I BENEFICI DELLA BIODIVERSITA’ DELLE PIANTE (41)

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I principi della biodiversità delle piante (40)

Prosegue in:

Un mondo pieno di immagini (42) &

Gente di passaggio: Michel de Montaigne (87)

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Studiando i reperti fossili, i paleontologi hanno identificato

cinque episodi di estinzione di massa in un miliardo e mez-

zo di anni di evoluzione, il più recente dei quali avvenuto cir-

ca 65 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, con la scom-

parsa dei dinosauri.

Le prime estinzioni di massa colpirono gli invertebrati ma-

rini e altre specie animali, mentre la flora subiva scarsi con-

traccolpi da questi episodi. In effetti, la diversificazione che

diede origine alle piante da fiore – che costituiscono oggi

quasi il 90% delle specie vegetali terrestri – avvenne a par-

tire dal Cretaceo; quindi sono piuttosto recenti in termini e-

volutivi. 

Nell’attuale estinzione di massa, invece, le specie vegetali

subiscono perdite senza precedenti.

Uno studio su base mondiale del 1997, ha rilevato che dalle

240 mila specie esaminate, una su otto è a rischio di estin-

zione. Questo conteggio comprende specie a rischio, spe-

cie decisamente vulnerabili e specie così rare in natura o

così poco conosciute da essere minacciate dai disequili-

bri ecologici.

Oltre il 90% delle specie a rischio sono endemiche di un

solo paese, cioè introvabili in altre zone. La maggior parte

delle specie vegetali a rischio appartiene agli Stati Uniti, al-

l’Australia e al Sudafrica: questo è in parte dovuto al fatto

che la flora di questi paesi è molto più nota di quella di altri

paesi altrettanto ricchi di specie.

Sappiamo bene infatti quante piante sono diventate a ri-

schio di estinzione da quando la macchia di salvia e le pra-

terie perenni della California sono state cementificate o

coltivate, ma non sappiamo quante specie siano state per-

se mano a mano che le piantagioni di caffè e i pascoli han-

no preso il posto delle foreste dell’America Centrale, oppu-

re via via che le foreste pluviali dei bassopiani dell’Indone-

sia e della Malesia sono state sostituite da piantagioni di

palme e di alberi da taglio. 

Non sono soltanto singole specie, ma intere famiglie ed eco-

sistemi a confrontarsi con l’estinzione. Le foreste di alloro del-

le Ande, le foreste di querce della Colombia, le brughiere del-

l’Australia occidentale, le foreste stagionalmente aride delle i-

sole del Pacifico della nuova Caledonia, sono state tutte so-

vrasfruttate dall’uomo.

Nel sud-est della Florida intere famiglie di piante, come quelle

a legno duro delle macchie subtropicali o quelle delle pinete dei

terreni, sono ormai circoscritte in minuscoli appezzamenti all’in-

terno di una distesa di centri suburbani, campi di canna da zuc-

chero e agrumeti. Questi residui insostituibili di ciò che era un

tempo il sud-est della Florida vengono oggi mantenuti in vita

grazie al costante controllo dell’uomo che tenta di arginare l’in-

vasità delle piante esotiche, come il pepe brasiliano e la ca-

suarina australiana. 

Si ha perdita di biodiversità anche quando scompaiono cep-

pi genetici all’interno delle specie.

L’importanza della biodiversità è soprattutto evidente se si

prende in esame il problema della nostra alimentazione. Cir-

ca un terzo delle specie vegetali offre frutti, tuberi, noci, semi,

foglie, fusti o radici commestibili.

Per i nove decimi della storia umana in cui l’uomo è vissuto di

caccia e di raccolta, la cultura media doveva avere conoscen-

za di parecchie centinaia di specie di piante commestibili che

potessero fornire sostentamento. Ancora oggi gli alimenti sel-

vatici integrano la dieta di milioni di persone in tutto il mondo

rurale povero, soprattutto durante le stagioni meno favorevoli.

In Nigeria per esempio, le donne Tuareg mietono il panìco e

il miglio shama dei terreni desertici durante la migrazione sta-

gionale delle mandrie.

Nelle regioni rurali del nord-est della Tailandia, durante la sta-

gione delle piogge gli alimenti selvatici raccolti nella foresta e

ai margini dei campi forniscono la metà del cibo a disposizio-

ne dei villaggi.

