66 ROUTE

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Gente sconosciuta…. 

Prosegue in:

66 Route (2) &

Il clima che cambia

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Gente Sconosciuta  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

 

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Dewey infilò la chiave nella porta d’ingresso principale nella casa

dei Clutter. All’interno l’ambiente era caldo perché il riscaldamen-

to non era stato spento, e le camere dai pavimenti lucidi, con l’o-

dore di cera al profumo di limone, sembravano solo temporane-

amente disabitate: come se quel giorno fosse domenica e la fa-

miglia potesse rientrare da un momento all’altro dopo essere

stata in chiesa.

Le eredi, la signora English e la signora Jarchow, avevano por-

tato via parecchi abiti e mobili, pure quell’atmosfera di casa an-

cora abitata non ne era stata sminuita. Nel soggiorno, sul leggio

del pianoforte, c’era, aperto, uno spartito musicale: ‘Comin’ Thro’

the Rye’.

 

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All’attaccapanni in anticamera era appeso un cappello da cowboy

grigio, macchiato di sudore: di Herb. Al piano superiore, nella stan-

za di Kenyon, su uno scaffale sopra il letto gli occhiali del ragazzo

scomparso luccicavano al riflesso della luce.

L’investigatore passò da una camera all’altra… Già molte volte ave-

va fatto il giro della casa, anzi quasi ogni giorno vi si recava e, in un

certo senso, si poteva dire che trovava piacevoli quelle visite: quel

luogo, a differenza di casa sua o dell’ufficio dello sceriffo, con tutto

il baccano che c’era, era tranquillo.

Il telefono, dai cavi ancora recisi, era silenzioso. La grande quiete del-

le praterie lo circondava. Poteva sedersi sulla sedia a dondolo di Herb,

nel soggiorno, a cullarsi e riflettere. Alcune delle sue conclusioni erano

incrollabili; era convinto che l’obiettivo principale dei criminali fosse la

 

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morte di Herb Clutter; il movente, un odio psicopatico o forse odio e

rapina insieme; ed era convinto che l’esecuzione del massacro era

stato un lavoro svolto tranquillamente, in cui magari erano trascorse

due o più ore tra l’ingresso degli assassini e la loro uscita.

Su queste supposizioni si basava la sua convinzione che i Clutter co-

noscessero molto bene coloro che li avevano sterminati. Durante quel-

la visita Dewey sostò a una finestra del piano superiore, la sua atten-

zione era stata attratta da qualcosa che scorgeva poco lontano: uno

spaventapasseri tra le stoppie di grano.

Lo spaventapasseri aveva un berretto da caccia da uomo e una veste

di cotonina a fiori, sbiadita dalle intemperie.

Il vento scherzava con la gonna e faceva oscillare lo spaventapasse-

ri così da farlo sembrare una creatura solitaria che danzasse in quel

freddo campo dicembrino. E per qualche motivo Dewey tornò alla

mente il sogno di Marie.

 

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In una di quelle ultime mattine sua moglie gli aveva servito una colazione

squinternata a base di uova zuccherate e caffè salato, e quindi ne aveva

dato la colpa a ‘uno stupido sogno’ che però la luce del giorno non era

riuscita a disperdere.

‘Era così reale, Alvin,’ gli aveva raccontato. ‘Reale come questa stanza.

Ed ero qui infatti. Qui in cucina. Stavo preparando il pranzo e improvvi-

samente è entrata Bonnie. Indossava un golf azzurro, d’angora e aveva

un’aria così dolce e graziosa. E io ho detto: ‘Oh, Bonnie… Bonnie, cara…

Non ti vedevo da quando è accaduta quella terribile cosa’.

Ma lei non ha risposto, mi ha solo fissata, in quel suo modo, e io non sape-

vo come andare avanti. Date le circostanze. Così ho detto: ‘Tesoro, vieni

a vedere cosa sto facendo ad Alvin per pranzo. Una zuppa di ibisco. Con

gamberi e granchi freschi. E’ quasi pronta. Vieni tesoro, assaggiala’.

 

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Ma lei non si è mossa. E’ rimasta sulla porta a guardarmi. E poi, non so

spiegartelo esattamente, mi ha chiuso gli occhi, ha cominciato a scuote-

re il capo, molto lentamente, e a torcersi le mani, molto lentamente, e a

gemere, o a bisbigliare. Non riuscivo a capire cosa stava dicendo. Ma mi

spezzava il cuore, non mi sono mai sentita così addolorata per nessuno,

e l’ho abbracciata.

Ho detto: ‘Ti prego, Bonnie! Oh, non fare così, tesoro, non fare così!

