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Fu la Holliday a introdurlo nuovamente nel mondo del cinema, procurandogli anche,
in uno dei suoi film, una piccola parte, che non sarebbe stata l’unica esperienza del
genere. Quanto alla musica, per qualche tempo Mulligan sembrò esserne scarsamente
attratto: la formula del quartetto non gli offriva nuovi sbocchi e il progetto che
accarezzava da anni, quello di metter su una grande orchestra, lo intimoriva.
Poi, nel marzo 1960, si decise a varare la ‘big band’ dei suoi sogni, riunendo
una formazione non troppo diversa da quella che aveva già diretto, in uno
studio di registrazione della Columbia, nel 1957.
La nuova orchestra avrebbe fatto soltanto musica da ascoltare: per questo fu
chiamata Concert Jazz Band.
Fu presto chiaro che si trattava di un’espansione della concezione musicale
mulliganiana che si era espressa nei piccoli complessi. Anche in quell’orchestra si
conciliavano sostificazione armonica e forza ritmica, semplicità e complessità, e i
facili effetti erano severamente banditi. Gli arrangiamenti che la Concert Jazz Band
eseguiva non facevano ricorso neppure alla tradizionale contrapposizione delle
sezioni delle ance e degli ottoni, e rifuggiavano dagli squillanti collettivi e dall’uso
dei riffs in funzione di eccitante. Si trattava insomma di una formazione di studio
riservata ai buongustai piuttosto che di un’orchestra da palcoscenico. Secondo l’
opinione di molti, fu la più interessante big band di jazz degli anni 60: sicuramente
fu la più originale e la più aristocratica.
‘Io volevo ottenere la stessa chiarezza di suono e lo stesso intreccio delle linee
melodiche che avevo nei complessi più piccoli’. Dichiarò Mulligan, ‘Il clarinetto
che abbiamo non serve per condurre la sezione dei sassofoni ma contribuisce col
suo suono all’insieme in generale. Per quanto riguarda i solisti, io intendo servirmi
di pochi uomini per la maggior parte degli assoli, perché possano essere ascoltati
abbastanza a lungo da diventare familiari al pubblico’. In altra occasione precisò,
‘Io assegno a ciascuno una parte melodica senza provarmi a combinarle in armonia.
Il mio modo di vedere il ruolo dei solisti nell’orchestra è rigorosamente limitativo.
C’erano quattro solisti nel mio sestetto, e non ce sono più di quattro nella Concert
Jazz Band: tromba, tenore, Brock e io. Fin da principio ho voluto dare all’orchestra
una fisionomia precisa. Ho visto troppe orchestre sparpagliare gli assoli al punto
da lasciar suonare praticamente tutti’.
Benché fosse molto orgoglioso della sua ‘big band’, che rappresentò il coramento
delle sue aspirazioni e resta, a tutt’oggi, il punto più alto raggiunto nella sua
carriera, Gerry scrisse per essa poche partiture. Di norma si limitava a supervisionare,
ritoccandoli qua e là, gli arrangiamenti che gli sottoponevano i suoi uomini di fiducia:
Bob Brookmeyer e Bill Holman, anzitutto e poi Johnny Mandel, Al Cohn, George
Russell, Johnny Carisi, e un giovane arrangiatore da lui stesso scoperto e che avrebbe
fatto strada: Gary McFarland. Quanto ai solisti, gli uomini chiave erano Brookmeyer,
Zoot Sims, i trombettisti Clark Terry e Don Ferrara, il trombettista Willie Dennis, il
batterista Mel Lewis, oltre naturalmente allo stesso Mulligan che di tanto in tanto
abbandonava il sassofono per suonare il clarinetto e qualche volta il piano.
La Concert Jazz Band si esibì con successo al Festival del jazz di Newport, di cui
Mulligan era stato fin dall’inizio, e sarebbe stato per anni, un ospite immancabile,
e diede molti concerti, ma nei quattro anni in cui fu attiva – dal 1960 al 64 – ebbe
una vita intermittente e non facile, anche se tutt’altro che ingloriosa. Uno dei
momenti di gloria fu la tournée che compì in Europa nel novembre del 60,
durante la quale – a Milano e a Berlino – furono registrati dei brani pubblicati poi
su disco.
Di quell’orchestra in Mulligan, restò una profonda nostalgia, e per i cultori del
jazz alcuni eccellenti dischi Verve, il primo dei quali fu registrato fra la primavera
e l’estate del suo primo anno di vita, e l’ultimo nel dicembre 1962. La sempre più
saltuaria attività della Concert Jazz Band consentì al suo direttore di riunire ancora,
e più volte, dei piccoli complessi. Quando poi l’orchestra fu sciolta definitivamente,
si capì che qualcosa in lui si era spezzato. All’entusiasmo di un tempo era subentrata
una certa apatia, che durò a lungo. Qualche avvenimento degli anni che seguirono
interessa più il cronista che lo storico del jazz.
(A. Polillo, Jazz)
Da http://giulianolazzari.myblog.it