L’UOMO E LA NATURA (3)

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Negando l’immortalità alle bestie,                                        masaccio-cacciata.jpg

il cartesianesimo sopprimeva tutti

i dubbi che potevano sussistere

circa il diritto dell’uomo a sfruttare

gli animali.

Infatti, come osservavano i cartesiani,

se gli animali avessero veramente una

parte immortale, sarebbe impossibile

giustificare le libertà che gli uomini

si prendevano con loro; e se si

concedessero agli animali delle

sensazioni, il comportamento

umano apparirebbe intollerabilmente

crudele.

Il commento di Locke era il seguente:

l’idea stessa che una bestia potesse avere

dei sentimenti o possedere un’anima

immortale aveva talmente turbato

certe persone che queste avevano creduto che fosse giusto concludere che tutte

le bestie erano macchine perfette piuttosto che accordare l’immortalità alle loro anime.

(……) Lo scopo esplicito di Cartesio era stato quello di rendere gli uomini ‘signori e

padroni della natura’. Ciò s’adattava perfettamente con il suo progetto di dipingere

le altre specie come inerti e prive di ogni dimensione spirituale. In tal modo egli

creava una frattura assoluta tra l’uomo e il resto della natura, aprendo così la via,

in maniera estremamente soddisfacente, all’esercizio illimitato dell’autorità umana.

(…….) Eppure Cartesio s’era limitato a portare alla sua conclusione logica il rilievo

dato dagli europei all’abisso che separa l’uomo dalla bestia. Un Dio trascendente,

esterno alla sua creazione, è il simbolo della separazione tra lo spirito e la natura.

L’uomo sta all’animale come il cielo alla terra, l’anima al corpo, la cultura alla

natura. Tra l’uomo e la bestia esisteva una differenza totale di qualità. In Inghilterra

la teoria dell’unicità dell’uomo era proclamata dall’alto di ogni pulpito.

John Evelyn udì nel 1659 un sermone in cui si diceva che l’uomo era ‘una creatura

di composizione diversa da quella degli altri animali; sia per l’anima sia per il corpo;

come l’uno dovesse essere soggetto all’altra’.

Nel 1638 il Decano di Winchester concedeva che gli animali avessero certe qualità

umane, ‘sebbene in maniera inferiore’, ma denunciava come ‘una pericolosa immaginazione’

l’idea che animali e uomini fossero perciò la stessa cosa. Questo tema fu ribadito

per tutto il 700.

(……) Erano considerati più di tutti simili agli animali coloro che vivevano ai margini

della società: i pazzi che sembravano possedere e posseduti dalla bestia selvaggia che

era in loro, e i vagabondi, che non seguivano nessuna vocazione ma vivevano ‘una vita

da bestia’, secondo la definizione del puritano William Perkins. Qualcuno ha giustamente

detto che sul manicomio aleggiava l’immagine dell’animalità, e la stessa immagine percorre

le accuse mosse in quel tempo ai vagabondi, che non ‘si sistemavano in famiglie,

ma si associavano come bestie’.

Anche i mendicanti erano simili alle bestie brute poiché passavano tutta la giornata

in cerca di cibo. Una volta percepiti come bestie, come tali potevano essere trattati.

L’etica della dominazione dell’uomo escludeva gli animali dalla sfera delle preoccupazioni

umane, ma legittimava il maltrattamento di quegli esseri umani che si supponeva

vivessero nelle condizioni di animali.

Nelle colonie, il trattamento riservato agli uomini che si ritenevano simili alle bestie era

la schiavitù, con i suoi mercati, la marchiatura a fuoco e il lavoro senza tregua.

(Keith Thomas, L’uomo e la natura)

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