Se mai c’è stato qualcuno preparato a presentarsi a Dio, eri proprio tu,

Bonnie’. Ma non riuscivo a confortarla. Scuoteva il capo, si torceva le

mani e allora ho sentito quel che diceva.

Stava mormorando: ‘Essere assassinati. Essere assassinati. No. No.

Non c’è nulla di peggio. Nulla di peggio di questo…. Nulla’.

 

(Prosegue….)

 

 

 

 

 

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LA MASCHERA DELLA VIOLENZA

Precedenti capitoli:

Me nel futuro si può sperare?

Certo che no se è la violenza a parlare…

Prosegue in:

La maschera della violenza (2) &

David alla conquista del Tibet

Da:

i miei libri

 

 

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Francisco Goya commenta così un’incisione della serie dei ‘Capricci’:

‘Il mondo è una mascherata; il volto, gli abiti, il modo di parlare, tutto è

studiato a tavolino. Tutti vogliono sembrare quello che non sono; tutti

ingannano e nessuno conosce se stesso’.

A una festa galante un generale perfettamente agghindato fa la corte

a una bella maschera. I mariti rimangono in secondo piano, uno volta

le spalle ai due, indispettito. I loro cappelli appuntiti a righe ricordano le

corna di chi è stato tradito ma è all’oscuro di tutto. ‘Non ci si conosce’

è il sottotitolo dell’opera. Il mondo è un ballo in maschera.

Tutti cercano di ingannare gli altri, a tutti i livelli, a tutte le rappresenta-

zioni pupare della colta civiltà, e in questo modo non trovano più se

stessi. La recita delle maschere non riesce più a liberare dai vincoli

dell’etichetta di corte (della casta).

Per Goya, borghese illuminato, il ballo in maschera è il simbolo dello

straniamento e della corruzione.

 

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Così James Ensor descrive la confusione carnevalesca nel suo ‘En-

trata di Cristo a Bruxelles’, una Babilonia moderna. Intorno al Reden-

tore si radunano dei giullari, dei buffoni che si inchinano riverenti di

fronte a lui. Davanti marcia una banda militare in uniforme, ma i tim-

pani e le trombe non annunciano il suo arrivo. Anche il Figlio di Dio

non è che una delle attrazioni della sfilata.

Nessuno lo acclama.

L’uomo sull’asino sembra affondare nella ressa. Sono in pochi a no-

tarlo, qualche commediante, stupefatto, dimentica di dover rimanere

in posa. Un uomo con una fascia bianca sorveglia la baraonda da un

palco rialzato. Metà diplomatico, metà direttore di circo, questo rappre-

sentante dell’autorità controlla l’ingresso delle maschere. Sulla sinistra

l’Anticristo, con in testa il cappuccio del Grande Inquisitore, è in aggua-

to, chiedendosi per quale ragione Cristo sia tornato un’altra volta, non

c’è bisogno di Gesù Cristo per questi luoghi, per queste vie, per questa

nostra elevata cultura….

 

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Non molto lontano, nella parte inferiore del monumentale dipinto, sotto

un cilindro verde e nero, si può riconoscere il teschio della Morte, l’aral-

do della violenza. E’ l’ultima delle maschere, il volto dei volti. Se lo guar-

date attentamente ha un’aria burlesca, a metà fra il bullo e l’imbecille, e

il camieriere di turno, vende la morte: affari d’oro per il forziere della sua…

Roma.

Vi parlerà di vita pace e prosperità, maschera antica della peggior perfi-

dia, accanto tiene stretta la sua borsa, vende armi e non solo, vende

falsità.. e non solo, vende maschere e non solo….

 

(Prosegue…)

 

 

 

 

 

 

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CONTRO LA GUERRA (3)

Precedente capitolo:

 Contro la guerra (1)  &  (2)

Prosegue in:

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Contro la guerra  (1)   (2)  (3)   (4)   (5)   (6)   (7)   (8)

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i miei libri

 

 

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Scorgo una città, e                                     

subito mi nasce la speranza che almeno fra gli abitanti viga

un’ intesa, visto che sono chiusi dalle stesse mura, retti dalle

stesse leggi e accomunati dal pericolo come i passeggeri di 

una stessa nave.

Ma per mia sventura scopro ogni cosa infettata anche lì dalle

discordie, e non si riesce quasi a trovare una casa in cui vi sia

spazio per me anche solo per pochi giorni.

Trascuro dunque il popolino travolto come un mare dalle sue

tempeste, e mi rifugio nei palazzi dei signori quasi come in un

porto.

Lì, dico, vi sarà certamente un posto per la pace; costoro sono

più sapienti del volgo, poiché sono l’intelletto della plebe e l’-

occhio del popolo; e poi fanno le veci di colui ch’è maestro e

principe di concordia e che mi ha raccomandata a tutti ma par-

ticolarmente ai principi.

