IL TEMPO (il ritmo) (7)

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La nonna era un’ardente seguace della chiesa Avventista

del Settimo Giorno, ed io costretto a simulare un’adora-

zione per il suo Dio; era questo il compenso che’ella esi-

geva da me per il mio mantenimento.

Gli anziani della sua setta commentavano un Vangelo

sovraccarico d’immagini d’immensi laghi di fuoco e-

terno, di mari prosciugati, di valli piene di ossa calci-

nate, di un sole che inceneriva, di una luna sanguigna,

di stelle che cadevano sulla terra, di un bastone che si

tramutava in un serpente, di voci che parlavano delle

nubi, di uomini che camminavano sull’acqua, di Dio

che cavalcava i venti, di acqua cambiata in vino, dei

morti che si alzavano e tornavano vivi, dei ciechi che

ci vedevano, degli storpi che si mettevano a cammina-

re; una salvazione piena di bestie fantastiche, con mol-

teplici teste, corna, occhi e piedi; sermoni che parlavano

di statue con la testa d’oro, spalle d’argento, gambe d’ot-

tone e piedi d’argilla; una narrazione cosmica che inco-

minciava prima del principio dei tempi e finiva con le

nubi del cielo che si dissipavano al Secondo Avvento di

Cristo; cronache che si concludevano con l’Armageddon;

drammi affollati dai miliardi e miliardi di esseri umani

che erano vissuti o morti nei tempi e finalmente Dio li

giudicava per la vita o per la morte….


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Mentre ascoltavo il vivido linguaggio dei sermoni ero spinto

ad una fede emotiva, ma non appena uscivo dalla chiesa e

vedevo lo smagliante splendore del sole e sentivo la vita pal-

pitante della gente per le strade mi persuadevo che nulla di

tutto quello era vero, che nulla sarebbe accaduto.


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E una volta ancora conobbi la fame, la fame pungente, la

fame che metteva nel mio corpo un’irrequietezza senza

scopo, la fame che mi rendeva impaziente, che mi faceva

ardere di collera, che faceva balzar l’odio dal mio cuore

come il dardo della lingua d’un serpente, la fame che

creava in me esigenze strane.

Qualsiasi cibo potessi sognare non mi appariva nean-

che per la metà così delizioso quanto i wafer vanigliati.

Ogni volta che avevo un nichel correvo all’alimentari

dell’angolo e mi comperavo una scatola di wafer vani-

gliati, e poi me ne tornavo verso casa, adagio, in modo

da poterli mangiare senza doverne far parte ad alcu-

no.

Poi mi mettevo a sedere sui gradini della porta di ca-

sa e sognavo di mangiarne un’altra scatola; il desiderio

diventava poi così acuto che mi dovevo forzare a far

qualcosa per dimenticare.

Imparai un sistema di bere acqua che, avessi o no de-

siderio di acqua, mi faceva sentir pieno per un po’ di

tempo; mettevo la bocca sotto un rubinetto e lasciavo

venir giù l’acqua a tutta forza, facendo entrare la vio-

lenta cascata direttamente nello stomaco fino a riem-

pirlo.


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Alle volte lo stomaco mi doleva, ma per un poco mi sentivo

pieno.

In casa della nonna non si mangiava mai carne di maiale o

di vitella e raramente carne di qualsiasi sorta.

Di rado si mangiava pesce, e in questo caso soltanto quello

pieno di scaglie e di spine. Lievito non se usava mai; addu-

cevano che contenesse una sostanza chimica dannosa per

l’organismo.

Per colazione mangiavo polenta al sugo, fatta di farina e

lardo, che continuavo poi a sentirmi sullo stomaco per ore

ed ore.

Dovevamo prendere continuamente bicarbonato di soda

contro l’acidità di stomaco.

Alle quattro del pomeriggio mangiavo un piatto di verdu-

ra condita al lardo. Alle volte, la domenica, compravamo

dieci soldi di carne di bue che normalmente risultava im-

mangiabile.

Il piatto favorito della nonna era un arrosto di pistacchi

ch’ella faceva rassomigliare alla carne, ma che aveva un

sapore alquanto diverso.


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La mia posizione in casa era delicata; io ero un inferiore, un

dipendente non invitato, un congiunto che non professava

alcuna religione e la cui anima si trovava in pericolo morta-

le.

La nonna, basando la sua logica sulla giustizia di Dio, asseri-

va decisamente che un peccatore, in una famiglia, poteva at-

tirare l’ira del Signore sull’intera casa, dannando tanto il

colpevole che l’innocente, e in più di un’occasione interpre-

tò la lunga infermità di mia madre come il risultato della

mia mancanza di fede.

Io divenni abile nell’ignorare queste minacce cosmiche, e

mi si sviluppò una sorta d’insensibilità verso tutte le pre-

diche metafisiche.

(Richard Wright, Ragazzo negro)



 

 

 

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IL TEMPO (il ritmo) (7)ultima modifica: 2012-08-16T07:00:00+02:00da giuliano106
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