DUE POESIE PER L’INQUISITORE (anima immortale)

 

Prosegue in:

Seconda poesia &

Mentre nascevo

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Mentre nascevo (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

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Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro

tanto, che quanti libri tiene il mondo

non saziar l’appetito mio profondo:

quanto ho mangiato! e del digiun pur morto!

D’un gran mondo Aristarco, e Metrodoro

di più cibommi, e più di fame abbondo;

disiando e sentendo, giro in tondo;

e quanto intendo più, tanto più ignoro.

Dunque immagin sono io del Padre immenso,

che gli enti, come il mar li pesci, cinge,

e sol è oggetto dell’amante senso;

cui il sillogismo è stral, che al segno attinge;

l’autorità è man d’altri; donde penso

sol certo e e lieto chi s’illuia e incinge.

(Tommaso Campanella)

 

 

 

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MENTRE MORIVO (2)

Precedente capitolo:

Mentre (morivo…)

Prosegue in:

Vardaman (3/4) &

Mentre morivo (5/6)

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Esther

Bubley  &

Mentre morivo (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

morivo

 

 

 

  

Da  Mentre……

La ragazza è in piedi accanto al letto che le fa vento.

Quando entriamo lei volta la testa e ci guarda.

Sono dieci giorni che è morta. Sarà perché è stata parte

di Anse per tanto tempo che non può neanche fare quel

cambiamento, se cambiamento è.

Mi ricordo quando ero giovane credevo che la morte fos-

se un fenomeno del corpo; ora so che è soltanto una fun-

zione della mente – della mente, dico, di chi subisce il lut-

to.

I nichilisti dicono che è la fine; i fondamentalisti, il prin-

cipio; mentre in realtà non è altro che un affittuario o una

famiglia che se ne va da un appartamento o da una città.

Ci guarda.

Soltanto gli occhi sembrano muoversi.

E’ come se ci toccassero, non con la vista o il senso, ma

come si tocca il getto di una canna, il getto nell’istante del-

l’impatto, dissociato dal boccaglio come se non ci fosse mai

passato.

Anse non lo guarda per niente.

Guarda me, e poi il bambino.

Sotto la trapunta, non è altro che una fascina di stecchi

marci.

– Be’, signora Addie,

dico.

– La ragazza non smette di far vento.

– Come sta, sorella?

dico.

La testa giace sparuta sul guanciale, a guardare il ragazzo.

– Bel momento, ha scelto per farmi venire quassù a scatena-

re una tempesta……

(prosegue in: Vardaman)

(W. Faulkner, Mentre morivo; Foto di Eudora Welty)

 

 

 

 

morivo

 

DUE OROLOGI (4)

Precedenti capitoli:

Gli occhi di Atget: Due orologi (1) &

Dialoghi con Pietro Autier: Due orologi (2) &

Pagine di storia: Due orologi (3)

Prosegue in:

Pagine di storia: Due orologi (5) &

Gli occhi di Atget: Due orologi (6) &

Dialoghi con Pietro Autier 2:

L’oca

Foto del blog:

Le strade del…. sono infinite…. (1)  (2)  (3)  (4)  (5)  (7)

Da:

i miei libri

 

 

 

 

Ero stomacato… stomacato a morte di quella lenta

agonia, e quando alla fine mi slegarono e mi per-

misero di sedere, ebbi l’impressione che i sensi mi

abbandonassero.

La sentenza, la temuta sentenza di morte, era sta-

ta l’ultima percezione distinta a raggiungere le mie

orecchie.

Subito dopo, il suono delle voci degli inquisitori mi

pervenne come sommerso in un confuso sognante

indefinito brusio (come in un sogno).

 Questo suono vago portava al mio spirito un’idea

di  (rivoluzione) cinrconvoluzione, forse per associ-

azione fantastica con il ronzare da mulino.

Ma questa sensazione durò solo per poco, poiché

quasi subito non intesi altro.

Tuttavia, per un certo tempo, vidi, ma con quale

spaventosa esagerazione!

Vedevo le labbra dei giudici ammantati di nero.

Esse mi apparivano bianche, più bianche del fo-

glio su cui traccio queste parole, e sottili sino a

divenire grottesche; sottili tanto intensa e tesa

era la loro espressione di durezza, di risoluzio-

ne immutabile, di severo disprezzo dell’umana

tortura.

Vedevo che i voleri di quel che per me era il Fa-

to, ancora uscivano da quelle labbra (anche se

innocente che venga perseguitato).

Le vidi contorcersi in un favellare di morte e

riso, le vidi foggiare le sillabe del mio nome, e

rabbrividii poiché nessun suono ne usciva.

Vidi pure, durante alcuni attimi di delirante or-

rore, il lieve, pressoché impercettibile ondeggia-

re dei cortinaggi cupi che avvolgevano le mura

della camera.

Li vidi ridere dei miei studi.

Li vidi distruggere le fotografie.

Li vidi con abiti militari brindare in osterie.

Li vidi ridere nell’attesa dell’onda che li som-

merge.

Poi il mio sguardo cadde sulle sette lunghe can-

dele ritte sulla tavola.

Da principio assumevano l’aspetto della carità e

sembravano bianchi sottili angeli che mi avrebbe-

ro salvato; ma dopo, all’improvviso, penetrò nel

mio spirito un senso di nausea mortale e sentii

ogni fibra del mio corpo percorsa da una scossa

come se avessi toccato i fili di una pila elettrica,

mentre le forme angeliche divenivano spettri

senza senso, con la testa di fiamma, e capii che

non mi sarebbero venute in aiuto.

Poi penetrò nella mia mente, come una ricca no-

ta musicale, il pensiero di quanto doveva essere

dolce riposare in una tomba.

Il pensiero arrivò piano piano, furtivamente e

sembrò che passasse molto tempo prima che po-

tessi apprezzarlo; ma proprio quando il mio spi-

rito, alla fine arrivò a sentirlo nella maniera giu-

sta e a fissarlo, le figure dei giudici (o degli scri-

bi) svanirono, quasi magicamente, davanti a me;

le lunghe candele sprofondarono nel nulla, le lo-

ro fiammelle si spensero improvvisamente e so-

pravvenne il buio più profondo e più nero; tutte

le sensazioni apparvero come inghiottite in una

pazza precipitosa discesa, simile a quella dell’a-

nima nell’Ade.

