LA GUERRA DI SECESSIONE

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Ribelli

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Di secessione

Foto del blog:

La chiesa di Shiloh  (1)  &  (2)

 

 

la guerra

 

 

 

 

 

(Da: ribelli)

Nei libri di storia, la guerra di Secessione può sembrare un

evento improvviso. Racchiusa fra due date precise, il 1861

e 1865, pare una storia a sé stante, iniziata con un bombar-

damento e terminata con una resa.

Ma per il giovane Jesse e per la sua famiglia fu un’esperien-

za confusa, che poteva essere compresa a fondo solo con il

senno di poi.

 

la guerra

 

All’approssimarsi del 1861 la guerra si profilava all’orizzon-

te, attesa ma non certa. Nel 1858 il repubblicano William H.

Seward aveva definito la lotta fra il Nord e Sud ‘il conflitto

inevitabile’, ma nessuno era in grado di dire se le due parti

avrebbero fatto davvero ricorso alle armi.

Mentre Jesse passava dall’infanzia all’adolescenza, l’atmo-

sfera era dominata da questo miscuglio paradossale di ine-

luttabilità e incertezza.

Comunque sia lo spettro della guerra di frontiera continua-

va a perseguitare il Mississippi. Nel maggio 1858 una banda

di ‘border ruffians’ prese a fucilate nove agricoltori antischia-

visti in Kansas, uccidendone cinque.

 

la guerra

 

Il 20 dicembre John Brown guidò un’incursione nella contea

di Vernon, liberando undici schiavi e uccidendo un proprie-

tario di schiavi.

Meno di un anno dopo colpì il ‘potere schiavista’ per l’ultima

volta a Harper’s Ferry. Nel novembre 1860 Charles Jennison,

detto Doc, guidò la sua banda di ‘jayhawkers’ antischiavisti

in un’altra scorreria dal Kansas. Oltre 600 miliziani si misero

in marcia da St. Louis per proteggere la frontiera occidentale,

accrescendo la sensazione che lo stato fosse già – o ancora –

in guerra.

 

la guerra

 

A questo punto il miraggio nebuloso di una guerra molto più

vasta – la guerra fra Nord e Sud temuta da tempo – era final-

mente apparso all’orizzonte.

Nell’aprile 1860 la convenzione nazionale del partito demo-

cratico si era spaccata sull’estensione della schiavitù ai territo-

ri. Quando i repubblicani, i vecchi centristi whig e gli attacca-

brighe sudisti terminarono i lavori, quattro candidati seri si

ritrovarono in lizza per la presidenza nel 1860.

Jesse aveva solo dodici anni quell’estate.

Poteva benissimo essere più preoccupato per la siccità che

inaridiva i campi della contea di Clay che per le elezioni pre-

sidenziali; ‘Jesse è allegro, avventato e strafottente’ scrisse un

amico intimo più di dieci anni dopo; Frank, invece era ‘serio

e tranquillo’.

(prosegue in: di secessione)

(T.J. Stiles, Jesse James storia del bandito ribelle)

 

 

 

 

 

la guerra

 

OWL CREEK (55)

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Owl Creek (54)

Prosegue in:

Owl Creek (56)

 

 

 

owl creek 55

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli intervalli di silenzio diventavano sempre più lunghi;

gli indugi lo facevano impazzire.

Più i suoni si diradavano, più aumentavano d’intensità

e d’acutezza. Gli ferivano le orecchie come colpi sferrati

da un coltello; aveva paura di mettersi ad urlare.

Quello che udiva era il ticchettio del suo orologio.

Dischiuse gli occhi e vide di nuovo l’acqua sotto di sé.

– Se riuscissi a sciogliermi le mani,

pensò,

– potrei liberarmi di colpo e gettarmi nel fiume (ma non

posso….). Immergendomi potrei schivare le pallottole

e nuotando con tutte le forze raggiungere la riva, pren-

dere per i boschi e fuggire …verso casa. La mia casa, gra-

zie a Dio, per ora è fuori dalle loro linee; mia moglie e i

bambini non sono ancora stati raggiunti dall’avanzata

dell’invasore.

Mentre questi pensieri, che è stato necessario tradurre

qui in parole, attraversavano come in un lampo la men-

te del …..condannato, piuttosto che scaturirne, il capita-

no fece un cenno al sergente. Il sergente si spostò di lato.

 

owl creek 55

 

Peyton Farquhar era un piantatore agiato, di un’antica e

assai rispettata famiglia dell’Alabama. In quanto proprie-

tario di schiavi, e come gli altri proprietari di schiavi im-

pegnato in politica, era un secessionista nato, ardentemen-

te devoto alla causa del Sud.

Circostanze di natura urgente che non è necessario riferi-

re qui, gli avevano impedito di arruolarsi nel valoroso e-

sercito che aveva combattuto le disastrose campagne ter-

minate con la caduta di …Corinth, e si logorava nell’inglo-

riosa impossibilità di agire, desiderando ardentemente dar

sfogo alle proprie energie, vivere la vita movimentata del

soldato e avere l’opportunità di distinguersi.

Quell’opportunità, lo sentiva, si sarebbe presentata, come

si presenta a chiunque in tempo di guerra. Nel frattempo

faceva quel che poteva.

Nessun servizio era troppo umile da assolvere per aiutare

…il Sud…., nessuna avventura troppo pericolosa a viversi

se in armonia con il carattere di un civile dal cuore di sol-

dato, e che in buonafede e senza troppe riserve mentali

 concordava, almeno in parte, con la massima davvero

scellerata che tutto è lecito in amore e in guerra.

Una sera mentre Farquhar e la moglie erano seduti su una

rozza panca vicino all’ingresso della loro proprietà, un sol-

dato vestito di grigio arrivò cavalcando al loro cancello e

chiese un sorso d’acqua.

La signora Farquhar fu quanto mai felice di servirlo con le

sue diafane mani. Mentre andava a prendere l’acqua, il ma-

rito s’avvicinò al cavaliere impolverato e chiese avidamen-

te notizie dal fronte.

– Gli yankee stanno riparando la ferrovia,

disse l’uomo

– e si preparano a un’altra avanzata. Sono arrivati al ponte

…di Owl Creek, lo hanno sistemato e hanno costruito una

palizzata sulla riva nord. Il comandante ha emesso un’or-

dinanza, che è affissa ovunque, in cui dichiara che qualun-

que civile sia sorpreso a dennaggiare la ferrovia, compresi

i ponti, gallerie o treni, verrà impiccato con giudizio som-

mario. Ho visto personalmente l’ordinanza.

