UNA LETTERA

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Io, non meno per il mio senso morale, che per l’accordo pattuito, finché

questo si conservò, ho sempre mantenuto fede al mio proponimento in

una costante coerenza di pensieri, come è risultato chiarissimo da molti

fatti.

Fin da quando mi hai nominato Cesare e mi hai gettato nell’orrendo fragore

delle battaglie, soddisfatto del potere conferitomi, io, come un subalterno

fedele, ho profuso alle tue orecchie annunci frequenti di successi corrispondenti

alla mia morale, senza ascrivermi alcuna gloria nei pericoli, sebbene da numerose

prove risulti che, la tua corte è un crogiolo di corruzione, mentre i Germani alla

rinfusa si erano sparsi largamente nel territorio, io sono sempre stato primo nell’

affrontare le fatiche, ultimo a prendermi un poco di sollievo.

Ma, lascia che io lo dica con tua buona venia, se ora, come tu pensi, si sono fatte

delle novità, il motivo è che i soldati, logorando senza risultato la loro vita in

numerose ed aspre guerre, hanno attuato quello che avevano deliberato già

da un pezzo, irritati ed intolleranti di un capo di secondo grado (ed incapace),

prevedendo di non poter ottenere da un semplice Cesare alcuna ricompensa

in cambio delle continue fatiche e poi ‘comunque’ delle ripetute vittorie.

(Giuliano a Costanzo, L’epistolario di Giuliano Imperatore)

 

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UNA LETTERA

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(Dopo…anni, secoli, millenni di storia, rileggo una delle tante lettere

scritte, e capisco che allora, caro amico, eravamo un Impero, uomini

convinti delle proprie ragioni di grandezza, potenza, immortalità,

infallibilità, poi nella crescita esponenziale dell’uomo, quell’avvicinarsi

alla cosa prima della nostra venuta …non su una terra nuova, ma

bensì su questa terra così imperfetta, mi rende partecipe che non uno,

ma tutti i motivi spirituali e le esigenze dell’anima sono in pericolo,

…ed il cieco ed inutile fondamentalismo e la sua grandezza e brama

di potere, sono come un nuovo Impero; ma comprendere ed unire ad

una pacifica convivenza…, anche se la cosa parrà impossibile, è il sogno

più grande e duraturo di un governante. Se motivi e ragioni di una fede

possono far apparire il sogno impossibile, credo che la capacità di

riconoscere in quelle che più temiamo, connessioni di reciproca unione

e corrispondenza che annullano e mortificano, di conseguenza, le contraddizioni

di ogni cieco ed assoluto fondamentalismo, possano ristabilire e rinvigorire

il filo storico che le deve congiungere ad un unico fine di speranza e salvezza,

tutto il resto è manipolo di fanatici al soldo di chissà chi….

Valorizzare i legami non può che rendere il nostro compito vero, assoluto,

indelebile, e duraturo, motivo ora del vero Impero…della pace, conoscenza,

uguaglianza, fratellanza.

E’ questa la vera guerra, la vera battaglia più dura da combattere, senza armi,

senza violenza, senza odio, senza discriminazione, la guerra più difficile,

più impegnativa, perché nessuna arma è in grado di affrontare senza il

il dono della conoscenza, nemici figli di quelle tenebre, che io e te

combattiamo da sempre. Per il resto grazie per la tua attenzione e

rinnovo la nostalgia per la tua bella e fertile terra.

Proseguo ora il mio racconto, le mie…memorie. Che da esse si possano

imparare i motivi della pace, giammai della discordia…, eravamo come

fanciulli allora. Siamo uomini ora! Un domani…)

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Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici

dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso.

Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o

il riso lascivo e insolente d’un paggio; l’imperatore, posando sul tavolo una

mano sempre più malferma, murato in un’ebrezza in parte simulata,

sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell’Asia, sprofondava gravemente

nelle sue visioni.