Allora silenzio, immobilità e notte furono l’Uni-

verso.

Ero svenuto, ma non direi che ogni consapevolez-

za fosse perduta. Non tenterò di definire quello

che ne rimaneva e nemmeno di descriverlo; cer-

to non si era perduta tutta.

Nel più profondo sonno – no!

Nel delirio – no!

Nello svenimento – no!

Nella morte – no!

Perfino nella tomba non è tutto perduto. Altrimen-

ti non c’è immortalità per l’uomo. Svegliandoci dal

più profondo sonno, laceriamo il tessuto della ra-

gnatela di qualche sogno.

Già qualche istante dopo  non ricordiamo di aver

sognato.

Nel ritorno alla vita dopo uno svenimento vi sono

due stadi: il primo è la sensazione della propria esi-

stenza mentale e spirituale; il secondo, la sensazio-

ne dell’esistenza fisica.

Sembra probabile che se, dopo aver raggiunto il se-

condo stadio, potessimo richiamare le impressioni

del primo, troveremmo queste impressioni ricche

di memorie dell’abisso dell’al di là.

…E cos’è questo abisso?

(Edgar Allan  Poe, Il pozzo e il pendolo)

 

il pozzo e il pendolo

 

….Alfred Maury si sdraiava sul lettino o si accomoda

va sulla poltrona e cercava di prendere sonno; appe-

na si addormentava, il suo assistente lo svegliava e

subito Maury gli raccontava che cosa gli era passato

per la mente.

In alcuni esperimenti, l’assistente usava un insieme

di stimoli – pronunciava alcune parole, lo solleticava

con una piuma o teneva una candela accesa vicino ai

piedi di Maury – allo scopo di saggiarne l’inflenza sul

contenuto dei sogni.

A volte, il cervello di Maury trasformava lo stimolo

in una divertente fantasia. Quando il suo assistente

gli strinò le piante dei piedi con una candela, raccon-

tò di aver sognato di essere stato catturato da una

banda di rapinatori, i quali cercavano di scoprire do-

ve avesse nascosto il denaro sottoponendolo alla tor-

tura.

Oggi sappiamo che Maury non studiò i sogni del

sonno Rem, bensì le allucinazioni ipnagogiche, che

hanno una certa somiglianza con i sogni. I suoi re-

soconti, quindi, insegnarono che in effetti le impres-

sioni sensoriali possono avere una reale influenza

sulle allucinazioni ipnagogiche.

In ‘sommeil et les reves’, pubblicato nel 1861, Mau-

ry riassume le sue osservazioni e afferma che i so-

gni non sono nient’altro che un fenomeno che ac-

compagna le impressioni sensoriali assorbite prima

e durante il sonno.

Maury respingeva del tutto la possibilità che i sogni

avessero un qualche significato. Nella sua concezio-

ne psicologica del sogno ha un senso soltanto come

  ricostruzione delle impressioni arrivate alla men-

te dall’interno o dall’esterno durante il sonno: le im-

pressioni si associano all’infanzia o ad altri ricordi

e in tal modo creano la storia del sogno.

E’ del tutto possibile che il nome di Maury non si

sarebbe mai guadagnato la fama cui arrivò se non

fosse stato per un sogno particolare che marcò per

decenni il modo di concepire i sogni e la loro forma-

zione: il sogno della ghigliottina…..

 

(Prosegue…)

 

  

 

il pozzo e il pendolo

DUE OROLOGI (2)

Precedenti capitoli:

Dialoghi con Pietro Autier 2:

L’oca 

Gli occhi di Atget: Due orologi (1)

Prosegue in:

Pagine di storia: Due orologi (3)

Foto del blog:

Bell

William

Da:

 i miei libri

 

due orologi 2

 

 

 

 

(Da: Due orologi)

 

…Ma non dormì….

Cominciò a sentire un dolore sulla fronte un male sordo,

all’inizio appena percettibile poi sempre più molesto.

Apriva gli occhi e spariva; li richiudeva e quello ritor-

nava.

– Al diavolo!

disse a casaccio; li richiudeva e quello ritornava.

– Al diavolo!

disse a casaccio e tornò a fissare il cielo.

Sentì gli uccelli cantare, la strana nota metallica della

stornella che suggeriva il cozzare di lame vibranti.

Si immerse nei ricordi piacevoli dell’infanzia, giocò an-

cora col fratello e con le sorelle, corse in mezzo ai cam-

pi, gridò per spaventare le allodole stanziali, entrò nel-

la foresta oscura e con timidi passi, seguì il sentiero in-

certo per la Roccia dello Spettro, e infine si fermò col

cuore che gli batteva all’impazzata davanti alla Grot-

ta del Morto per cercare di penetrarne il terribile mi-

stero.

Per la prima volta notò che l’apertura della grotta

stregata era circondata da un anello di metallo.

Poi tutto il resto svanì lasciandolo di nuovo a fissare

la canna del fucile. Ma mentre prima gli era sembra-

ta più vicina, ora pareva inconcepibilmente lontana

e, per questo, ancora più sinistra.

Gridò forte e, spaventato da qualcosa nella sua voce,

dalla nota di paura che vi colse, mentì a se stesso per

metterla a tacere:

– Se non tiro fuori la voce, rimarrò qui finché muoio.

Jerome Searing, l’uomo di coraggio, il temibile nemi-

co, il guerriero forte e risoluto, era pallido come uno

spettro.

Aveva la bocca spalancata; gli occhi strabuzzati; tre-

mava in ogni fibra; il sudore freddo gli inzuppava il

corpo; urlava di paura.

Non era pazzo, era terrorizzato.

Annaspando con la mano ferita e sanguinante, affer-

rò infine un’assicella e, tirando, sentì che cedeva. Si

trovava parallela al suo corpo, e piegando il braccio

quanto glielo consentiva lo spazio ristretto, poté mu-

overla pochi centimetri alla volta.