– Quanto dista il ponte di Owl Creek?

domandò Farquhar.

– Circa trenta miglia.

– Ci sono soldati da questa parte del fiume?

– Solo una pattuglia di picchetto a ottocento metri più in là,

sulla ferrovia, e una sola sentinella da questa parte del pon-

te.

– Supponete che un uomo, un civile desideroso di far espe-

rienze d’impiccagione, eluda la pattuglia di picchetto, e ma-

gari abbia la meglio sulla sentinella,

disse Farquhar con un sorriso.

– Che cosa potrebbe fare?

Il soldato rifletté.

– Ci sono stato un mese fa,

rispose.

– Ho notato che la piena dell’inverno scorso ha depositato

contro il pilone di legno da questa parte del ponte una gran

quantità di legna galleggiante. Adesso è secca e brucerebbe

come stoppa.

La signora aveva portato l’acqua e il soldato ne bevve.

La ringraziò cerimoniosamente, fece un inchino al marito e

cavalcò via.

Un’ora dopo il tramonto, riattraversò la pintagione, puntan-

do a nord nella direzione dalla quale era venuto….

Era un esploratore federale….

 

owl creek 55

 

Quando Peyton Farquhar piombò in basso in mezzo al pon-

te, perse coscienza e fu già come morto. A risvegliarlo da quel-

lo stato – secoli dopo, gli parve – fu il dolore di una forte pres-

sione alla gola, seguito da un senso di soffocamento. Acuti e

cocenti parossismi d’agonia sembravano sfrecciargli dal collo

per ogni fibra del corpo e delle membra.

Era come se i dolori saettassero alla velocità del lampo lungo

la linea di ramificazione ben definite e pulsassero a intervalli

di una rapidità inconcepibile.

Erano come correnti di fuoco vibrante che lo riscaldavano a

una temperatura insopportabile. L’unica sensazione che pro-

vava in testa era quella di pienezza, di congestione. Le sensa-

zioni non erano accompagnate da pensieri.

La parte intellettiva della sua natura si era già cancellata; po-

teva solo sentire, e sentire era un tormento. Aveva coscienza

di movimento. Avvolto da una nube luminosa di cui egli era

soltanto il centro rovente, privo di sostanza materiale, percor-

reva archi d’oscillazione impensabili, come un enorme pendo-

lo.

Poi, d’improvviso, con tremenda subitanietà, la luce che lo

circondava sfrecciò verso l’alto con un tonfo fragoroso; ebbe

nelle orecchie un rombo spaventoso, e tutto fu freddo e buio.

Era di nuovo in grado di pensare; sapeva che la corda si era

spezzata e che era caduto nel fiume.

La sensazione di strangolamento non peggiorò; il cappio in-

torno al collo lo stava soffocando e impediva all’acqua di en-

trargli nei polmoni.

….Morire impiccato in fondo a un …fiume….!

(prosegue….)

 

 

 

 

 

owl creek 55

DUE DOLLARI (di ricavi totali)

 Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2:

La maschera caduta &

Accurata valutazione di un ‘idiota’

Foto del blog:

La caccia alla volpe (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

 

due dollari

 

 

 

 

 

 

 

In una società competitiva come la nostra dove gli uomini si battono

per avere cibo e un tetto, che cosa c’è di più naturale che considerare

la generosità d’animo come cosa riprovevole, quando da essa deriva

un danno agli interessi di chi caritatevole non è?

I vecchi e saggi proverbi affermavano, al contrario, che appropriarsi

delle risorse di un uomo significa appropriarsi della sua esistenza.

Attentare al cibo e alla casa di cui dispone è attentare alla sua vita.

Questo principio è soprattutto valido in una società organizzata

sulla difesa all’ultimo sangue, dove anche un atto di generosità è

fortemente indiziato di essere una reale minaccia.

E’ per questa ragione che il lavoratore è così selvaggiamente ostile

a chi si offre di lavorare al suo posto per un salario inferiore o per

un maggiore numero di ore. Per conservare il lavoro (ossia per

poter vivere), egli deve bilanciare questa offerta con una della stes-

sa entità, il che significa rinunciare a una parte di cibo e ad un tetto

dignitoso.

 

due dollari

 

Vendere la propria giornata lavorativa a due dollari piuttosto che a

due e mezzo, significa, per sé e la propria famiglia, rinunciare ad un

buon tetto, ad abiti caldi, a mangiare cibi nutrienti. Sarà costretto a

comprare meno carne, e quella che potrà concedersi sarà più scaden-

te e meno nutriente, i suoi figli calzeranno più raramente scarpe nuo-

ve e robuste, la malattia e la morte minacceranno con maggiore proba-

bilità la sua casa e il suo quartiere.

Così il lavoratore generoso che concede la sua giornata lavorativa in

cambio di un salario più basso di quello dovuto, che svilisce la  qua-

lità della propria vita, minaccia l’esistenza del suo fratello operaio

che lavora meno generosamente. Se non distrugge la sua vita, nella

più rosea delle ipotesi la rende precaria e la sminuisce.

 

due dollari

 

Ovviamente, il lavoratore meno generoso lo considera un nemico e

quindi cercherà, in una società che non lascia scampo, di liberarsi

di colui che lo sta seppellendo.

Quando uno scioperante uccide con un mattone chi gli ha scippato il

lavoro, non ha la consapevolezza di compiere un’azione sbagliata e

trova in quel gesto estremo una giustificazione morale. Una scusante,

come il boero che difende la sua patria contro l’invasore inglese.

Dietro ogni mattone lanciato da uno scioperante, c’è il desiderio

egoista di vivere, e quello altruista di far vivere la propria famiglia.

Il gruppo familiare si è costruito prima dello Stato e della società,

società che si trova ancora nello stadio primitivo della lotta senza

quartiere e il desiderio di ‘vivere’ dello stato non è così importante

per lo scioperante come lo è quello personale di far vivere con de-

cenza se stesso e la propria famiglia.

Oltre alla necessità di usare mattoni, bastoni e proiettili, il lavora-

tore egoista ha anche quella di esprimere i suoi sentimenti a paro-

le.

 

due dollari

 

Come il pacifico contadino chiama ‘pirata’ chi preda i mari e il grasso

borghese chiama ‘ladro’ chi forza la sua cassaforte, allo stesso modo

il lavoratore egoista applica l’epiteto disonorevole di ‘crumiro’ al

lavoratore che gli scippa cibo, casa e lavoro mostrandosi più genero-

so nella sua offerta lavorativa.