Tutto promette bene.

Vedo scambi di saluti cordiali, abbracci amicali, brindisi gio-

condi e ogni altra manifestazione di umana bontà.

Ma quale dissonanza!

Fra loro non mi fu dato di scorgere l’ombra della vera concor-

dia. Tutto è una farsa mascherata, ogni cosa corrotta da faziosi-

tà scoperte e da occulti dissidi o rivalità.

Alla fine scopro che presso questa gente non vi è un seggio per

la pace, anzi di là scaturiscono e germogliano tutte le guerre.

Dopo di che, ove rivolgermi tapina, dopo tanti disinganni?

Ma i principi sono più grandi che dotti, guidati più dalle pas-

sioni che da retto giudizio.

Mi rifugerò fra i banchi dei dotti.

La buona letteratura rende umani, la filosofia più che umani,

la teologia divini.

Fra costoro dopo tanti vagabondaggi troverò certamente ripo-

so.  

E invece quale pena!

Ecco anche qui un altro genere di guerre, certo meno cruento

ma non meno folle. 

Le scuole in dissidio fra loro e, come se la verità differisse da

un luogo all’altro, certe nozioni non varcano il mare, altre non

superano le Alpi, altre ancora non traghettano il Reno; addirit-

tura in una stessa università il retorico è in guerra con il logico,

il teologo dissente dal giurista, e persino nella medesima disci-

plina lo scotista è in conflitto col tomista, il nominalista col reali-

sta, il platonico con l’aristotelico, a tal segno che nemmeno sui

punti più minuti esiste accordo fra loro e sono frequenti i duel-

li più fieri su questioni di lana caprina: nel calore della discus-

sione salgano dalle argomentazioni agli insulti, dagli insulti al-

le percosse; non si pone mano a picche e pugnali, ma ci si trafig-

ge con stili avvelenati, ci si sbrana a vicenda con fogli dentati e

l’uno avventa con la lingua frecciate letali sulla reputazione del-

l’altro. 

Dove volgermi dopo essere stata tante volte beffata?

(Erasmo, Contro la guerra)

 

 

 

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CONTRO LA GUERRA

 

Prosegue in:

Contro la guerra (2)

 

 

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…Ma a me, definire animalesco o bestiale un conflitto armato

sembra  ancora inadeguato.

In effetti gli animali vivono per lo più concordemente e socie-

volmente all’interno della propria specie, si muovono in grup-

po, si difendono e si aiutano reciprocamente.

Non si combattono, ma solo i più feroci, leoni, lupi, tigri.

E neanche questi combattono fra di loro come facciamo noi.

Cane non mangia cane; ‘i feroci leoni non si fanno la guerra’; il

serpente non aggredisce il suo simile; v’è pace tra le bestie ve-

lenose.

Ma per l’uomo non c’è bestia più pericolosa dell’uomo.

Gli animali, quando combattono, combattono con le armi che gli

ha dato la natura.

Noi uomini ci armiamo a rovina degli altri uomini di armi inna-

turali, escogitate da un’arte diabolica. Gli animali non si scatena-

no per qualsiasi ragione, ma solo perché sono inferociti dalla fa-

me, perché si sentono braccati, perché temono per i cuccioli. 

Noi uomini – chiamo Dio a testimone – scateniamo le più tragi-

che guerre per le ragioni più futili: vacui titoli di dominio, un

puerile scoppio d’ira, il ratto di una donnicciola, e vi sono moti-

vazioni ancora più ridicole.

Inoltre gli animali conoscono solo scontri singolari e brevissi-

mi.

Per cruenta che sia, la battaglia si scioglie quando uno dei due

contendenti viene ferito. Chi ha mai sentito dire che centomila

animali si siano sterminati a vicenda?

Eppure così fanno dappertutto gli uomini.

Ma il confronto non è ancora finito.

Ci sono specie animali divise fra loro da un’ostilità congenita

 

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 ci sono però anche specie unite da genuina e salda amicizia.

Invece fra uomo e uomo, fra tutti gli uomini presi uno a uno,

c’è guerra perpetua: non esiste nel genere umano un’alleanza

veramente salda.

Così è: ogni creatura, che tradisce la propria natura, degenera

diviene peggiore che se  fosse stata originariamente maligna. 

Ma se vuoi sapere che cosa bestiale, vergognosa, disumana è

la guerra, dimmi: hai mai assistito a uno scontro fra un leone

e un orso?

Fauci spalancate, ruggiti, brontolii sordi, ferocia, carneficina.

Chi guarda si sente rizzare i capelli in testa anche se si trova

al sicuro.