Nei mercati della città di Iquito, nell’Amazzonia peruviana, si

vendono i frutti di circa 60 specie selvatiche di alberi, arbusti e

vitigni e si calcola che gli abitanti delle vicine zone rurali traggo-

no un decimo della loro alimentazione dai frutti selvatici.

Negli ultimi 5-10 millenni, l’uomo ha coltivato gran parte del pro-

prio cibo. L’agricoltura ha avuto inizio in modo indipendente nel-

le diverse regioni, via via che gli uomini cominciavano a vivere a

più stretto contatto gli uni con gli altri, abbandonando il nomadi-

smo e affidando la produzione alimentare alle piante più adatte al-

le ripetute semine e mietiture. 

(Worldwatch Institute)

 

 

 

 

 

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I BENEFICI DELLA BIODIVERSITA’ DELLE PIANTE (40)

Precedente capitolo:

Verità scientifica e verità ideologica (39)

Prosegue in:

I benefici della biodiversità delle piante (41)

Foto del blog:

Nutrimento dai ‘fotoni’ (1) &

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A colpo d’occhio, le patate selvatiche non sembrano un granché:

sono piante dal fusto sottile, dall’aspetto alquanto stentato, che

nascondono sottoterra tuberi piccoli. Eppure queste piante so-

no alleati fondamentali dell’uomo nella lotta alla peronospora,

un fungo che attacca le patate.

Intorno al 1840 la peronospora invase e devastò i campi di pata-

te dell’Irlanda, provocando la terribile carestia che costò la vita

a più di un milione di persone. Nel nostro secolo la malattia è

stata ampiamente arginata attraverso i fungicidi, ma dalla me-

tà degli anni 80 i coltivatori hanno ricominciato a denunciare

episodi di peronospora resistente ai fungicidi.

Negli anni 90 questi nuovi ceppi virulenti hanno distrutto il 15%

dei raccolti di patate di tutto il mondo, con una perdita di pro-

dotto pari a 3,25 miliardi di dollari; in alcune regioni, come gli

altipiani della Tanzania, le perdite causate dal fungo hanno

sfiorato il 100%.

Fortunatamente gli scienziati hanno scoperto che le patate tradi-

zionalmente coltivate sulle Ande e le corrispondenti specie sel-

vatiche sviluppano resistenza ai nuovi ceppi di peronospora,

tanto che oggi c’è la speranza di ristabilire la produzione mon-

diale di patate. 

Le patate selvatiche sono una dimostrazione dei benefici che

l’uomo trae dalla diversità biologica sulla terra.

La biodiversità vegetale è probabilmente la maggiore risorsa

che il genere umano ha avuto a disposizione dalla natura du-

rante tutto il suo sviluppo culturale.

Ad oggi gli scienziati hanno catalogato più di 250.000 specie                               

di muschi, felci, conifere e piante da fiore e si calcola che po-

trebbero esserci oltre 50.000 specie non ancora documentate, 

soprattutto nelle remote e quasi sconosciute foreste tropicali.

Solo all’interno, delle circa 100 specie coltivate che forniscono

la maggior parte dell’alimentazione mondiale, gli agricoltori

tradizionali hanno selezionato e sviluppato centinaia di mi-

gliaia di differenti varietà generiche.

In questo secolo, gli ibridatori specializzati hanno utilizzato

questo ricco patrimonio generico per creare la varietà di col-

ture ad alto rendimento che hanno reso possibile l’enorme

produttività dell’agricoltura moderna.

La diversità della flora fornisce anche oli, lattici, gomme, fi-

bre, tinture, essenze e altri prodotti utilizzati nelle lavorazio-

ni industriali e che usiamo nella nostra vita quotidiana. Sia

che apparteniamo al 20% di persone che quando si sente ma-

le ha a disposizione una boccetta di pillole, sia che facciamo

parte dell’80% che consulta un guaritore, una parte consisten-

te dei nostri farmaci deriva da composti chimici prodotti da

piante. 

Eppure, più intensivamente usiamo la biodiversità, più met-

tiamo in pericolo – a lungo termine – il suo stesso futuro. L’at-

tività umana sulla Terra è diventata talmente invasiva da mi-

nacciare le radici stesse della biodiversità vegetale, perden-

do per sempre ceppi genetici, specie e perfino intere comu-

nità di specie.

