mangiai il mio primo cachi acerbo.

Vi fu l’avida gioia del gusto saporoso delle noci di hicko-

ry selvatico.

Vi fu l’arido e ardente mattino estivo quando mi graffiai

le braccia nude sui rovi per prendere le more, e tornai a

casa con dita e labbra tinte di nero dal dolce sugo delle

more.

Vi fu il gusto che provai nel mangiare il mio primo san-

dwich di pesce fritto, che sbocconcellai lentamente spe-

rando che non finisse mai.

Vi fu il mal di pancia duratomi tutta la notte quando mi

arrampicai sull’albero d’un vicino e mangiai le pesche a-

cerbe rubate.

Vi fu il mattino in cui credetti di cader morto dalla paura

quando posai il piede nudo su un verde e lucente serpen-

tello di giardino.

E vi furono le lunghe, lente, languide giornate e nottate

di pioggerella minuta….

(Richard Wright, Ragazzo negro)





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IL TEMPO (lo spartito) (4)

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Quella notte dormì nella stalla.

C’erano solo una ventina di animali, perlopiù cavalli e un

cammello, quasi tutti vecchi o senza valore.

Gli altri erano ancora in giro per la stagione invernale nei

circhi francesi e della Germania meridionale.

Aveva con sé il violino.

Posò il piumino e il lenzuolo nel box accanto a Roselil,

mezza berbera e mezza araba.

Era rimasta lì perché non obbediva che al suo cavaliere.

Anzi, nemmeno a lui.

Suonò la ‘Parita in la minore’.

Dal soffitto una lampadina solitaria gettava una luce,

dorata, sugli animali in ascolto.

In Martin Buber aveva letto che sono gli esseri umani

più spirituali e più vicini agli animali.

L’aveva detto anche Eckart, in ‘Il regno di Dio è vici-

no’.

E’ negli animali che bisogna cercare Dio.

Pensò alla bambina.

A diciannove anni, quando aveva raggiunto il succes-

so, aveva scoperto di poter guadagnare entrando nell’-

essenza sonora degli esseri umani, soprattutto dei bam-

bini.

Aveva subito messo a frutto questa sua capacità.

Dopo un paio d’anni aveva dieci allievi al giorno, co-

me Bach a Lipsia.

C’erano state migliaia di bambini.

Bambini spontanei, bambini rovinati, bambini prodi-

gio, bambini senza speranza.

Alla fine c’era stata lei.

Adagiò il violino nell’astuccio e lo prese in braccio,

come tiene suo figlio una madre che allatta.

Era un cremonese, un Guarnieri, l’ultima reliquia dei

tempi d’oro.

Recitò la sua preghiera serale.

La vicinanza degli animali l’aveva rasserenato.

Ascoltò la stanchezza che si addensava, circondandolo.

Nell’istante in cui stava definendo la sua tonalità, la spos-

satezza si cristallizzò in sonno.

(P. Hoeg, La bambina silenziosa)





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