Infine la liberò del tutto dalle macerie che gli copri-

vano le gambe e riuscì ad alzarla in tutta la sua lun-

ghezza.

Una grande speranza gli si affacciò alla mente; forse

avrebbe potuto farla scorrere verso l’alto, cioè arre-

trarla abbastanza da sollevarne l’estremità e sposta-

re di lato il fucile; o se quello era troppo incastrato,

piazzare l’assicella in modo da fare deviare la pallot-

tola.

Allo scopo, la fece arretrare un centimetro alla vol-

ta, non osando quasi respirare per paura che il gesto

rendesse vana l’intenzione, incapace più che mai di

distogliere lo sguardo dal fucile, casomai s’affrettas-

se ora a cogliere l’occasione che gli stava sfumando.

Per lo meno aveva ottenuto qualcosa: con la mente

impegnata nello sforzo di difendersi, sentiva il do-

lore al capo e aveva smesso di sussultare. Ma era

ancora spaventato a morte e i denti gli battevano

come nacchere.

L’assicella cessò di rispondere alle pressioni della

mano. Le dette uno strattone con tutte le sue forze,

ne cambiò la direzione più che poté, ma quella si

era scontrata con un ostacolo di vaste proporzio-

ni alle sue spalle e l’altra estremità era troppo lon-

tana per sgombrare la pila dei detriti e raggiunge-

re la bocca del fucile.

Eppure si allungava fino quasi al ponticello che,

rimasto fuori dai detriti, riusciva a intravedere con

l’occhio destro. Tentò di rompere l’assicella con la

mano, ma non aveva dove far leva. Sconfitto, fu

nuovamente preso da un terrore decuplicato.

Sembrava che la nera apertura del fucile minac-

ciasse una morte più prossima e più amara, per pu-

nirlo della sua ribellione. La traiettoria della pallot-

tola nella testa gli dolse procurandogli un intenso

tormento.

….Riprese a tremare…..

(Prosegue in: Due orologi (3))

(A. G. Bierce)

 

  

 

due orologi 2

QUARTO SOGNO: e la natura con Dio ammirare (e l’uomo sempre braccare… i geni di ogni reame…)

Precedente capitolo:

Quarto Sogno: così fra i Geni della foresta mi volli ritirare

Prosegue in:

La strada & la Povera Cosa

Foto del blog:

La Strada (1)  (2)  (3)  (4)

Da:

i miei libri

 

e la natura con dio ammirare

 

 

 

 

 

Solo i bimbi, ancor liberi da pregiudizi, si accorgevano che

la foresta era popolata dai geni; e ne parlavano spesso, ben-

ché ne avessero una conoscenza molto sommaria.

Con l’andar degli anni però anch’essi cambiavano d’avviso,

lasciandosi imbevere dai genitori di stolte fole. Dobbiamo

aggiungere che neppur noi abbiamo dei geni del Bosco Vec-

chio notizie molte precise.

 

e la natura con dio ammirare

 

Pare, come scrisse l’abate Marioni, ch’essi potessero assume-

re parvenze di animali o di uomo e uscire dai tronchi, la qual

cosa sembra avvenisse in circostanze del tutto eccezionali.

La loro forza, così risulterebbe, non poteva in alcun modo op-

porsi a quella degli uomini. La loro vita era legata all’esisten-

za degli alberi rispettivi:

durava perciò centinaia e centinaia d’anni.

 

e la natura con dio ammirare

 

Di carattere ciarliero, se ne stavano generalmente alla sommità

dei fusti a discorrere fra loro o col vento per intere gionate; e 

spesso anche di notte continuavano a conversare.

Pare inoltre che essi avessero ben compreso il pericolo di esse-

re annientati dagli uomini con il taglio degli alberi. Certo è che

uno di loro, senza che gli abitanti di Fondo lo immaginassero,

lavorava da molti anni per evitare il disastro: era il Bernardi.

Più giovane e meno neghittoso dei suoi compagni, sembra che

egli, in forma umana, vivesse quasi sempre tra gli uomini, al

solo scopo di assicurare la salvezza dei fratelli.

Per questo si era fatto eleggere membro della Commissione

forestale. E interi anni aveva faticato per persuadere il Morro

a risparmiare il Bosco Vecchio; sapendolo vanitoso, aveva sa-

puto prenderlo dal lato debole: lo aveva fatto includere anche

lui nella Commissione forestale, gli aveva procurato un diplo-

ma di benemerenza, l’aveva fatto nominare cavaliere.

 

e la natura con dio ammirare

 

Dopo la morte, gli aveva anche fatto erigere un monumento:

una statua modesta, è vero, ma lavorata egregiamente. Quanti

i sacrifici, le astuzie, le fatiche del Bernardi per i propri compa-

gni. Quante sere, mentre gli altri geni, sulle cime degli abeti,

univano le loro voci in coro per intonare certe loro tipiche can-

zoni, il Bernardi doveva starsene a chiacchierare con il Morro,

per tenerlo in buona, di noiose questioni che non gli importa-

vano niente, o a far dei giochi di carte che non lo divertivano 

affatto, dinanzi a un bicchiere di vino che non gli piaceva; ed

entrava intanto dalla finestra, con il profumo di preziosissime

resine, la voce fonda dei suoi fratelli, che cantavano spensiera-

ti.

Appena conobbe il colonnello Procolo e udì la sua intenzione

di fare tagli nel Bosco Vecchio, il Bernardi comprese subito che

ogni tentativo di persuasione sarebbe stato inutile….

(Ma il colonnello….non tagliò mai il Bosco Vecchio, né lui né

il suo amico Pietro….forse per questo divennero geni anche

loro….)

(Dino Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio)

 

 

 

 

e la natura con dio ammirare

  

TERZO SOGNO: rubarono tutta la frutta dagli alberi

Precedenti capitoli:

Ma gli androidi sognano pecore elettriche? &

Gli impiegati

Della Compagnia

Prosegue in:

Terzo sogno: …. e la portarono via

Foto del blog:

I nativi (1)  &  (2)

La notizia:

L’ONU lancia l’allarme…

Commerci e mercati….