Anche la connotazione affettiva del termine ‘crumiro’ è disonorevole

quanto il termine ‘traditore’ o ‘Giuda’, e la definizione affettiva di u-

na parola dovrebbe essere profonda e variegata così come lo è il cuo-

re umano. Risulta più semplice dare una definizione tecnica, espres-

sa in termini commerciali, come quella che segue:

‘un crumiro è uno che dà più valore allo stesso prezzo rispetto ad

un altro’.

Il lavoratore (l’intellettuale, l’artista e via dicendo) che dà più tem-

po, energia, capacità rispetto ad un altro per una paga inferiore, è

un crumiro.

La generosità che mette in campo il crumiro nuoce ai suoi compagni,

poiché li obbliga a un uguale generosità che non sentono e non riten-

gono conveniente e utile dare, in quanto riduce la qualità della vita.

Ma si può dire comunque qualcosa a favore del crumiro.

Così come il suo modo di fare obbliga i suoi rivali ad essere generosi,

allo stesso tempo e modo questi, per destino di nascita o educazione,

gli rendono quell’atto di generosità obbligatorio. Non agisce da crumi-

ro perché vuole esserlo.

Nessuna stravaganza personale, nessuno slancio di generosità lo spin-

gono a concedere più lavoro a un prezzo inferiore rispetto agli altri la-

voratori.

 

due dollari

 

E’ soltanto perché non potrebbe mai ottenere un lavoro alle stesse

condizioni degli altri lavoratori che si abbassa a essere crumiro.

Ci sono meno lavori che uomini disponibili a farli.

Questo è evidente, altrimenti la figura del crumiro non sarebbe co-

sì diffusa nel mercato del lavoro.

Ma poiché molti lavoratori sono più forti, più abili e più energici,

per il crumiro è impossibile occupare i loro posti per la stessa pa-

ga.

Per prendere il loro posto deve dare di più, lavorare più ore o

ricevere una paga più esigua. Lo fa, non può evitarlo, poiché la

volontà di ‘sopravvivere’ lo spinge a farlo, così come la stessa vo-

lontà spinge gli altri a combatterlo.

Per vivere è necessario guadagnarsi il cibo e alloggio, e ciò è

possibile soltanto dopo aver ricevuto il permesso di lavorare a

un pezzo di terra, o a un macchinario; per ottenerlo il lavorato-

re deve concludere un accordo che per lui sia favorevole.

Visto in quest’ottica, il crumiro che fornisce per un certo prez-

zo più lavoro rispetto ai suoi compagni, non è poi così genero-

so come si pensava. 

Non è più generoso, con la propria forza, di un servo o di un for-

zato  entrambi esempi quasi perfetti di crumiro – in quanto lavora

per il minimo prezzo possibile.

Ma, entro certi limiti, egli può perdere tempo sul lavoro, marcare

visita. La macchina invece non perde tempo, non finge di ammalar-

si e per questo rappresenta il crumiro perfetto e ideale.

Non è piacevole essere un crumiro.

Non è soltanto una cosa di cattivo gusto dal punto di vista sociale e

indegna di un vero compagno ma, a ben vedere, è anche contropro-

ducente per quanto concerne le necessità primarie: cibo e casa.

Nessuno ha voglia di essere un crumiro, di lavorare di più e guada-

gnare meno. L’ambizione di ogni individuo si situa all’opposto: dare

meno per ricevere di più; e come risultato si ha che, vivendo in un

mondo basato sulla lotta senza quartiere, la battaglia all’ultimo san-

gue è combattuta soltanto dai più ambiziosi.

Ma per quanto concerne l’aspetto più saliente, la lotta per la divisio-

ne del prodotto del lavoro congiunto, vediamo che essa non è più sol-

tanto una battaglia tra individui, ma tra gruppi di individui.

Il capitale e il lavoro si occupano delle materie prime, ne traggono

un utile e lo aggiungono al suo valore di base, dando avvio alla

disputa sulla divisione del valore aggiunto.

Nessuna delle due parti si preoccupa di dare il massimo per ottene-

re il minimo. Ognuno vuole dare meno di quanto concede l’altro e di

trarne un vantaggio maggiore.

(J. London, Il sogno di Debbs)

 

 

 

 

 

due dollari

 

IL PREDICATORE (2)

Precedente capitolo:

Il predicatore

Prosegue in:

Il predicatore  (3) &

Due orologi

Foto del blog:

Il predicatore (1) & (2)

Da:

i miei libri

 

il predicatore 2

 

 

 

 

 

(Da: il predicatore)

Le congregazioni battiste ordinavano i predicatori

scegliendoli fra i propri membri; bastava convenire

che l’uomo era stato chiamato da Dio a diffondere

il suo Verbo.

E il giovanotto del Kentucky pio, carismatico, istrui-

to suscitò un immediato consenso fra quella gente

‘molto scialba’.

Un vicino ricordava di aver assistito da ragazzino al-

la sua ordinazione.

‘Il sottoscritto era presente’ scrisse poi ‘con un cappel-

lo di paglia da dieci centesimi sul capo, niente giacca,

stivali o scarpe, ma aveva l’immancabile sperone sul

calcagno e ascoltò il suo primo sermone’.

Per quella congregazione sofferente e divisa la predi-

cazione di James fu una rivelazione.

‘Il suo modo di parlare era sublime’ proseguiva il vici-

no, e ‘le sue esortazioni inimitabili’.

In altre parole James combinava un’istruzione supe-

riore con la passione emotiva del Secondo grande ri-

sveglio, l’ondata di fervore religioso che aveva percorso

il paese partendo dallo stato di New York nel 1826.

Tra le pareti di legno di quella chiesa di campagna, la

gente si rivolgeva gridando e piangendo a una divinità

che offriva redenzione a tutti coloro che erano disposti

a confessare i propri peccati e ad accettare il perdono.

Anche se il gelido Dio calvinista della predestinazione

non era certo morto nella teologia Southern Baptist,

l’invito del predicatore al pentimento e alla conversio-

ne toccava una corda di arminianesimo popolare: una

diffusa credenza nella funzione morale di ogni indivi-

duo, un convincimento che ciascuno potesse scegliere

se accettare o rifiutare la salvezza.