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Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi,

m’avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là

del Caucaso le vie settentrionali dell’Asia. Quell’incantesimo al quale l’imperatore

ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l’aveva

subito prima di lui; egli aveva realizzao pressappoco gli stessi sogni, e ne

era morto, a trent’anni. Ma l’insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva

appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni

pratiche per giustificare l’assurdo, per indurre all’impossibile. Da secoli

ci preoccupava il problema dell’Oriente; sembrava naturale risolverlo una

volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l’India e con il misterioso

paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli

esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei

Parti. Una volta annientato l’impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsadici,

avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l’Asia

unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient’altro che una provincia

di più. Il porto di Alessandria d’Egitto era l’unico dei nostri sbocchi verso

l’India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì ci

trovammo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle

comunità ebraiche.

Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare

quella città insicura. Ma tutte quelle regioni non m’avevano persuaso

del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale

e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria,

creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso,

ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L’Asia, quel mondo

tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di

sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in

questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più

profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo.

Al di là dell’Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei

miraggi, le sabbie ove si affondava, le strade che finiscono senza

metter capo in nessun luogo.

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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UNA LETTERA

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Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano

mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi

della spedizione d’Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all’attacco

contro i Parti.

L’accompagnavo come sempre Plotina e la nipote Matilda, la mia indulgente

suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d’intendente. Celso,

Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici sedevano ancora nel Consiglio e

dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio

nel palazzo in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con

rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in

attesa che la guerra gettasse i suoi dadi.

L’esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso

la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili.

L’imperatore e il suo seguito fecero a Comagena una sosta di pochi giorni,

in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d’Oriente, riuniti a Satala, fecero

a gara per protetargli una lealtà sulla quale al posto di Traiano, non avrei

fatto troppo affidamento per l’avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più

pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d’una vasta incursione

militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della

Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar il re

d’Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L’imperatore tornò ad

Antiochia a occupare i suoi quartieri d’inverno, rinviando a primavera

l’invasione vera e propria dell’impero partico, ma già deciso a non

accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi

piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell’avventura, differita per

tanto tempo, restituiva una nuova giovinezza a quell’uomo di sessanta-

quattro anni.

Le mie previsioni, però, restavano cupe.

L’elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i

grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le

spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l’

imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell’imperatore, si verificò

una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore

d’una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di

Antiochia. Traiano, confuso per la caduta d’un trave, continuò eroicamente

a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi

furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili

del sinistro: l’imperatore, derogando per una volta dai suoi principi

di tolleranza, commise l’errore di lasciar massacrare un gruppo di

cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso questa setta,

ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini

torturati contribuì all’inasprimento degli spirti e rese più tetro quel

sinistro inverno (cercai di appellarmi ai mercenari Galli, gli unici in

quel periodo di cui veramente mi fidavo…).

Comunque mancava il danaro per sanare immediatamente gli 

effetti della sciagura: la notte, s’accampavano sulle piazze migliaia di

persone senza tetto. I miei giri di ispezione mi rivelavano l’esistenza

d’un sordo malcontento, d’un odio segreto e insospettato dagli alti

dignitari che imgombravano il palazzo, e con loro le pessime concubine.

E tra quelle rovine, l’imperatore proseguiva i preparativi per la campagna

imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di 

ponti mobili per traversare il Tigri……

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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UNA LETTERA

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(….So della tua solitudine, per cui ti scrivo, vorrei essere nei tuoi

bei luoghi, città, viali, musei…ma il male, un male antico, me lo

impedisce. Per cui ti scrivo. Il fine ultimo, sono convinto, ragione

e motivo di ogni Impero, è prodigarsi per il bene. La tua tradizione,

la tua asprezza, e anche quel sottile malessere di vivere, che ogni

tanto ti (e ci) coglie, non come un’angoscia, ma un qualcosa di incompiuto,

mi portano a ispirarti, a delegarti, per il fine e la nostalgia che mi lega

alla tua terra. I motivi della pace, della fratellanza, e…..dell’uguaglianza,

sono sensibili nel mio animo come un ricordo non del tutto espresso,

come un pensiero non del tutto svelato, come una nostalgia ancora

viva…, ma troppo spesso soffocata da futili motivi….)