Africa quando le banche controllano l’acqua…

La banca mondiale ci ripensa…

La diga che lascia gli africani al buio (la diga delle grandi Compagnie..)

I costi (commerciabili) ed insostenibili delle grandi dighe

 Appunti, riflessioni, dialoghi e rime…

i miei libri

 

 Congo Rainforest

 

 

 

 

 

Gli impiegati

della Compagnia

rubarono tutta la frutta dagli alberi

… e la portarono via….

 

 

Il direttore della                                               

Grande Compagnia Commerciale, spintosi fino a lì su un piroscafo

che pareva un’enorme scatola di sardine sormontata da una specie

di rimessa dal tetto piatto, trovò la stazione in buon ordine e Mako-

la tranquillo e solerte come al solito.

Il direttore fece mettere la croce sulla tomba del primo agente e asse-

gnò il posto a Kayerts.

Carlier fu nominato suo subalterno.

Il direttore era un uomo SPIETATO ED EFFICIENTE che a volte si

abbandonava, ma quasi impercettibilmente, a un umorismo arcigno.

Fece un discorso a Kayerts e Carlier sottolineando i lati promettenti

della loro stazione. Il mercato più vicino era a circa trecento miglia.

Per loro era un’occasione eccezionale di distinguersi e di guadagna-

re provvigioni sugli affari.

Quell’incarico era una fortuna per dei principianti.

Kayerts fu commosso fin quasi alle lacrime dalla gentilezza del

direttore.

Rispose che avrebbe cercato, facendo del suo meglio, di giustifica-

re la fiducia lusinghiera eccetera eccetera.

Kayerts era stato nell’Amministrazione del Telegrafi e sapeva e-

sprimersi correttamente. 

Carlier, già sottufficiale di cavalleria in un esercito tutelato da ogni

rischio da diverse Potenze europee, fu meno impressionato. Se c’e-

rano guadagni da fare, tanto meglio! E facendo scorrere uno sguardo

stizzito sul fiume, sulle foreste, le impenetrabili boscaglie che pare-

vano tagliar fuori la stazione dal resto del mondo, mormorò tra i

denti:

– Si vedrà, molto presto.

Il giorno dopo, scaricate alcune balle di cotone e qualche cassa di

provviste sulla riva, la scatola di sardine a vapore salpò per non far

ritorno per altri sei mesi. 

In coperta il direttore si toccò il berretto per salutare i due agenti che

stavano in piedi sulla sponda agitando i cappelli e, rivolgendosi a

un vecchio impiegato della Compagnia che rientrava alla direzione,

disse:

– Guardi quei due imbecilli. Devono essere matti in patria per

mandarmi campioni simili. Ho detto a quei due di piantare un

orto, di fabbricare nuovi magazzini e staccionate e costruire un

pontile. Scommetto che non faranno niente! Non sapranno da che

parte cominciare. Sono sempre stato dell’avviso che una stazione

su questo fiume fosse inutile, e quei due sono proprio adatti alla

stazione!

– Ci si faranno le ossa, lì,

disse il veterano con un placido sorriso.

– Ad ogni modo, me li son levati di torno per sei mesi,

ribatté il direttore. 

I due uomini stettero a osservare il vapore che girava la curva,

poi, salendo sottobraccio il pendio della sponda, tornarono alla

stazione. 

Erano in quel vasto, tenebroso paese da pochissimo tempo, e,

fino allora, sempre in mezzo ad altri bianchi, sotto l’occhio e la

guida dei superiori. E ora, per quanto insensibili al sottile influs-

so dell’ambiente circostante, si sentirono molto soli, lasciati così

all’improvviso ad affrontare la terra desolata; una terra desolata

resa più strana, più incomprensibile dai misteriosi indizi della

vita rigogliosa che conteneva.

Erano di quegli uomini insignificanti e inetti la cui esistenza è

resa possibile soltanto DALLA PERFETTA ORGANIZZAZIONE

DI FOLLE CIVILIZZATE. 

Pochi uomini si rendono conto che la loro vita, l’essenza stessa del

loro carattere, delle loro capacità e della loro audacia sono soltanto

l’espressione della loro fede nella sicurezza dell’ambiente.

Il coraggio, la calma, la fiducia; le emozioni e i princìpi; ogni pen-

siero grande e insignificante non appartengono all’individuo, ma

alla folla: alla folla che crede ciecamente nella forza irresistibile

delle proprie istituzioni e della propria morale, nel potere della

sua polizia e delle sue opinioni.

Ma il contatto con la pura, assoluta barbarie, con la natura e con

l’uomo primitivi, porta un turbamento subitaneo e profondo nel

cuore. Alla sensazione d’essere gli unici della propria specie, alla

chiara percezione della solitudine dei propri pensieri, delle pro-

prie sensazioni; alla negazione dell’abituale, che è sicuro, si ag-

giunge l’affermazione dell’insolito, che è pericoloso; un presen-

timento di cose vaghe, incontrollabili e repellenti, la cui sgrade-

vole intrusione eccita la fantasia e mette alla prova i nervi incivi-

liti tanto del folle quanto del savio.   

Kayerts e Carlier camminavano sottobraccio stringendosi l’un all’-

altro come fanno i bambini al buio; e avevano la stessa sensazione,

non del tutto spiacevole, di pericolo che sembra quasi immagina-

rio.

Chiacchieravano continuamente, in tono familiare.

– Il nostro scalo è in una bella posizione, disse l’uno.

L’altro assentì con entusiasmo, dilungandosi loquacemente sulle

bellezze del posto. 

Poi passarono accanto alla tomba.

– Povero diavolo!

disse Kayerts. 

– E’ morto di febbre, vero?

mormorò Carlier, fermandosi di botto. 

– Mah!

ribatté Kayerts, con indignazione.

– Mi hanno detto che si esponeva imprudentemente al sole!

Dicono tutti che il clima locale non sia peggiore di quello che

abbiamo in patria, a patto di tenersi lontano dal sole.

Capito, Carlier? Qui sono io il capo, e le ordino di non esporsi

al sole!