E’ come se il genere umano stesse dipingendo un quadro del

prossimo millennio con una gamma di colori sempre più esi-

gua: ci sarà ancora il VERDE, ma le sue tonalità saranno sem-

pre più uniformi e monocrome.

L’intervento umano ha certamente prodotto benefici, poiché la

società produce più cibo rispetto al passato e chi è in grado di

acquistarlo è in grado di raggiungere standard di vita inimma-

ginabile dalle generazioni precedenti.

Tuttavia il prezzo che la biodiversità e la salute ecologica del

nostro pianeta stanno pagando per queste conquiste getta un’-

ombra sul futuro dei paesi che in questo secolo hanno intra-

preso questo percorso di sviluppo.

Se non vogliamo che la nostra sia una civiltà a breve termine,

dobbiamo difendere la BIODIVERSITA’. Anche se l’estinzio-

ne è una parte naturale dell’evoluzione, normalmente ne co-

stituisce un evento raro: l’andamento naturale dell’estinzio-

ne è valutata in circa 1-10 specie all’anno.

Gli scienziati calcolano invece che in questo secolo i ritmi di

estinzione siano aumentati fino a raggiungere almeno le 1000

specie all’anno, il che indica che stiamo vivendo un periodo di

estinzione di massa: UNO SCONVOLGIMENTO DELLA DI-

VERSITA’ E DELLA COMPOSIZIONE DELLA VITA SULLA

TERRA. 

(Worldwatch Institute)

(Prosegue…)

 

 

 

 

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NUTRIMENTO DAI ‘FOTONI’ (36)

Precedente capitolo:

Ammazzare il Tempo: ricerca dell’assoluto (35)

Prosegue in:

Nutrimento dai ‘fotoni’ (37) &

Ammazzare il Tempo: verità scientifica e verità ideologica (38)

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L’uomo non è sempre stato consapevole del fatto che le piante

si procurano il nutrimento sintetizzandolo da sé.

Gli antichi credevano che lo ricavassero dal suolo e che l’appa-

rato radicale fosse una sorta di bocca che succhiava il nutrimen-

to dal seno della terra.

Al principio dei XVII secolo Jan Baptista van Helmont, un medico

olandese, dimostrò che questo concetto era sbagliato. Dopo aver

piantato un giovane salice del peso asciutto, per cinque anni ag-

giunse al vaso esclusivamente acqua piovana. Quando abbatté la

pianta, trovò che il suo peso era salito a 169 libbre, mentre quello

del terreno, debitamente asciugato, era calato a 199 libbre e 14

once; van Helmont interpretò quella minima perdita di peso del

terreno come un normale errore sperimentale.

 

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Questa semplice dimostrazione mandò in frantumi le antiche

credenze, chiarendo che la maggior parte dell’aumento di peso

registrato dalla pianta durante la sua crescita non era da ascri-

vere al terreno.

Ma allora, da dove proveniva?

Poiché al vaso era stata aggiunta solo acqua piovana, van Hel-

mont dedusse che essa doveva essere stata incorporata in

qualche modo nella massa dei tessuti della pianta.

Questa conclusione, che a quel tempo dovette sembrare miste-

riosa e improbabile, rende conto correttamente di una parte del

guadagno ponderale osservato.

 

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Van Helmont concluse anche, stavolta però sbagliando, che, a

eccezione dell’acqua, la pianta non avesse ricavato alcun mate-

riale dal suolo. Egli non capì che le due once perse nel terreno

nei cinque anni dell’esperimento rappresentavano il peso di ele-

menti minerali che in realtà erano stati essenziali per il benes-

sere e la crescita della sua pianta.

Ancora oggi, molti giardinieri dicono di ‘nutrire’ le piante quando

aggiungono piccole quantità di fertilizzanti minerali al suolo. In ter-

mini rigorosi, questo modo di esprimersi è scorretto, in quanto,

per definizione, gli alimenti sono materiali organici in grado di li-

berare energia quando si combinano con l’ossigeno.

 

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Questo processo, chiamato ossidazione, avviene quando si bru-

cia un pezzo di carbone o quando, nel corso della respirazione

cellulare, vengono ossidati gli zuccheri. La pianta verde, invece,

sintetizza tutto il proprio nutrimento grazie alla fotosintesi, anche

se assorbe dal terreno gli elementi minerali necessari.