(prosegue in: il predicatore (3))

(T. J. Stiles, Jesse James, Storia del bandito ribelle)

 

 

 

 

il predicatore 2

 

IL MONOLOGO DEL FOLLE (2)

dallo sguardo di uno spettatore

 

 

Precedente capitolo:

Il monologo del folle

Prosegue in:

L’agente segreto…

Foto del blog:

La dama del folle  (1)  &  (2)

Libri, appunti, dialoghi… in:

i miei libri

 

 

dallo sguardo di uno spettatore

 

 

 

 

 

Quando iniziava a parlare (o ad urlare), dava generalmente segni

di nervosismo.

Di solito, era incapace di profferire qualcosa di coerente, fino al

momento in cui avesse captato lo stato d’animo del suo pubblico.

Una volta, racconta Heiden, Hitler era talmente teso che non riu-

sciva a trovare nulla da dire. Per sbloccare la situazione non tro-

di meglio che afferare il tavolino e spostarlo qua e là per il po-

dio fino al momento in cui, di colpo, captò il ‘contatto’ e fu in gra-

do di parlare.

 

dallo sguardo di uno spettatore

 

Price descrive il suo eloquio nei seguenti termini:

 

L’esordio è lento ed esitante. Va gradualmente scaldandosi a mano a

mano che nel grande pubblico si genera una tensione emotiva. Di fat-

to Hitler è così sensibile a questa sorta di contatto telepatico, che ben

presto ogni singolo membro dell’uditorio si sente individualmente le-

gato a lui da un rapporto di personale simpatia.

 

Tutti i nostri informatori concordano nella descrizione dell’

esordio lento, mentre matura l’atmosfera adatta a fargli captare

il pubblico.

Non appena lo ha afferrato, l’eloquio assume un ritmo scorre-

vole e il volume della voce cresce fino all’urlo, in un parossis-

mo di eccitazione collettiva.

In questa temperie, ogni ascoltatore e spettatore sembra identi-

ficarsi nella voce di Hitler, che diventa la voce della Germania

intera.

 

dallo sguardo di uno spettatore

 

Tutto ciò concorda perfettamente con il concetto di psicologia

di massa quale Hitler lo espose in ‘Mein Kampf’, dove afferma:

 

La psiche delle moltitudini non reagisce a uno stimolo che si mostri debo-

le o eccissivamente moderato. Al pari di una donna, la cui sensibilità spi-

rituale è meno sollecitata da ragioni astratte che da un indefinibile desi-

derio emotivo di ottenere assoluta soddisfazione, e che, pertanto, preferi-

sce sottomettersi ai forti piuttosto che ai deboli, anche la moltitudine pre-

ferisce al mediatore il dominatore.

 

‘Newsweek’ riportava:

‘Le donne si sentono venir meno quando, il viso imporporato e 

contorto nello sforzo, egli fa sgorgare fuori la sua magica orato-

ria’.

Flanner dice:

‘La sua foga era tale da fargli avvizzire il colletto, da scollargli il

ciuffo, da smaltargli gli occhi; era come un posseduto, che si ripe-

te in una sorta di frenesia.

E secondo Yeates Brown:

‘Appariva come un uomo stravolto e invasato. Assistevamo ad

un miracolo’.

 

dallo sguardo di uno spettatore

 

Un simile impeto oratorio era nuovo per le folle tedesche, soprat-

tutto per le classi proletarie bavaresi, assuefatte a una dizione mol-

to lenta. A Monaco, tutto quel suo vociferare e gesticolare costitui-

va di per sé uno spettacolo per cui la gente era disposta a pagare.

Ma non fu soltanto l’eloquio ardente a guadagnare le folle alla sua

causa; il fattore che più lo colpì fu la serietà con cui Hitler profferi-

va le sue parole.

 

Ognuna delle sue parole esce colma di una potente carica energetica; 

a volte sembrano strappate fuori dal più profondo cuore dell’uomo,

causandogli un’incredibile angoscia.

 

Senza alcun dubbio, Hitler esercitò come oratore un’influsso

potente sui destini generali del popolo tedesco. I suoi comizi

erano sempre affollati, e a mano a mano che parlava, egli riu-

sciva a tal punto a intorpedire le facoltà critiche degli ascolta-

tori da fargli credere qualsiasi cosa.

Li lusingava e li blandiva.

Un momento scagliava accuse contro di loro, il momento do-

po li divertiva costruendo a parole immaginari uomini di pa-

glia, che poi subito abbatteva.

La sua lingua era come una frusta che sferzava le emozioni del

pubblico. E in un modo o nell’altro, riusciva sempre a dire ciò

che la maggioranza degli ascoltatori già segretamente pensava,

ma non era in grado di tradurre in parole. 

(Langer, Psicanalisi di Hitler)

 

 

 

 

 

dallo sguardo di uno spettatore

          

CERTO CHE NO SE E’ LA VIOLENZA A PARLARE

certo che no se è la violenza a parlare

 

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Ma nel futuro si può sperare?

Prosegue in:

Allora il viaggio debbo continuare…

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La storia lascio parlare

Quale miglior giudice dell’altrui ciarlare…

Libri, ricordi, dialoghi…

i miei libri

 

certo che no se è la violenza a parlare

 

 

 

 


Affinché il potenziale del genere umano si esprima in atti

di violenza, c’è bisogno di circostanze adatte.

In generale l’uomo tortura e uccide non perché deve, bensì

perché può. Anche in futuro non gli mancheranno le occasio-

ni. Alcune situazioni sono così evidenti che si possono già

quasi delineare gli scenari futuri e le nuove forme di violen-

za.

In primo luogo la disponibilità delle armi.

Il mondo non è mai stato più armato di oggi. Pochi manufat-

ti della civiltà hanno stimolato il desiderio, ma anche lo spi-

rito di inventiva, più degli strumenti di morte. L’arma è ogget-

to di adorazione rituale. Libera chi la possiede da impotenza

fisica e inferiorità sociale. La tecnologia ha messo a disposizio-

ne dell’uomo macchine sempre più efficaci.

Già da tempo le moderne armi da guerra non hanno più nien-

te a che vedere con gli strumenti da combattimento di una vol-

ta. Le armi a lunga gittata hanno trasformato la guerra in una

serie di massacri. Oggi le vittime della violenza di guerra non

sono i combattenti, bensì i civili indifesi.

 

certo che no se è la violenza a parlare

 

E’ ormai da tempo obsoleta l’idea del duello collettivo, dello

scontro armato regolato, l’illusione di poter arginare le guerre

con il diritto e i divieti. La situazione delle armi dei privati non

è molto diversa. Pluriomicidi e attentatori di ogni età, terroristi

ed estremisti di ogni tendenza, guerrieri riuniti in bande, piro-

mani e squadroni della morte: tutti rappresentano una violenza

endemica al di là della razionalità politica e della criminalità

convenzionale.