Assumeva la posizione di comando in tono scherzoso, ma l’in-

tenzione era seria. 

L’idea che forse avrebbe dovuto seppellire Carlier e restar solo gli

dava un brivido dentro.

Sentì improvvisamente che qui, nel centro dell’Africa, questo Car-

lier era più prezioso di quanto potesse essere un fratello in qualun-

que altro luogo. Carlier, entrando nello spirito della faccenda, fece

un saluto militare e rispose in tono allegro:

– I suoi ordini saranno eseguiti, capo!

Poi scoppiò a ridere, dette una manata sulle spalle di Kayerts e

gridò:

– Faremo in modo che la vita scorra tranquilla qui! Ce ne staremo

belli comodi a ricevere l’avorio che porteranno quei selvaggi.

Dopotutto questo paese ha i suoi lati buoni! Risero forte tutt’e

due, mentre Carlier pensava:

 – Quel povero Kayerts, è così grasso e così poco sano! Sarebbe

un bel guaio se dovessi seppellirlo qui. 

E’ un uomo che rispetto….

Prima di arrivare alla veranda della loro casa già si davano del

‘vecchio mio’. 

(J. Conrad, Un avamposto del progresso)

 

(Prosegue….)

 

 

 

 

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SECONDO SOGNO: ma gli androidi sognano pecore elettriche?

Precedenti capitoli:

Primo Sogno &

Old Ord river blues (la ballata di Reg) &

Le vie dei canti: ‘tutto si capovole, sai?’ (5)

Prosegue in:

Secondo Sogno: ma gli androidi sognano pecore elettriche? (2) &

Le vie dei canti: i nativi (7)

Foto del blog:

I nativi (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

Una notizia:

L’alluvione….

 

 

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Trovare parole nuove e con esse suscitare interesse, è impresa ardua,

più difficile di qualsiasi viaggio o esplorazione. E con esse far nascere

emozioni, sogni, speranze, e ricordi indelebili per la nostra memoria.

Tutte le emozioni di cui si è perso il senso, strada facendo.

Si, perché il sentiero in questi ultimi tempi, sembra che abbiamo smarrito.

Lo stesso del sommo poeta.

Ma ciò non è un limite discorsivo per il nostro errare nel grande mare del

sapere. Quanto è lieto, taluni ci insegnano, il ‘viaggio’ senza mèta tra tutti i

sentieri del mondo. Ed allora …. scordiamoci, nei frammenti di questa ‘av-

ventura’, di quell’intreccio di cavi, connessioni, fili, file, parole di accesso;

vetrine luccicanti che ci offuscano la vista con i loro colori ed i loro silenzio-

si rumori.

Scordiamoci per un attimo, se solo riuscissi nell’intento prefissato, a tanto

e troppo sapere, che scorre come un nuovo fiume …silenzioso e inganne-

vole,  per queste connessioni di mondi virtuali, non visti, non uditi, non assa-

porati. Mondi che ci aprono porte di nuove visioni, che diventano poi le no-

stre allucinazioni preferite del nuovo millennio. Non è facile trovare i tratti, le

sfumature, le pennellate, le parole, per intrattenere, stupire , interessare.

La diffidenza dell’uomo per tutto ciò che è semplice secondo gli antichi det-

tami della natura, è divenuto un paradosso degno di una scuola filosofica.

Non si vuole insegnare, ma per l’appunto attraverso il paradosso, solo mo-

strare….

Attraverso il ragionamento, solo stupire.

Così come la natura cui apparteniamo, che sembra non possedere il dono

della ragione, ma in realtà se ‘viaggiamo’ più nel profondo, potremmo con-

statare in ogni singolo processo e manifestazione della sua sostanza, dal

più semplice e immediato, al più complesso e lento nel tempo, adotta ciò

che pensiamo non appartenergli, per costruire opere di incomparabile me-

raviglia. Per innalzare queste meraviglie alla gloria della loro lenta progres-

sione ed evoluzione, devo innanzitutto analizzare questi nuovi mezzi di co-

municazione e riadattarli oppure se volete, rielaborarli e rapportarli nella loro

reale misura e dimensione. Al servizio del loro inventore, e mai il contrario.

Nell’abitacolo della macchina con cui viaggiamo non prestiamo grande at-

tenzione all’evoluzione del mezzo, che ci ha permesso, quasi con dispia-

cere, di lasciare il vecchio cavallo all’ultima stazione di posta. Non badiamo

alla dimensione della carrozza nella dimessa locanda, dove il pellegrino, ri-

posa i piedi malfermi, accanto a noi.

Cerchiamo solo di far parlare la ‘Natura’.

Di scorgere in lei ancora quella linfa vitale che ci spinge ancora avanti in

questo viaggio, e mai indietro, come qualcuno avrà sicuramente da obiet-

tare. Ma cantare la bellezza, ed il suo fascino, non è cosa facile. E’ una

vecchia scommessa, una vecchia guerra, una lotta dall’inizio della crea-

zione. Una lotta, qualcuno dice, per la sopravvivenza. Appunto, per soprav-

vivere ancora in questo mondo scelgo un itinerario per questo ‘viaggiare’

attraverso le sue meraviglie.  Ho imparato anche, ascoltando il suo lento

parlare, che il genio e la creatività risiedono nella capacità di creare que-

sta ‘navigazione’, questa ‘connessione’, questo intreccio di cavi e fili , che

può anche farci spazientire lungo il sentiero di questo ‘viaggio’ che inten-

do percorrere con voi.

….E dal banale elevato impropriamente ad universale, formulare o riformu-

lare l’universale per renderlo banale. Di modo che , in compagnia di questa

apparente banalità, suscitare interesse, non pedanteria, quella la dovrò su-

bire come amaro calice per avere osato tanto.

Ecco così delinearsi l’intento, ma renderlo palese  a quali ‘virus’ si espone la

mia modesta comprensione degli eventi e la capacità decifrarli o interpretarli,

nell’immensa cartina della vita.

L’ hard e il software .

A quali indici sarò costretto, a quali esami umiliato, ed a quali umiliazioni con-

dannato, affinché il silenzio imponga attraverso il rumore la sua tirannia?