Ai tempi del suo esperimento, van Helmont era anche del tutto

inconsapevole dell’esistenza dei gas, che sarebbero stati sco-

perti solo un secolo e mezzo più tardi. Egli pertanto non poteva

immaginare che gran parte del guadagno ponderale della sua

pianta fosse da attribuire all’assorbimento di anidride carbonica,

una componente secondaria dell’aria.

 

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Infatti fu solo all’inizio del XVIII secolo che Stephen Hales, un eccle-

siastico inglese spesso definito il padre della fisiologia vegetale, a-

vanzò l’ipotesi che le piante ricavino parte del loro nutrimento attin-

gendo ‘aria’ dalle foglie.

Il concetto di ‘aria’ di Hales era essenzialmente aristotelico, in quan-

to egli considerava uno degli elementi fondamentali dei quali sareb-

be costituita tutta la materia organica. La vera comprensione della

fotosintesi chimica doveva attendere l’analisi chimica dell’aria, una

conquista scientifica che giunse alla fine del XVIII secolo.

 

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In un arco di tempo relativamente breve, chimici come Joseph

Black, Karl Scheele, Antoine Lavoisier e Henry Cavendish riusci-

rono a isolare l’anidride carbonica, l’ossigeno, l’idrogeno, l’azoto

e altri gas presenti nell’aria.

La scoperta della fotosintesi si avvalse della comprensione della

natura dei gas, e al tempo stesso contribuì a perfezionarla. Tale

scoperta viene generalmente attribuita a Joseph Priestley, un ec-

clesiastico aderente al movimento religioso degli Unitariani, radi-

cale e anticonformista, che avendo apertamente espresso la

propria simpatia per i principi della rivoluzione francese fu co-

stretto a sfuggire dall’Inghilterra alla volta degli Stati Uniti.

 

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Abitando sopra una fabbrica di birra, Priestley rimase così im-

pressionato dal ribollire della miscela contenuta nei recipienti

dove fermentavano il lievito e l’orzo germogliato che decise di

studiare lo stato gassoso della materia e l’effetto dei gas sulla

sopravvivenza degli animali.

Per i suoi esperimenti, inventò una trappola per catturare i topi

senza ferirli; ogni animale catturato veniva poi messo in un re-

cipiente, anch’esso di sua invenzione, nel quale era possibile

creare spazi chiusi sigillati dall’acqua e contenenti gas.

Priestley scoprì che l’aria chiusa poteva sostenere la respira-

zione di un topo  finché circa il 20% del volume inizialmente oc-

cupato dall’aria non veniva occupato dall’acqua contenuta nel

recipiente; a quel punto il topo moriva soffocato.

 

(Prosegue….)

 

 

 

 

 

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IL FIORE O IL DODECAEDRO? (32)

Precedenti capitoli:

La coscienza (28/29) &

Breve cerchio (31)

Prosegue in:

Il fiore o il dodecaedro? (33) &

Il fiore o il dodecaedro? (34/35)

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Stando alle nostre attuali conoscenze, tutta la vita dell’Univer-

so prospera sulla superficie del Pianeta Terra, o in prossimità

di essa.

Sebbene non si possa escludere l’eventualità che in futuro ven-

ga scoperta una qualche forma di vita altrove, nel cosmo, per

ora non abbiamo solide prove che ne dimostrino l’esistenza.

Quel che è certo è che finora né le sonde inviate sulla super-

ficie di Marte e di altri pianeti, né i tentativi di captare segnali

radio alieni provenienti dallo spazio hanno dato risultati posi-

tivi.

Perciò dobbiamo credere, almeno per adesso, che la vita pul-

lulante sotto i nostri occhi sia l’unica esistente, e che il luogo

dove noi viviamo sia, per questo aspetto, unico nell’Universo.

Che cosa rende la superficie della Terra un luogo così adatto

alla genesi della vita e al suo perpetrarsi?

Probabilmente, i fattori critici interagenti sono tre: una gamma

di temperature che permette l’esistenza dell’acqua allo stato

liquido, l’abbondanza di energia luminosa visibile senza troppe

radiazioni ultraviolette e infrarosse pericolose e la particolare

composizione chimica dell’atmosfera, che contiene ossigeno.

Tutte e tre queste condizioni, essenziali per le moderne forme

di vita terrestri, si sono verificate grazie a una straordinaria at-

tività delle piante, che si servono dell’energia luminosa emes-

sa dal Sole per scindere le molecole d’acqua (H(2)O), gene-

ralmente stabili, mediante un processo detto ‘fotolisi’ che libe

ra nell’atmosfera ossigeno molecolare gassoso (O(2)).