Le vittime non hanno alcuna possibilità contro le aggressioni

dei fuorilegge. Essi combattono la guerra nella propria società,

lontano da vecchie ideologie e al di là dell’ordine politico.

In pochissimi Paesi del globo il monopolio dello Stato sulle

armi è effettivamente assicurato.

In questa società armate chiunque può trasformarsi da un mo-

mento all’altro in un nemico mortale. E può subito partecipare

a una scorreria o far parte di una ‘muta’ se un capobanda, un

signore della guerra o un’autorità dà il via alla caccia a vicini

o stranieri, agli immigrati o a minoranze indesiderate nel Pae-

se, o più semplicemente a fuori casta, della casta politica pre-

costituita.

 

certo che no se è la violenza a parlare

 

Non occorre essere un profeta per precedere un aumento del-

la violenza sociale anche nelle regioni che per ora sembrano

ancora isole di pace. L’aumento della popolazione mondiale,

le catastrofi ecologiche, la miseria e la fame spingono milioni

di persone verso i centri della ricchezza.

Questi ultimi col tempo possono solo scegliere o di barricarsi

o di tollerare l’immigrazione di massa e la formazioni di ghetti

etnici, ed il proliferare della violenza da ambo le parti.

….La misura abituale contro l’onnipresenza della violenza è 

il disarmo della gente e la centralizzazione del potere.

 

certo che no se è la violenza a parlare

 

Lo Stato, questo dio mortale, deve assicurare la sopravvivenza

e liberare dalla paura della morte. La sua legittimità si basa sul-

la garanzia dell’ordine. Eppure il suo stesso regime si basa sulla

violenza della persecuzione. Chi non rispetta la legge o minaccia

l’ordine è condannato alla morte sociale o fisica.

Lo Stato non può non avere armi nell’arsenale. 

Gli esseri umani vi si inseriscono perché temono la forza distrut-

tiva del potere centrale. Seguono la legge per sopravvivere. Il po-

tere politico argina la violenza sociale insegnando a tutti ad avere

paura della persecuzione. Questa struttura ferrea di ogni ordine

sociale può essere dimenticata in tempi di democrazia, negli Sta-

ti di diritto. Eppure negare che esista è miope dal punto di vista

storico e ingenuo da quello politico. 

Gli imperi passano e anche le democrazie non durano in eterno. 

Questo circolo vizioso della pacificazione esiste a livello sia na-

zionale sia globale. Anche lo ‘Stato mondiale’, che molti auspica-

no, si dovrà passare su un organo di repressione. Senza un gigan-

tesco apparato militare e di polizia non si può ottenere l’armisti-

zio globale.

(W. Sofsky, Il paradiso della crudeltà)

 

 

 

 

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QUALE MIGLIOR GIUDICE DELL’ALTRUI CIARLARE

quale miglior giudice dell'altrui ciarlare

 

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La storia lascio parlare

Prosegue in:

Ma nel futuro si può sperare?

 

quale miglior giudice dell'altrui ciarlare

 

 

 

 

 

Il versetto che riguarda specificatamente la determinazione dello

statuto giuridico e politico dei non mussulmani, le cui terre sono

state conquistate dai guerrieri dell’Islam, contiene questo precetto:

‘Combatterli fintantoché essi paghino il tributo in segno di sottomis-

sione e riduceteli alla vostra mercé’.

Questa clausula enuncia la condizione per porre fine alla guerra

e introdurre dei termini di clemenza. Le dottrine e le tradizioni

islamiche dell’Impero ottomano, rafforzate dalle istituzioni mili-

tari dello Stato, hanno avuto come conseguenza l’emergere di un

diritto comune, che ha esercitato la propria influenza nel corso

di tutta la storia del sistema sociale e politico dell’Impero otto-

mano.

Il sultano-califfo esigeva che i suoi sudditi non mussulmani ap-

provassero un contratto con valore di legge – chiamato ‘Akdi-

Zimmet – con il quale lo Stato garantiva la sicurezza delle per-

sone, la loro libertà civile e religiosa e – a certe condizioni – i lo-

ro beni, purché essi pagassero un’imposta di capitazione e delle

tasse fondiarie e accettassero alcune restrizioni ai loro diritti so-

ciali e giuridici.

 

quale miglior giudice dell'altrui ciarlare

 

Questi contratti rappresentavano il punto di partenza di un di-

ritto consuetudinario che regolava i rapporti d’ineguaglianza

tra i mussulmani e i non mussulmani. Il diritto comune otto-

mano creava così lo statuto di ‘infedeli tollerati a una posizio-

ne inferiore rispetto a quella dei loro concittadini mussulmani’.

Questo principio del diritto comune ottomano creava una di-

cotomia politica tra cittadini con statuti diversi.

I mussulmani – che ppartenevano alla ‘umma’, la comunità dei

credenti organizzata politicamente – erano destinati a rimanere

la nazione dei signori e padroni. I non mussulmani erano rele-

gati al rango d’infedeli tollerati. Queste due categorie paralle-

le permettevano di mantenere le divisioni tra le due comunità 

religiose ed erano quindi fonte di un conflitto sociale perma-

nente.

 

quale miglior giudice dell'altrui ciarlare

 

Inoltre, questa divisione trascendeva le lotte politiche per il po-

tere che avvenivano all’epoca nell’Impero ottomano.

Anche quando i Giovani Turchi dell’ Ittihad succedettero al sul-

tano Abdul-Hamid nel 1908, riaffermarono il principio della na-

zione dominante. Mentre da una parte essi promettevano la li-

bertà, la giustizia e l’uguaglianza a tutti i cittadini ottomani, dall’

altra si prefiggevano di mantenere la dicotomia tra i dominatori

e i sottomessi.

(V. N. Dadrian, Storia del genocidio armeno)

 

 

 

 

quale miglior giudice dell'altrui ciarlare

 

IL MOTIVO DEL SACRIFICIO (la violenza & i violenti) (2)

Precedente capitolo:

Il motivo del sacrificio

Capitoli eretici e pagine di storia in:

Il grande male & 

La storia lascio parlare

Prosegue in:

Dialoghi con Pietro Autier 2:

La testa del lupo

gli occhi di Atget:

La testa del lupo (2)

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Sono sano di spirito

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i miei libri

 

caproespiatorio2.jpg

 

 

 

 

 

Il carattere straordinario dell’esperienza del sacro violento

lascia inevitabilmente un ricordo duraturo nella comunità

dei linciatori, che ne fanno oggetto di narrazione del mito.