Ora a distanza di tempo quando torno sugli stessi sentieri di questo grande

viaggio  l’immaginazione lascia spazio ai ricordi. E posso dire ed affermare

di aver compreso e capito più di quanto potevo solo immaginare quando ero

pronto alla banchina di imbarco con tanto troppo entusiasmo e una valigia

piena di libri.

Ho ascoltato i venti e le bufere.  I terremoti mi hanno piegato le ginocchia. Il

mare mi ha quasi affogato. Il deserto, la fame, la sete, mi hanno quasi ucci-

so. La calunnia ha affondato il coltello nelle carni. Il gelo mi ha tormentato.

Gli animali braccato. La neve mi ha coperto. Il caldo soffocato. Le urla tor-

mentato. Dei Santi mi hanno rincorso, dei papi minacciato. Le montagne

mi sono crollate ai piedi, mentre le certezze mettevano in dubbio. Sono

divenuto eretico, perseguitato, umiliato, deriso. Confuso .

Sono stato un morto, sono stato un rifugiato ed anche un perseguitato, per

questo viaggio….

Ma ora sono di nuovo seduto alla banchina, e guardo il piatto mare, da dove

vengo e dove torno. Non ho rimpianti, solo una gran voglia di percorrere le

stesse strade negate, di vivere nelle stesse terre conquistate, di respirare la

stessa aria di verità negata. Di attraversare gli stessi itinerari con parole nuo-

ve. Così mi sottometto di nuovo all’esame della vita ed alle sue difficili conqui-

ste, perché il lupo che è in me, quel lupo beffardo che recita solo per pazzi,

mi sprona e comanda, e così per questo mare devo ubbidire, se non a lui ai

suoi occhi. Se così non fosse, starei dall’altra parte di ogni scrivania, di ogni

bancone che incontro per questo sentiero. Accorto al cacciatore che ha an-

cora sete di sangue. Il buon pastore conduce il branco al macello e con es-

so tutta la terra dove beatamente e soavemente pascola, incurante poco del-

la storia ed il suo costante divenire agli stessi porti della vita.

Il buon pastore lo sento mentre si appresta al rito serale dello schermo.

Ci regala il suo sapere fatto di riti collettivi che scorrono immutati attraverso il

magico tubo parlante, mentre i figli del comunicatore di massa interagiscono

in una nuova allucinazione globale per una esplorazione. Per una informazio-

ne. Per una nuova guerra. Per un nuovo rogo della storia. Per una nuova me-

dicina. Per una nuova malattia. Per una nuova terapia. Per un nuovo blog. Per

un nuovo schermo ultrapiatto connesso tempo reale con lo show della storia.

Il mio intento poggia su una diversa presa di coscienza che puzza di utopia, e

che mira al vero.

E se nel desiderare tale intento , non ci poniamo in sintonia con il MACRO

COSMO non potremmo essere competitivi con i nuovi mezzi e metodi dell’-

informazione, né tantomeno riusciremmo ad essere più competitivi rispet-

to ad essa o almeno ad un aspetto di essa, né tantomeno più interessanti,

né riusciremmo ad innescare quell’interesse per questo ‘viaggio’ virtuale at-

traverso il sapere, non un aspetto ma a molti di esso, ed a cui per nostra (o

forse loro…) cultura non prestiamo più attenzione.

Questo nuovo viaggiare , che qualcuno ha definito una summa di sapere

mondiale è oramai universale. Quale fascino suscita la visione di eventi

reali e artificiali sullo schermo, ma soprattutto, quale fascino quando pos-

siamo anche interagire nell’illusione di un Universo a portata di mouse .

Questo è un aspetto del computer.

 

In che cosa consiste questa famosa distinzione tra software e hardware?

E’ la distinzione tra programmi e macchine, tra le lunghe e complicate se-

quenze di istruzione e le macchine fisiche che le eseguono. Mi piace figu-

rarmi il software come qualunque cosa si possa inviare attraverso una li-

nea telefonica e l’hardware come qualunque altra cosa .

Un pianoforte è hardware, mentre la musica stampata è software; un appa-

recchio telefonico è hardware, mentre un numero telefonico è software. La

distinzione è utile , ma non sempre è così netta.

Anche noi uomini abbiamo aspetti di software e aspetti di hardware e la dif-

ferenza è per noi una seconda natura.

Siamo avvezzi alla rigidità della nostra fisiologia. Non possiamo curarci a

nostro piacimento dalle malattie o farci crescere i capelli di un colore a no-

stra scelta, tanto per citare un paio di semplici esempi. Tuttavia possiamo

riprogrammare la nostra mente in modo da operare all’interno di quadri

concettuali nuovi. La sbalorditiva flessibilità della nostra mente sembra qua-

si inconciliabile con l’idea che il nostro cervello consista necessariamente

di un hardware con regole fisse che non può essere riprogrammato. Non

possiamo far si che i nostri neuroni scarichino più in fretta o più lentamen-

te, non possiamo rifare i circuiti del nostro cervello , non possiamo riproget-

tare l’interno di un neurone , non possiamo fare alcuna scelta concernente

l’hardware ….. eppure riusciamo a controllare il nostro pensiero.

Vi sono tuttavia , evidentemente aspetti del pensiero che sfuggono al no-

stro controllo. Non possiamo diventare intellettualmente più brillanti con un

atto di volontà,  non riusciamo a pensare più rapidamente di quanto facci-

amo; non siamo in grado di pensare a più cose allo stesso tempo.

Si tratta di un genere di conoscenza di sé primordiale così ovvia che è per-

sino difficile accorgersene; è come rendersi conto che c’è l’aria. Non ci cu-

riamo mai di riflettere a fondo su quale potrebbe essere la causa di questi

difetti della nostra mente; cioè di riflettere sull’organizzazione del nostro

cervello.

(D.R. Hofstadter – Godel , Escher , Bach)

 

A quella conoscenza primordiale presteremo gran parte dell’attenzione.