Ma quando più vergognoso, quanto più crudele è lo spettacolo

di due uomini che si fronteggiano, muniti di tante armi di offe-

sa e di difesa!

Chi li crederebbe uomini, dimmi, se l’abitudine al male non ci 

avesse tolto la facoltà di meravigliarci?

Gli occhi bruciano, i volti sbiancano, l’andatura si fa frenetica, la

voce diventa un ruggito, un urlo malsano; l’uomo è tutto ferro, le

armi cozzano i cannoni esplodono. Se almeno gli uomini di divo-

rassero per fame, se avessero sete di sangue, la faccenda risulte-

rebbe meno feroce.

Oggi poi le frecce intinte di veleno e macchine infernali stanno

rendendo la guerra ancora più spietata.

Non c’è più nessun vestigio di umanità.

Al punto  cui siamo, credi che la natura sarebbe in grado DI

RICONOSCERE LA SUA CREATURA?

(Erasmo, Contro la guerra)

 

 

 

 

 

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VAN DER VEER RIFIUTA DI SERVIRE L’ESERCITO!

Prosegue in:

Van der Veer rifiuta di servire l’esercito (2) &

L’Apocalisse

Foto del blog:

L’Apocalisse (1)  &  (2)

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Van der Veer rifiuta di servire non secondo il comandamento ‘Voi non

 ucciderete’, non perché è cristiano, ma perché crede che l’omi-

cidio contrario alla ragione dell’uomo.

Egli scrive che odia ogni omicidio e a un tal punto che è divenuto

vegetariano per non farsi complice del massacro degli animali, e

soprattutto aggiunge che rifiuta di servire perché considera l’omi-

cidio per ordine, vale a dire l’obbligo di uccidere quelli che vi si

ordina di uccidere, come un atto incompatibile con la dignità u-

mana.

All’obiezione corrente: ‘Se voi non servite e altri imitano il vostro

esempio, l’ordine attuale sarà distrutto’, risponde che, precisamen-

te, egli non vuole mantenere l’ordine attuale, perché quest’ordine

dà ai ricchi il potere sul povero e questo non dev’essere.

 

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Quantunque avesse egli avuto qualche dubbio sul carattere di

obbligazione o non al servizio militare, il solo pensiero che,

soldato egli diveniva per la violenza e la minaccia l’appoggio

del ricco oppressore contro il povero oppresso, avrebbe fatto

di lui un refrattario.

Se Van der Veer avesse dato, come motivo del suo rifiuto di

obbedienza, la sua qualità di membro di una delle confessioni

cristiane, gli uomini che debbono entrare al servizio avrebbero

potuto dire: ‘Io non sono di alcuna setta, non riconosco la reli-

gione cristiana, e per conseguenza, non mi credo tenuto ad agi-

re come lui’.

Ma le ragioni allegate da Van der Veer sono così semplici, così

chiare, così comuni a tutti, che è impossibile non farle proprie.

D’ora innanzi ogni uomo che non vorrà disconoscere per se stes-

so il carattere di obbligazione dovrà dire: ‘Io amo uccidere, sono

pronto a uccidere, non solo i miei nemici, ma pure i miei disgra-

ziati compatrioti oppressi, e non trovo niente di male nell’impe-

gno che prendo di uccidere, sull’ordine del primo venuto dei

miei capi, tutti quelli che quest’ordine indicherà di uccidere’. 

La cosa è ben semplice.

Si è insegnato a un giovane qualunque, in qualunque luogo, in 

qualunque famiglia, in qualunque confessione sia egli cresciuto,

che bisogna essere buoni, che è male battere o uccidere, non solo

i propri simili, ma pure gli animali, che l’uomo deve essere gelo-

so della sua dignità, e che la dignità consiste nell’agire secondo la

propria coscienza. 

Questi principi di educazione sono dovunque gli stessi, fra i cine-

si discepoli di Confucio, come fra i giapponesi scintoisti o buddi-

sti, come fra i turchi mussulmani. Ed ecco che, tutto penetrato dall’-

insegnamento ricevuto, questo giovane entra nel servizio militare

dove si esige da lui proprio il contrario di quel che gli si è insegna-

to: gli si comanda di prepararsi a ferire e a uccidere non degli ani-

mali ma degli uomini; gli si comanda di sottomettersi per eseguire

quest’opera di morte, a degli estranei che non conosce che non ha

mai visti.

A simili ingiunzioni che può rispondere un giovane del nostro

tempo?

Evidentemente una sola cosa:

‘Io non voglio, no, io non voglio’.

E’ precisamente ciò che ha fatto Van der Veer!

(Lev Tolstoj, Una rondine fa primavera)

 

 

 

 

 

van der veer rifiuta di servire l'esercito!