Quest’ultimo non è che il ricordo dell’insperata salvezza

in un momento di estrema crisi; ovvio pensare che ci si ag-

grappi a tale mezzo per scongiurare nuovi scoppi di vio-

lenza o, qualora questi si siano già scatenati, per porvi ter-

mine.

La religione arcaica altro non è che un insieme di pratiche

volte a prevenire o reprimere la violenza intestina medi-

ante la ripetizione controllata del meccanismo del capro

espiatorio; questo spiega l’ubiqua presenza del sacrificio

nel mondo primitivo.

 

caproespiatorio1.jpg

 

La prima intuizione sulla funzione del sacrificio è proba-

bilmente suggerita da Girard dalla storia di Abramo e Isac-

co, nel quale un ariete viene immolato al posto del figlio:

nel 1965, ancora legato alla tematica edipica, Girard nota

come l’inevitabile scontro tra i desideri rivali del padre e

del figlio sia una potenziale fonte di conflitti violenti.

Tale istituzione è il sacrificio animale, con il quale una vit-

tima vivente ma neutrale, che può essere messa a morte

senza aggravare le divisioni, scongiura il pericolo di una

terribile vendetta intrafamiliare:

 

Sacrificare l’animale è ancora permettere l’esistenza di un

desiderio di violenza incapace di subliminarsi completamen-

te. L’odio di padre e figlio si esaurisce e si appaga in questa

distruzione priva di conseguenze.

 

Si comprende così la funzione del capro-espiatorio di cui

parla l’Antico Testamento, il quale porta via con sé, nel

deserto o nella morte, non tanto i peccati quanto i deside-

ri convergenti, e per questo violenti, dell’intera comunità.

Ma tale visione del sacrificio si riferisce a un sistema socia-

le umano già dato, con istituzioni ben definite come quel-

la familiare; per cogliere la prima origine del fenomeno è

necessario risalire ancora più indietro, all’epoca in cui l’u-

mano non è ancora così impregnato di cultura.

La violenza e il sacro si apre, appunto, con il problema del

sacrificio, del quale offre una soluzione radicalmente inno-

vativa.

Una delle maggiori difficoltà incontrate dall’antropologia

consiste nel fatto che, ritenendo il sacrificio un atto legato

a una divinità ritenuta immaginaria, essa ha finito per de-

stituirlo di qualsiasi funzione.

L’universale diffusione del sacrificio presso tutte le civiltà

arcaiche e l’ambivalenza della sua natura restano dunque

un mistero, che Girard, in possesso di una teoria della vio-

lenza, è in grado di sciogliere a partire da un’intuizione

fondamentale con la quale sono superate d’un colpo le

vecchie teorizzazioni incentrate sull’assunto del sacrifi-

cio come ‘offerta’ o come ‘comunicazione’ con la divinità.

 

Si può supporre che l’immolazione di vittime animali allontani

la violenza da certi esseri che si cerca di proteggere, e la diriga

invece verso altri esseri la cui morte abbia poca o nessuna impor-

tanza.

 

La vera funzione del sacrificio consiste dunque nel fare da

sfogo alla violenza, incanalandola verso oggetti innocui,

capaci di fermarla; esso ha un valore preventivo, nella mi-

sura in cui storna una violenza più grave per mezzo di un

atto controllato e dalle conseguenze prevedibili:

 

Certo, a una sete di violenza che non può essere spenta dalla

sola volontà ascetica, esso non offre che uno sfogo parziale,

temporaneo, ma indefinitivamente rinnovabile e sulla cui ef-

ficacia le testimonianze concordi sono troppe numerose per

venire trascurate.

 

La divinità non gioca, in questo meccanismo, alcun ruolo

reale; eppure la sua costante evocazione da parte dei sa-

crificatori non può essere ovviamente ignorata.

La soluzione di Girard consiste nel ritenere il sacrificio

un atto fondato sul misconoscimento della sua funzione

da parte di coloro che lo praticano:

 

I fedeli non sanno e non debbono sapere qual’è il ruolo svolto

dalla violenza.

Si presuppone sia il Dio a reclamare le vittime; in teoria è lui

il solo a godere del fumo degli olocausti; è lui ad esigere la car-

ne ammucchiata sui suoi altari.

E’ per placare la sua collera che si moltiplicano i sacrifici.

 

La teologia del sacrificio, ossia l’attribuzione della vio-

lenza

caproespiatorio8.jpg

 

alla divinità si rivela elemento essenziale per la soprav-

vivenza della società, in quanto consente di distinguere

radicalmente la violenza rituale da quella comune; all’-

immolazione viene attribuita una natura sacra, ossia del

tutto separata da quella della vita di tutti i giorni: il san-

gue versato ritualmente purifica il sangue impuro delle

disordinate rivalità umane.

Si tratta di un processo giocato su un equilibrio sottile:

quando il sacrificio non è compiuto nei modi rigidamen-

te prescritti dal rituale, c’è sempre il rischio che esso in-

generi nuova violenza.

Il tema del sacrificio andato storto è diffusissimo nella tra-

gedia greca, dove appare chiaramente come un eccesso

di violenza o una sostituzione impropria, possano scate-

nare ciò che volevano prevenire.

(G. Mormino, L’animale come essere sacrificabile,

Nell’albergo di Adamo)

 

 

 

 

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IL MOTIVO DEL SACRIFICIO (fenomenologia del capro espiatorio) (1)

Prosegue in:

Il motivo del sacrificio (2)

Pagine di storia:

Il grande male

Dialoghi con Pietro Autier 2:

La testa del lupo

gli occhi di Atget:

La testa del lupo (2)

 

 

caproespiatorio1.jpg

 

 

 

 

 

 

Il problema del controllo della violenza emerge ora più

che mai in tutta la sua gravità: se ‘quella strana attività

che chiamiamo guerra’ poté vedere la luce, evidentemen-

te erano già stati sviluppati meccanismi che preservano

dai comportamenti aggressivi un’area ben delimitata, i

cui confini non hanno nulla di naturale:

 

La guerra si sviluppa in maniera evidente tra gruppi molto

vicini, ossia tra uomini che nulla obiettivamente distingue

sul piano della razza, del linguaggio, delle abitudini cultu-

rali. Tra l’esterno nemico e l’interno amico, non c’è reale

differenza e non si capisce come dei montaggi istintuali po-

trebbero spiegare la differenza di comportamento.