Non tanto come catturare in maniera subliminale lo stupore e l’interesse

altrui, ma quanto di esso viene disperso e assorbito dalle stesse cellule

neurali, che sono abilitate ad un altro studio di segnali visivi, e di cui par-

la ampiamente anche Hofstadter. Pur rimanendo ancora un Universo

sconosciuto, il nostro cervello agisce con meccanismi precisi di defini-

zione dei compiti. Queste definizioni stanno mutando i loro linguaggi ed

i meccanismi per codificarli. Non solo il linguaggio, ma anche le capaci-

tà e tecniche di apprendimento stanno ridefinendo i loro contenuti, per

essere successivamente interpretati con una nuova predisposizione in-

tellettuale, che richiede un approccio diverso delle stesse, di cui per no-

stra natura e evoluzione siamo dotati.

Il linguaggio è un esempio e con esso anche la scrittura.

Ai primordi di essa vi era il simbolo o l’icona. Quei tratti comuni che pos-

siamo rilevare come testimonianza dei trascorsi in tutte quelle caverne

dove abbiamo lasciato testimonianza del nostro passaggio .

 

…..Data l’immensità e il continuo aumento del repertorio di simboli esisten-

te in ogni cervello, ci si può domandare se giunga mai il momento in cui il

cervello sia saturo, in cui cioè non vi sia più posto nemmeno per un solo

simbolo nuovo. Ciò potrebbe accadere, presumibilmente, se i simboli non

si sovrapponessero mai l’uno all’altro, cioè se un neurone non esplicasse

mai una doppia funzione. Allora i simboli sarebbero come le persone che

entrano in un ascensore – Attenzione:  questo cervello ha una capacità

massima di 350.275 simboli !

( D.R. Hofstadter – Godel , Esher , Bach )

 

Appunto il simbolo, ma cosa è quel groviglio enorme ed infinito che talvol-

ta il cervello non abituato deve saper riconoscere, usare, e spesso deci-

frare?

In questo nuovo mondo di sapere, dove viaggiare è sinonimo di padronan-

za, il simbolo ha mutato forma e aspetto cambiando i codici stessi del lin-

guaggio. L’immediatezza e l’affinità con questi strumenti consente diverse

misure del tempo nell’ambito della comunicazione e non solo, dandoci l’il-

lusione di un nuovo potere e di un nuovo traguardo.

La clessidra ed il lento scorrere del tempo in essa ha lasciato spazio all’-

èra del nucleare dell’orologio atomico .

 

…. Da un lato meraviglia il fatto che nessuno avesse mai tentato prima

un’analisi strutturale globale dell’arte sulla base di una grammatica, ovve-

ro di una tipologia dei segni , di una sintassi dei sistemi di associazione

tra i segni.

 

(Prosegue)

 

 

 

 

 

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OLD ORD RIVER BLUES (la ballata di Reg…)

Precedenti capitoli:

Frammenti di un sogno &

Le vie dei canti: ‘tutto si capovolge, sai?’ (5)

Prosegue in:

Primo Sogno &

Le vie dei canti: i coloni (6)

Foto del blog:

Old Ord river blues (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

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Seduto sulla veranda della sua modesta casa su una collina

sopra Wyndham, Reg Birch guardò verso l’Universo, gli occhi

messi a fuoco sul Tempo del Sogno.

Dietro di lui sul muro esterno della casa, fatto di fogli di lamiera

ondulata, c’era un dipinto realistico, molto ben realizzato, di una

donna aborigena che sbircia da dietro le tende di una finestra.

In lontananza, mentre stavamo salendo per la strada, sembrava

che qualcuno fosse in piedi alla finestra.

 

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Reg sorrise e spiegò: ‘Ho dipinto un ingresso lì, proprio sul muro

frontale della casa: una porta aperta con un uomo in piedi che

guarda fuori. In effetti, una immagine di me stesso. Visto da lag-

giù dalla strada principale, sembra vero. Fa in modo che i bambi-

ni e gli estranei non vengano quassù a ficcare il naso dappertut-

to quando non sono in casa, sai.

Ogni tanto rifaccio il dipinto così per mantenerli nel dubbio’.

Reg sembrava una persona diversa quassù, lontano dai pallidi

confini del suo ufficio di funzionario a Kununurra. Si era verificata

una sottile trasformazione. In qualche modo sembrava fisicamen-

te più grande, più a suo agio e meno formale, e certamente più fe-

lice, addirittura sereno.

 

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Una rozza camicia grigia da lavoro e dei pantaloni sciupati aveva-

no preso il posto della ordinata ‘divisa’ dell’impiegato statale di ieri.

E i suoi piedi erano beatamente nudi. In grembo teneva amorevol-

mente una chitarra, che strimpellava senza pensare mentre sten-

deva appunti con una matita su un grosso notes al rotondo tavolo

bianco in plastica davanti a lui.

‘Stai scrivendo una canzone, Reg?’, chiese Mike mentre ci avvici-

navamo. ‘No, no… sto solo cercando le parole di una canzone che

ho scritto alcuni anni fa. Ho provato a cantarla ieri sera, e mi sono

accorto che avevo dimenticato alcune strofe. Perciò la sto scri-

vendo giù per intero. Mi sta ritornando in mente’, disse. ‘Solo oc-

corre sforzarsi mentalmente un po’ di più dopo tutti questi anni’.

 

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‘Belli gli accordi che stai suonando. Che canzone è, Reg?’.

‘Oh, solo qualcosa che ho scritto per un concorso locale di qual-

che anno fa. Era una rassegna riguardante il fiume Ord, e tutte le

canzoni in gara dovevano essere intitolate ‘Canzone dell’Ord’.

Il vero scopo era celebrare il fiume, quanto è bello eccetera.

Una specie di trovata pubblicitaria per i turisti, sai?

Ma io volevo scrivere ciò che era il vero problema dell’Ord – alme-

no come io lo vedo – cioè il modo in cui noi l’abbiamo quasi distrut-

to.

Così ho intitolato la mia ‘La vera canzone dell’Ord’.

‘Potresti cantarne alcuni brani, Reg?’.