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Poco a poco, questa lettera cominciata per informarti dei progressi del

mio male è diventata lo sfogo d’un uomo che non ha più l’energia necessaria

per applicarsi a lungo agli affari dello Stato; la meditazione scritta d’un

malato che dà udienza ai ricordi.

Ora, mi propongo ancor di più: ho concepito il progetto di raccontarti la

mia vita. Certo, l’anno sorso ho steso un resoconto ufficiale dei miei atti,

sul frontespizio del quale Flegone, il mio segretario, ha messo il suo

nome. Ivi, ho mentito il meno possibile. Tuttavia, ragioni di interesse

pubblico e di decoro mi hanno costretto a ritoccare alcuni avvenimenti.

La verità che mi propongo d’esporre qui non è particolarmente scandalosa,

o meglio non lo è se non nella misura in cui non c’è verità che non susciti

scandalo (ma tu sai quanto è difficile per ogni vallo, per ogni fine, porre

la sola ed unica lingua comprensebile: la pace…).

Non m’aspetto che i tuoi anni, pochi o tanti, che siano (l’insegnamento e

l’apprendimento talvolta si confondono reciprocamente), ne capiscano

qualcosa; ci tengo, tuttavia, a istruirti, fors’anche a urtarti. I precettori

che t’ho scelto io stesso ti hanno impartito una educazione severa,

sorvegliata, forse troppo protetta, dalla quale tutto sommato m’aspetto

un gran bene per te e per lo Stato, e non per altri che turbano la quiete

di quei bravi giovani che mi hanno fatto compagnia, con pacifica ed

inattesa ospitalità.

Qui, ti offro, a guisa di correttivo, un racconto scevro di preconcetti e

di astrazioni dall’esperienza d’un uomo, ….me stesso, riflesso in mille

volti differenti.

Ignoro a quali conclusioni mi trascinerà questo racconto.

Conto su questo esame dei fatti per definirmi, forse anche per giudicarmi

o, almeno, per conoscermi meglio prima di ……morire.

Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza

umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma

anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior

parte dei casi s’adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci

credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che

sorgono tra le righe.

Ho letto, più o meno, tutto quel che è stato scritto dai nostri storici, dai

nostri poeti, persino dai favolisti, nonché dai critici (la specie più rozza

ed..ignorante…), benché i penultimi siano considerati frivoli, e son loro

debitore d’un numero d’informazioni, forse, maggiore di quante ne

abbia raccolte nelle esperienze pur tanto varie della mia stessa vita.

La parola scritta m’ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press’a

poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno

insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini.

Viceversa, con l’andar del tempo, la vita m’ha chiarito i libri.

Ma questi mentono, anche i più sinceri.

Infatti i meneno abili, in mancanza di parole e di frasi nelle quali racchiuderla,

colgono, della vita, un’immagine povera e piatta; altri come Lucano,

l’appesantiscono, l’ammantano di una dignità che non possiede. Altri

ancora, al contrario, come Petronio, l’alleggeriscono, ne fanno una palla

vuota e saltellante, che è facile prendere e lanciare in un universo senza

peso. I poeti ci trasportano in un mondo più vasto, o più bello, più

ardente o più dolce di quello che ci è dato; per ciò appunto, diverso,

e, in pratica, pressoché inabitabile. I filosofi sottopongono la realtà,

per poterla studiare allo stato puro, press’a poco alle stesse trasformazioni

che subiscono i corpi sotto l’azione del fuoco e del macero: di un

essere o di un avvenimento, quali li abbiamo conosciuti noi, pare

non sussista nulla in quei cristalli o in quella cenere. Gli storici ci

propongono una visione sistematica del passato, troppo completa,

una serie di cause ed effetti troppo esatta e nitida per aver mai

potuto esser vera del tutto (ecco perché bisogna cercare con assennata

pazienza le fonti e confrontarle fra loro…con assennata saggezza…),

….ma è quasi ora di cena, con umiltà in segreto ed in silenzio composto

andiamo a mangiare…il nostro umile pasto, poi riprendiamo….

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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