(R. Girard)

 

Affermare che esiste un istinto naturale a preservare i

propri congiunti è evidentemente privo di senso, dal

momento che, come è ben visibile, tra gli umani l’assas-

sinio intrafamigliare esiste, anche se non è la regola.

Si deve quindi supporre che, proprio quando l’aumento

dell’aggressività mimetica ha messo ha rischio la nascen-

te specie umana, un meccanismo nuovo si sia innescato;

si tratta, secondo Girard, del fenomeno della vittimizza-

zione del capro-espiatorio:

 

Oltre una certa soglia di potenza mimetica, le società ‘anima-

li’ diventano impossibili. Questa soglia corrisponde dunque

alla soglia di apparizione del ‘meccanismo vittimario’; è la

soglia dell’ominizzazione.

 

Tale meccanismo non è del tutto assente negli animali;

Girard cita a riguardo alcune notissime osservazioni di

Lorenz:

 

Quando due oche avvicinandosi mostrano segnali di ostili-

tà, il più delle volte convogliano la loro aggressività reci-

proca contro un oggetto terzo.

 

Questo comportamento cementa il legame tra gli indi-

vidui dal punto di vista che,

 

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 scrive Lorenz, ‘l’aggressività discriminatoria verso

gli estranei e il vincolo fra i membri del gruppo si inten-

sificano a vicenda’.

Tale fenomeno può essere considerato come

 

il primo abbozzo del futuro meccanismo vittimario proprio

nel suo ruolo di forza ‘idraulica’ che tende a scaricare l’ag-

gressività interindividuale su terzi, 

 

ma l’insufficiente potenza mimetica di cui sono dotati

gli animali non-umani impedisce che al processo parte-

cipi l’intero gruppo.

Non scatta cioè, negli animali, quel meccanismo che sem-

bra essere il vero segreto dell’umanità, ossia l’omicidio col-

lettivo; perché ciò accada, è necessario che la crisi dovuta

alla rivalità tra due individui sfoci in quella lotta genera-

lizzata di tutti contro tutti che, secondo l’intuizione hob-

besiana, costituisce la minaccia gravante in permanenza

sui gruppi umani.

L’inizio dell’umano deve perciò essere posto nel momen-

to di massima crisi, al culmine di quell’implosione socia-

le che colpisce un gruppo ormai incapace di conformarsi

ai ‘dominance patterns’, così efficaci per animali dotati di

una potenza mimetica inferiore.

Nulla, nella costituzione umana, mira a quest’inizio: è

altamente probabile che molti gruppi non abbiano una

soluzione né istintuale né culturale al problema e si so-

no semplicemente estinti.

 

caproespiatorio2.jpg

 

Ma alcuni gruppi hanno trovato il mezzo per sopravvi-

vere proprio nel momento più difficile, ridirigendo la

violenza di tutti contro tutti verso un unico individuo.

Proprio la potenza della mimesi ha convogliato su un’-

unica vittima gli impulsi violenti: la violenza indiscri-

minata ha prodotto un fenomeno di capro-espiatorio,

ossia l’uccisione collettiva di un ‘unico’ individuio che

si è trovato a essere in condizione di estrema debolez-

za, non difeso da nessuno.

Si tratta della tesi girardiana del ‘linciaggio fondatore’,

da lui elaborata in relazione alla nascita di un ordine

culturale dopo una crisi ma applicabile anche alla na-

scita dell’umano in senso assoluto, a partire da crisi

remotissime intervenute nelle prime fasi dell’evoluzio-

ne, quando l’accresciuta potenza imitativa appena

conseguita con l’incremento delle facoltà cerebrali ha

infranto l’equilibrio sul quale si fondavano i gruppi

pre-umani.

Non vi è ragione per pensare che la violenza sia in

grado di dirigersi da sé verso l’esterno: al contrario,

 

la rabbia, quando ci si abbandoni a essa, è centripeta.

Più è esasperata, più tende a orientarsi verso gli esseri

più vicini e più cari, quelli che in tempi normali sono

meglio protetti dalla regola della non-violenza.

 

E’ fondamentale comprendere come Girard non ri-

conduca il problema del sovrappiù di aggressività

degli esseri umani a un inspiegabile ‘istinto’, a una

tendenza al male innata nell’essere umano: ‘esso fa

tutt’uno con il sovrappiù di mimetismo legato all’-

accrescimento del cervello’.

Gli umani non sono né più buoni né più malvagi de-

gli altri animali: semplicemente, imitano più inten-

samente, portando così all’estremo sia gli elementi

positivi della facoltà di apprendere dai propri simi-

li sia quelli negativi consistenti nello scatenare con-

flitti privi di soluzione pacifica.

Se le rivalità umane hanno assai di frequente quale

risultato finale l’assassinio, come è largamente con-

statabile, le teorie che postulano un accordo con cui

gli umani avrebbero deciso di sospendere la violen-

za peccano di ingenuità: nell’escalation della violen-

za la probabilità che i contendenti si siedano intor-

no ad un tavolo per fissare regole e divieti è nulla.

 

caproespiatorio6.JPG

 

Porre quindi l’origine delle società umane in un ‘patto

sociale’, come hanno fatto per secoli filosofi contrat-

tualisti, è indulgere a una visione eccessivamente

razionalistica delle cose umane.

La violenza può essere fermata solo da un evento dal

forte impatto emotivo, che doni la pace al gruppo qua-

si senza che gli umani sappiano come e perché.

 

Il carattere congetturale di questa ricostruzione è poten-

zialmente rafforzato dall’esame dei miti fondatori dei

popoli dell’intero pianeta: all’inizio vi è, quasi sempre,

un omicidio, dal quale sono scaturite le istituzioni soci-

ali e, in primo luogo, ‘la religione’ con i suoi riti e i su-

oi divieti.

 

Per spiegare l’assoluta preminenza del religioso nelle

società arcaiche e, al suo interno, di riti di distruzione

quali il sacrificio, è necessario formulare l’ipotesi che

l’atto fondativo del sacro abbia coinciso con l’origine

 

caproespiatorio5.jpg

 

della società stessa e sia stato un atto violento.

 

Possiamo cioè supporre che, all’apparire di una prima crisi

di violenza interna, il parossismo mimetico abbia portato la

collettività a far convergere l’aggressività verso un ‘unico

individuo’, ucciso unanimamente da tutti gli altri: la furia,

oramai priva di un oggetto, cessa improvvisamente, provo-

cando un mutamento emotivo talmente brusco da far con-

centrare tutta l’attenzione del gruppo sulla vittima.

