Quando un incomprensibile impulso a scrivere mi mise per la
prima volta la penna in mano per imbastire in forma di discorso
le mie idee, il teatro mi si presentò come primo bersaglio per quella
che molti hanno qualificato come la mia mordace maldicenza.
Non so se a un’attenta considerazione l’umanità abbia diritto a
lamentarsi di ogni tipo di critiche, né se di essa si possa dire tutto
il male che merita, ma poiché ci sono migliaia di pseudo-filantropi
che difendendo l’umanità pare che vogliano indennizzarla del fatto
di esserne componenti, non insisterò in questa riflessione.
Dal cosiddetto teatro per antonomasia mi lasciai scivolare dolcemente
verso il vero teatro: quella moltitudine in costante movimento, quella
società dove senza prove né previo avviso di cartelloni, e a volte in
modo gratuito quanto vano, si rappresentano tanti ruoli fra loro così
diversi.
Vi feci la mia discesa, e posso assicurare che comparando questo teatro
al primo non poté che venirmi l’idea che quello era più consolante di
questo.
Perché, a essere sinceri, è triste contemplare sulla scena la civettuola,
l’avaro, l’ambizioso, la gelosa, la virtù decaduta e vilipendiata, gli
incessanti intrighi, il crimine regnante e talvolta trionfante; ma uscendo
da una tragedia per rientrare nella società si può almeno esclamare
‘tutto ciò è falso, è pura invenzione, è un evento forgiato per divertirci’.
Nel mondo è tutto il contrario : l’immaginazione più accesa non riuscirà
mai ad abbracciare tutta l’orribile realtà.
(Mariano José De Larra, Un condannato a morte, Colonnese ed.)