Poiché la molecola d’acqua contiene solo un atomo di ossi-

geno, e quella di ossigeno ne contiene invece due, per ogni

molecola di O(2) liberata devono esserne scisse due di ac-

qua.

La fotolisi della molecola d’acqua è una delle fasi della foto-

sintesi, il processo con il quale la pianta attinge l’energia pro-

veniente dal Sole per sintetizzare i nutrienti dei quali ha biso-

gno.

Una volta scissa la molecola d’acqua, l’idrogeno non viene

liberato come gas (H(2)), ma sotto forma dei protoni e degli

elettroni che compongono ciascuno dei suoi atomi.

Nella cellula della foglia, tali protoni ed elettroni sono infine u-

tilizzati per trasformare i prodotti ottenuti a partire dall’anidri-

de carbonica, un gas che la pianta assorbe dall’atmosfera.

Combinando i costituenti di idrogeno con l’anidride carboni-

ca e altri componenti, la pianta sintetizza gli zuccheri che le

servono sia per costruire i propri tessuti sia come riserva e-

nergetica.

 

(Prosegue…..)

 

 

 

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AMMAZZARE IL TEMPO: … breve cerchio… (30)

Precedenti capitoli:

Ammazzare il Tempo: la coscienza (28) &

… La via di mezzo (26/27)

Prosegue in:

… Breve cerchio… (31)

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… A volte qualcuno obietta che, se i criteri per questi giudizi

non sono, dopo tutto, coscienti, perché attribuiscono tali giu-

dizi alla coscienza?

In questo caso ci si lascerebbe però sfuggire l’essenza del-

le idee che sto cercando di esprimere. Non sto dicendo che

dobbiamo capire coscientemente in che modo formiamo le

nostre impressioni e giudizi coscienti.

Ciò comporterebbe proprio quella confusione di livelli a cui

ho accennato poco fa. Le ragioni che sono alla base delle

nostre impressioni coscienti sarebbero cose non accessi-

bili direttamente alla coscienza.

Esse dovrebbero essere considerate a un livello fisico più

profondo rispetto a quello dei pensieri reali di cui siamo

consapevoli.

Le impressioni coscienti stesse sono i giudizi (non algoritmici).

E’ stato in effetti un tema sotterraneo trattato precedentemen-

te, cioè nel nostro pensiero cosciente sembri esserci qualco-

sa di non  algoritmico.

In particolare, concernente il Teorema di Godel, fu che, alme-

no in matematica, la contemplazione cosciente può permet-

tere talvolta di stabilire la verità di una proposizione in modo

inaccessibile a qualsiasi algoritmo.

In effetti gli algoritmi, di per sé, non sono mai in grado di sta-

bilire la verità! Sarebbe altrettanto facile far produrre a un algo-

ritmo solo delle falsità quanto fargli produrre solo delle verità.

C’è bisogno di intuizioni esterne per decidere sulla validità o

no di un algoritmo.

Sto suggerendo qui il contrassegno della coscienza sia pro-

prio questa capacità di divinare (o di distinguere ‘intuitivamen-

te’), in circostanze appropriate, la verità dalla falsità (e la bel-

lezza dalla bruttezza!).

Dovrei però chiarire qui che non intendo una qualche forma

di ‘congettura’ magica. La coscienza non è di alcun aiuto nel

tentativo di indovinare quale sarà il numero fortunato in una

lotteria (senza trucchi)!

Sto riferendomi ai giudizi che si formulano di continuo quan-

do si è in uno stato cosciente, riunendo tutti i fatti, le impres-

sioni dei sensi, le esperienze ricordate che possono essere

pertinenti, e ponderando le cose l’una rispetto all’altra, forman-

dosi addirittura, a volte, giudizi brillanti.

Anche quando, in linea di principio, sono disponibili informazio-

ni sufficienti per la formulazione del giudizio, il processo di for-

mulazione del giudizio appropriato – estraendo ciò che occorre

dalla grande congerie di dati – può essere qualcosa per cui non

esista alcun chiaro processo algoritmico (o, nel caso che esi-

sta, potrebbe non essere affatto pratico).