 

Essa viene vista come responsabile dello straordinario

passaggio dall’eccitazione alla calma, assumendo così

agli occhi dei suoi linciatori uno ‘status’ del tutto ecce-

zionale, preludio alla sua collacazione in una catego-

ria differente da quella degli individui comuni.

 

Davanti al cadavere della vittima si ha l’inizio del sacro,

da intendersi come la categoria dell’assolutamente etero-

geneo.

L’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima, pri-

ma accusata e fatta a pezzi, poi ritenuta autrice della rin-

novata concordia sociale, spiega la duplice natura del sa-

cro, al tempo stesso malefico e benefico.

 

La calma ritrovata può, però, essere nuovamente perdu-

ta con grande facilità; la vittimizzazione del capro-espia-

torio è insufficiente a spiegare la stabilità dei gruppi uma-

ni, a meno che non sia possibile ricavarne un meccanismo

capace di prolungare la durata dell’effetto pacificatore.

Tale pratica, attestata presso tutte le civiltà, è il sacrificio,

che può essere definito come la prima manifestazione del-

la religione e, con essa, dell’intera cultura.

 

caproespiatorio3.jpg

 

La classificazione degli esseri dipende, nella prospettiva

di Girard, dalle pratiche sacrificali, prima scuola di pen-

siero dell’uomo e luogo in cui si sono forgiati gli strumen-

ti intellettuali che hanno caratterizzato la successiva e-

voluzione.

Sarà dunque qui che andrà ricercata la prima origine del

giudizio con cui l’uomo

 

si attribuisce le prerogative divine, tra-sceglie e separa se

stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli anima-

li suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzio-

ne di facoltà e di forze che gli piace.

(G. Mormino, L’animale come essere sacrificabile,

Nell’albergo di Adamo)

 

 

 

 

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UN FINLANDESE (14)

Precedenti capitoli:

Un finlandese (13) &

Uno svedese (12) &

Un viaggio d’inverno (1)  (2)  (3)  (4)

Foto del blog:

Primo’ piano &

‘Primo’ piano (2)

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– ‘Allora veniamo dunque a questa faccenda incresciosa’, attaccò 

il vescovo Ketterstrom.

– ‘Una brutta storia effettivamente’, ribadì il giureconsulto.

Il vescovo fece la premessa che né lui né la Chiesa  avevano

nulla da ridire sulla vita privata del reverendo, che riguar-

dava soltanto lui.

– ‘Ma a noi è stato riferito che tu avresti là nella parrocchia di

Nummenpaa almeno due, se non tre, figli illegittimi, e che ti

ostini a fare delle prediche senza alcun rapporto con l’ufficio

del giorno’.

Quindi il prelato proseguì in tono amichevole e caritatevole:

– ‘Hai poi preso ad andare in giro tenendo in braccio un orso

in carne ed ossa, che a quanto pare inzacchera la sacrestia e

fa baccano in chiesa durante le funzioni, tanto da spaventare

i fedeli. Pure si tratta di faccende a modo loro naturali, in un

certo senso, e su cui non intendiamo intervenire’.

– ‘Abbiamo poi anche sentito che sei disceso in un pozzo pro-

fondo e che da lì lanceresti dei giavellotti verso la superficie,

un genere di esercitazione nelle quali non desideriamo intro-

metterci. La Chiesa evangelico-luterana di Finlandia è tolle-

rante e comprensiva’, sottolineò l’assessore giureconsulto in 

tono condiscendente.

– ‘Ma quei tuoi articoli sulla stampa: quelli sì sono opera del

demonio’, sentenziò il vescovo in tono afflitto.

– ‘Ma che diavolo t’è preso, disgraziato, di andare a pubblicare

quella roba impossibile sul Corriere di Salo?’, gemette l’asses-

sore.

– ‘Tra le altre cose lasci intendere che Gesù sarebbe stato una

specie di rivoluzionario e comunista’, osservò il vescovo Ket-

terstrom.

– ‘E osi affermare che discepoli e apostoli sarebbero stati co-

mandanti di un’armata di guerriglieri militarmente organiz-

zati, e Gesù un rivoluzionario che sognava l’indipendenza di

Israele e l’instaurazione di un proprio regno’.

Fecero una pausa per assaggiare il caffè e gustare i pasticci-

ni….  Poi il vescovo dichiarò:

– ‘Scritti di questo tenore sono opera di Satana in persona, non

c’è dubbio. Metti la Chiesa evangelico-luterana in una luce a-

nomala, metti in discussione il fondamento stesso di tutta la

nostra vita religiosa, snaturi il messaggio di riscatto e di per-

dono del Cristo….. E’ altrettanto blasfemo che negare che Ma-

ria sia rimasta vergine’. 

Il reverendo Huuskonen, le sopracciglie aggrottate, brontolò:

– ‘E infatti non lo era, come fa una donna a restare incinta sol-

tano per opera dello Spirito Santo? Io ci sento puzza di pro-

creazione assistita’.

L’assessore giureconsulto deglutì, poi insinuò che Huusko-

nen doveva essere un esperto in merito, con tutti i bastardel-

li che aveva sparso in giro.

A questo punto il reverendo cominciò ad averne abbastan-

za….. 

Domandò dove si volesse andare a parare con quest’interro-

gatorio. Il proposito era di ammonirlo, oppure di infligger-

gli sanzioni più concrete, come interdirgli la predicazione,

toglierli la parrocchia o altre misure di questo tenore?

– ‘Niente di tutto ciò’, sospirò il vescovo.

– ‘Si tratta di questioni a tal punto delicate, che a mio pare-

re dovremmo giungere a un compromesso’.

– ‘Ti suggeriamo, caro fratello Oskari, che per un po’ tu ti a-

stenga dallo scrivere sui giornali’.

– ‘La libertà di parola riguarda anche i preti, fece notare Hu-

uskonen’.

– ‘Verissimo’, si compiacque il vescovo.

– ‘E soprattutto la libertà di predicazione che sia conforme ai

precetti canonici della Chiesa, e non una fantasia personale.

Sulle questioni religiose non sono ammesse interpretazioni 

divergenti. I dogmi di una religione vanno rispettati.

Già nella Chiesa delle origini……

(Arto Paasilinna, Il migliore amico dell’orso)

 

 

 

 

 

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