‘Ho una voce terribile’, disse scusandosi, appoggiando le dita sul col-

lo. ‘Mi sono ferito alla gola anni fa mentre ero a caccia di coccodrilli…’.

 

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Che cosa hanno fatto al nostro fiume,

Caro portatore di vita su questa terra?

Una volta così maestoso e terrificante,

Ora strozzato, congestionato, e disonorato.

 

Dovremmo essere condannati e seppelliti

Per aver manomesso la Terra di Dio…

Dacci una possibilità di recuperarti.

Non sei escluso dalla rinascita.

 

(H. Arden, Custodi del sogno)

 

(Prosegue…)

 

 

 

 

 

The Ord River in the Kimberley Wet Season, East Kimberley, Western Australia.

FRAMMENTI DI UN SOGNO

Prosegue in:

Primo Sogno: il principe delle tenebre nel suo regno  &

Le vie dei canti

Foto del blog:

Le vie dei canti  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

 

 

 

 

Riuscivo a malapena a capire qualcosa di quello che mi

diceva Danny Wallace, e ciò, suppongo, era provviden-

ziale.

C’è qualcosa di buono nella mancanza di comunicazione.

Certe cose è meglio non conoscerle.

Ecco, uno dei miei ‘soggetti’ stava finalmente raccontando-

mi delle storie del TEMPO DEL SOGNO, ed io riuscivo ad

afferrare solo dei frammenti di quello che diceva.

Anche ascoltando e riascoltando la registrazione (o rileggen-

do quelle parole) della nostra conversazione, riesco solo ad

individuare degli allettanti pezzetti qua e là.

Mike, il cui orecchio è abituato da tanto tempo alle diverse

varianti dell’inglese aborigeno, aveva anche lui dei proble-

mi.

Quando gli chiedevo quello che aveva detto Danny (o dove

si trovava…), scuoteva la testa e si concentrava di nuovo sulle

ingarbugliate parole dell’aborigeno.  

Diverse volte pensai di avere sentito Danny dire ‘Wandjina’

ma Mike insistette nel sostenere che non aveva pronunciato

mai quella parola.

– No, credo che sia il nome di qualche uccello del Tempo del

Sogno. A dire la verità, amico, non sono sicuro nemmeno io.

Ed era così.

Comunque, sebbene le frasi di Danny fossero frammentate e

procedessero a ruota libera, senza dubbio ne ho colto il sen-

so. Trovo in esse un certo significato drammatico e una poe-

sia essenziale, e le riporterò nel migliore dei modi possibile.

Quando arrivammo ad Emu Creek, un insediamento abori-

geno composto da circa una decina di piccole costruzioni,

Danny stava seduto su una coperta con alcune donne e bam-

bini piccoli. Una mezza dozzina di cani oziavano docilmente

ai loro piedi nella polvere rossa.

Danny si alzò per salutarci, un grosso uomo a forma di pera 

con un volto gentile ed una corta barba bianca. Dicendo alle

donne qualcosa come ‘faccende da uomini’ ci condusse per

una ventina di metri oltre la recinzione sino ad una striscia

d’ombra sotto alcuni eucalipti, dove rimanemmo in piedi a 

parlare nel caldo brulicante di mosche. Avevo saputo da

Mike che Danny era un rispettato Uomo della Legge, cono-

sciuto come uno che era ben informato su tutti i luoghi sa-

cri della zona.

– Le compagnie minerarie vanno da lui per sapere dove si

trovano i luoghi del DREAMING in questo territorio. In que-

sto modo possono evitare di offendere la gente della zona.

E’ vero, Danny?

– Oh, sìì. Tipi della mineraria. Loro vengono da me. Io cono-

sco questo territorio. Completamente. Una volta lo giravo tut-

to a piedi sai? Conosco ogni luogo.

Usciamo con l’elicottero. Trovare luoghi sacri. Conosco tutti i

luoghi del Tempo del Sogno della zona.  So dove si trovano.

I tipi della mineraria, vengono a chiedermi di quella collina

laggiù.

Quella grande collina.

Indicò una montagna in lontananza.

– C’è una storia del Tempo del Sogno che riguarda quella col-

lina, Danny?

– Oh, sìì. Storie del Tempo del Sogno in ogni luogo. Conosco

le storie. Non sono mie ma io le conosco. I vecchi me le raccon-

tano.

Loro si recano ancora là, sai.

– Loro?

– Quei vecchi, quelli che crearono le colline. Aquila, sai. E l’-

airone bianco. Loro stanno ancora viaggiando là, creando il

paese.

– Ancora? Vuoi dire…. ora?

– Sìì. I tipi della mineraria, stanno cercando dei campioni las-

sù. Vogliono che io li conduca.

– Che cosa stanno cercando?, chiesi.

– Non lo so. Potrebbe essere diamanti o qualchecos’altro.

– Non te lo dicono?

– No, no…. stanno comunque raccogliendo dei campioni.

– Gli fai vedere dove si trovano tutti quei luoghi sacri?

– Sìì.

– Perciò quella montagna è un luogo sacro?

– Sìì. Noi non vogliamo che si scavi sopra un luogo sacro.

– Li teniamo lontani da lì. Dal Tempo del Sogno, sai? Dal

Tempo del Sogno dove loro prima stavano viaggiando.

– Chi sono loro?

– Lui un’aquila… aquila reale. Lui una roccia qualche volta.

Una gru bianca, sai?

L’aquila si prende un wallaby. Roccia wallaby… in quel po-

sto, dentro.

– Quale posto?

– Roccia wallaby.

– Sì?

– Sìì. E anche il canguro. Lui ha messo un fuoco dentro quel-

la gru bianca. L’ha fatto il rock wallaby. E lui uscire proprio in

cima a quella collina. Proprio in cima. E’ venuto fuori là.

– Il rock wallaby?

chiese Mike.

– No, l’aquila….. Lui avere quella cosa, quell’osso, sai? Ha pre-

so quell’osso. Tanto tempo fa nei primi giorni. Quella collina lì.

– Allora quello è un posto speciale, quella collina?

(H. Arden, Custodi del sogno)

(Prosegue…)

 

 

 

 

 

 

frammenti di un sogno