Forse ci troviamo in una situazione in cui, una volta che il giudi-

zio sia stato formulato, la verifica della sua esattezza potrebbe

essere compiuta con un processo algoritmico e potrebbe es-

sere più facile che non la formulazione originaria del giudizio.

(Roger Penrrose, La mente nuova dell’Imperatore)

(Fotografie di: Ole Salomonsen)

(Prosegue…)

 

 

 

 

 

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AMMAZZARE IL TEMPO: motore immoto (22)

Precedenti capitoli:

Dall’Alchimia…   All’algenia (20/21)

Prosegue in:

Motore immoto (23) &

Ammazzare il Tempo: La scienza Sacra (24/25)

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Motore immoto (1) &

La scienza sacra (2)

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i miei libri

 

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Nel tardo Medioevo, la maggior parte degli europei accettò la

visione ufficiale della Chiesa sull’origine delle specie che, nel

XIII secolo, veniva data dal grande uomo di chiesa Tommaso

D’Aquino.

San Tommaso prese pesantemente in prestito dei concetti

dal pensiero ebraico e greco, aggiungendo nel processo al-

cune delle proprie idee. Il risultato fu una cosmologia che le-

gittimava l’ordine sociale esistente e sollevava i poteri esi-

stenti dalla responsabilità del loro comportamento……

(J. Rifkin…)

 

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Il più importante lavoro di San Tommaso, la ‘Summa contra

Gentiles’,  fu scritto durante gli anni 1259-64. Tende a stabili-

re la verità della religione cristiana con argomenti dedicati ad

un lettore che si suppone non cristiano; ci si può sorprende-

re che l’immaginario lettore venga normalmente considerato

come persona versata nella filosofia araba.

 

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Tommaso scrisse un altro libro, la ‘Summa Theologiae’ di

importanza quasi uguale, ma di interesse alquanto minore per

noi, perché qui gli argomenti che non presuppongono la verità

del Cristianesimo sono in numero minore.

Ciò che segue è un sunto della già accennata ‘Summa contra

Gentiles’. Consideriamo prima ciò che s’intende con ‘saggezza’.

Un uomo può essere saggio in alcuni campi particolari, come per

esempio nel costruir case; questo implica che egli conosce ciò

che è necessario a realizzare un certo particolare scopo.

 

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Ma tutti gli scopi particolari sono subordinati allo scopo dell’Uni-

verso, e la saggezza di per se stessa riguarda appunto lo sco-

po dell’Universo.

Ora, lo scopo dell’universo è il bene dell’intelletto, cioè la verità.

Lo scopo della saggezza è, in questo senso, il più perfetto, su-

blime, profittevole e delizioso degli scopi.

Tutto ciò viene dimostrato facendo appello all’autorità del ‘Filo-

sofo’ cioè di Aristotele. Il mio intendimento (dice Tommaso) è

di affermare la verità di quanto la fede cattolica professa.

E devo ricorrere alla ragione naturale, dato che i gentili non ac-

cettano l’autorità delle Scritture.

(Prosegue….)

 

 

 

 

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DALL’ALCHIMIA (all’algenia) (20)

Precedenti capitoli:

Ammazzare il Tempo: (nuova cosmologia compiuta) (18/19) &

Un genio al servizio di quale Dio?

Prosegue in:

(dall’Alchimia) all’Algenia (21) 

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Primo Dialogo con la Creazione (1) &

Primo Dialogo con la Creazione (2)

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i miei libri

 

 

dall'alchimia

 

 

 

 

 

 L’idea di ricombinare i materiali viventi in un numero

infinito di nuove possibilità è così straordinaria che la

mente umana a malapena si rende conto dell’enormità

di tale svolta.

Questi primi processi e prodotti sono l’equivalente bio-

tecnologico dei primi oggetti forgiati dai nostri antenati

migliaia di anni fa, quando cominciarono per la prima

volta a fare esperimenti con la tecnologia del fuoco.

Da momento in cui il nostro avo neolitico bruciò mate-

ria tratta dalla terra, trasformandola in nuove forme, l’-

umanità si è  incamminata in un lungo viaggio culmi-

nato nell’era industriale.

Adesso l’umanità ha concentrato lo sguardo sul mondo

vivente, decisa a riplasmarlo in forme nuove, e le lonta-

ne conseguenze di questo nuovo viaggio sono insonda-

bili agli odierni biotecnologi così come lo spettro della

società industriale deve esserlo stato per i primi pirotec-

nologi.

La grande trasformazione biotecnologica va di pari

passo con una trasformazione filosofica ugualmente si-

gnificativa (di cui possiamo rintracciarne un progresso

nel pensiero di Cartesio). L’umanità sta cominciando

a rivedere il concetto di esistenza, in modo da farlo co-

incidere con i suoi rapporti con la Terra.

Il modo migliore per comprendere questa rivoluzione

concettuale è quello di utilizzare due metafore cariche

di significato.

Per la maggior parte dell’èra della piro tecnologia, l’al-

chimia è servita sia come cornice filosofica sia come

guida concettuale alle manipolazioni tecnologiche del

mondo della natura da parte degli esseri umani.

Ancora nel XVIII secolo, Isaac Newton, uno dei fonda-

tori della scienza moderna, sperimentava l’arte dell’al-

chimia (anche Cartesio nei suoi scritti giovanili accen-

na a qualcosa di molto simile).

Oggi si stanno ponendo le premesse per far emergere

un nuovo tipo di coscienza, che rifletta le ispirazioni e

gli obiettivi delle nuove arti biotecnologiche.

L”algenia’ molto probabilmente costituirà una nuova

prospettiva filosofica e la metafora dominante del se-

colo della biotecnologia.

Il termine fu coniato per la prima volta da Joshua Le-

derberg, biologo vincitore del premio Nobel, già presi-

dente della Rockefeller University….

E io negli anni 80 ne ho personalmente ridefinito il si-

gnificato. Agenia significa cambiare l’essenza di una

cosa vivente. Le arti algeniche sono rivolte al ‘miglio-

ramento’ degli organismi viventi già esistenti e alla

progettazione di organismi interamente nuovi con l’-

intento di perfezionarne le prestazioni.

Ma l’algenia è molto di più.

E’ il tentativo dell’umanità di dare un significato meta-

fisico ai suoi emergenti rapporti tecnologici con la na-

tura (meccanizzandola così come nell’idea originaria

di Cartesio).

…Il rapporto pirotecnologico con la natura a un rappor-

to biotecnologico con la stessa, emerge una nuova meta-

fora concettuale…..

(Jeremy Rifkin,  Il secolo Biotech)

(prosegue in: all’algenia)

 

 

 

 

dall'alchimia

PRIMO DIALOGO CON LA CREAZIONE

Prosegue in:

Primo Dialogo con la Creazione (2)

Primo Dialogo con la Creazione (3)

Primo Dialogo con la Creazione (4)

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Primo Dialogo con la Creazione (1)

Primo Dialogo con la Creazione (2)

Da:

i miei libri

 

 

Giuliano Lazzari 01

 

 

 

 

Una spirale dentro la rosa

e un’altra dentro la conchiglia,

per spiegare dopo l’insana sentenza

che la rotta è simmetrica

in questa nostra scienza.

O.., oscura e segreta dottrina,

…. oppure profezia,

chiamala come vuoi mio caro Uditore!

Saggio disegno che non è solo

componimento,

una rosa che incide il nostro pensiero,

Primo ad un Secondo

…dell’intera creazione.

Ma retta equazione che muore,

e nasce alla passione

di un nuovo colore. (1)

 

Ancora più bello

or che lo ammiri riflesso

in quello strano Universo.

Dove se presti la dovuta attenzione,

lo vedi non lontano dal bosco

in un mare colmo di stelle,

ora che più di pria

di profumo risplende.

E di oro accende ogni rima

di questa eterna poesia.

Colta nel lungo gambo di una cometa,

e di una stella non detta

all’intera materia.

Racchiusa e nascosta dal petalo,

perché non ne svela la

memoria segreta. (2)

 

Osservi calco e forma di uguale

natura,

che si specchia  non vista

mentre un altra creatura,

guarda uguale Divina visione,

ma la forma non vede

in un mare di stelle.

In quello stesso mare

dove l’abbraccio,

per taluni è amore,

per altri solo nera materia,

che recita quando uccide

una strana preghiera. (3)

 

All’inizio fu un Giano bifronte,

racconta lo strano frammento

di un mondo distante.

Inganna la vista sua sola

compagna,

faro che annuncia mirabile

visione,

al porto della comprensione

della sua dimensione.

Lontano tempo che viaggia

nel mare che avanza,

frammento perfetto

di un pensiero non letto,

nel vasto Universo osservato,

ma non del tutto svelato. (4)

 

(Giuliano Lazzari, Frammenti in Rima)

 

 

 

 

Giuliano Lazzari 02

 

AMMAZZARE IL TEMPO (la vita nel suo progredire…) (14)

Precedente capitolo:

Ammazzare il Tempo (la nostra infanzia) (13)

Prosegue in:

Ammazzare il Tempo (mondo organico, unità feconda, ricchezza infinita) (15) &

Ammazzare il Tempo (finalismo & meccanicismo) (16)

Foto del blog:

Ammazzare il Tempo (1)

Ammazzare il Tempo (2)

Da:

i miei libri

 

 

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Il che significa che nell’evoluzione si potrà vedere qualcosa di

completamente diverso da una serie di adattamenti alle circo-

stanze, come vorrebbe il meccanicismo, e anche dalla realiz-

zazione di un piano globale, come vorrebbe la dottrina della

finalità.

Non contestiamo affatto che la condizione necessaria dell’e-

voluzione sia l’adattamento. E’ sin troppo evidente che quan-

do una specie non asseconda le condizioni di esistenza che

le sono imposte è destinata a scomparire.

 

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Ma una cosa è riconoscere che le circostanze esterne sono

forze con cui l’evoluzione deve fare i conti, altra cosa è soste-

nere che esse siano le cause che governano l’evoluzione.

Quest’ultima è la tesi del meccanicismo, che esclude asso-

lutamente l’ipotesi di uno slancio originario, ovvero di una

spinta interiore che porterebbe la vita, attraverso forme via

via più complesse, verso destini sempre più alti.

 

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Eppure, questo slancio è visibile, ed è sufficiente rivolgere

un semplice sguardo alle specie fossili per constatare che

la vita avrebbe potuto fare a meno di evolversi entro limiti

assai ristretti, se avesse scelto la soluzione, per lei molto

più comoda, di anchilosarsi nelle sue forme primitive.

Alcuni foramiferi non hanno subito nessuna variazione sin

dall’epoca siluriana. E le lingule, impassibili testimoni delle

innumerevoli rivoluzioni che hanno sconvolto il nostro piane-

ta, sono ancora oggi ciò che erano ai tempi più remoti dell’-

era paleozoica.

 

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Il fatto è che l’adattamento può spiegare le sinuosità del mo-

vimento evolutivo, ma non le direzioni generali, e tanto meno

il movimento stesso.

La strada che porta alla città è certo obbligata a risalire i pen-

dii e a discendere le chine, ad adattarsi alle accidentalità del

terreno; ma non sono queste la causa della strada, né ciò

che le imprime la sua direzione.

 

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In ogni momento, le forniscono quanto le è indispensabile, per-

sino il suolo su cui poggiare; ma se si considera la strada

nel suo insieme e non ogni sua singola parte, le accidentali-

tà del terreno risultano essere soltanto  degli ostacoli o delle

cause di ritardo, poiché la strada, puntando semplicemente

verso la città, avrebbe voluto essere una linea retta.

 

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Lo stesso vale per l’evoluzione della vita e per le circostan-

ze che attraversa; però con questa differenza: che l’evolu-

zione non traccia una strada unica, si dirige in molteplici

sensi senza tuttavia mirare e dei fini, e che, da ultimo, non

perde la sua inventiva neanche nelle forme di adattamento.

Ma se l’evoluzione della vita non è una serie di adattamenti

a circostanze accidentali, non è nemmeno la realizzazione

di un piano.

Un piano è qualcosa che viene prima.

 

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E’ rappresentato, o quanto meno rappresentabile, prima di es-

sere realizzato nei particolari. La sua esecuzione completa può

anche essere rimandata a un futuro lontano, o addirittura rinvi-

ata indefinitivamente: può tuttavia esserne formulata l’idea da

subito e nei termini attualmente dati.

Ma se invece l’evoluzione è una creazione che si rinnova di

continuo, essa crea via via non solo forme di vita, ma anche

le idee che consentirebbero a un’intelligenza di comprender-

la, e i termini che potrebbero servire a esprimerla.

Questo significa che il suo futuro eccede il suo presente e

non potrebbe inscriversi in un’idea.

(H. Bergson, L’evoluzione creatrice)

(Prosegue….)

 

 

 

 

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