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Numerosi scienziati, pur propensi ad ammettere che anche gli animali posseggano
stati mentali, sono comunque scettici nei confronti dell’etologia cognitiva.
Si può leggere in tale concezione l’ansia per l’incapacità di ciascuno di conoscere gli
stati mentali altrui. Ansia che, nella sua forma più generale, rimanda al problema
tradizionale noto ai filosofi come il problema dei pensieri altrui.
Gli psicologi che studiano il comportamento umano rimuovono del tutto la questione
dello scetticismo riguardo al pensiero altrui nello stesso modo in cui i fisici
rimuovono lo scetticismo circa l’esistenza degli oggetti fisici indipendente dal
pensiero.
Circa il problema del pensiero delle altre specie vi è la frequente protesta contro
l’ingiustificato antropomorfismo che attribuisce stati mentali agli animali, ossia
contro l’interpretazione in termini di caratteristiche umane di ciò che non appartiene
alla specie umana.
L’accusa di antropomorfismo rimanda più al problema del pensiero delle altre specie
che al problema generico del pensiero altrui, poiché, per definizione, non si può
giudicare antropomorfica l’attribuzione di stati mentali ad altri individui della
specie umana.
Si può ricostruire nel modo seguente il ragionamento generale contrario alla
conoscenza scientifica del pensiero altrui:
– I fenomeni mentali sono fenomeni privati.
– I fenomeni privati non possono essere studiati scientificamente.
– Pertanto, i fenomeni mentali non possono essere studiati scientificamente.
Innanzitutto, si può osservare che le premesse di tale ragionamento si fondano sulla
particolare concezione che i fenomeni mentali siano ‘privati’. E’ pertanto lecito
chiedersi che cosa ciò significhi. Ovviamente, nessuno è in grado di osservare
direttamente gli stati mentali altrui, né di toccarli, udirli, sentirne il gusto o
l’odore. Ma nessuno è neppure in grado di percepire diettamente i quark.
Pertanto, se ‘privato’ significa ‘non direttamente percepibile’, allora anche i quark
sono fenomeni privati.
La conoscenza scientifica dei quark si fonda su ciò che i filosofi chiamano ‘interferenza
della spiegazione migliore’: la selezione delle ipotesi più plausibili tra le ipotesi
alternative rivali che spiegano i fenomeni osservabili. In mancanza di ulteriori
motivi contrari all’assunzione di un simile approccio ai fenomeni mentali, il solo
argomento della natura privata del pensiero non persuade.
Se ‘privato’ significa ‘direttamente percepibile soltanto dall’individuo che ne fa
esperienza’, allora l’inferenza per la spiegazione migliore sembrerebbe una strategia
praticabile. Infatti, tale interferenza non sarebbe una strategia possibile soltanto nel
caso in cui, per il suo carattere privato, uno stato mentale non influenzasse in alcun
modo la realtà esterna al soggetto che lo possiede.
Sebbene non vi siano ragioni di natura concettuale per cui gli stati mentali debbano
provocare conseguenze, ciò non significa che essi siano del tutto privi di conseguenze.
E nel caso ne avessero, dovrebbe essere possibile scoprire le caratteristiche di tali
stati mediante un’inferenza per la spiegazione migliore di quelle conseguenze.
Se ‘privato’ significa ‘che non comporta alcun tipo di effetti’, la prima premessa del
ragionamento è probabilmente falsa, mentre la seconda premessa è vera soltanto
se ‘privato’ ha quel significato. Pertanto, sia che sia falsa la prima o la seconda
premessa, il ragionamento è comunque erroneo. Dato che in questa sua versione
il ragionamento non dice nulla di specifico relativamente agli animali, esso
escluderebbe anche la possibilità di occuparsi degli stati mentali umani,
tesi quest’ultima che contrasta in modo netto con l’attuale scienza cognitiva.
Per quanto concerne gli animali, occorre prendere in considerazione la versione
più ristretta del ragionamento:
– I fenomeni mentali sono fenomeni privati.
– I fenomeni privati non possono essere scientificamente studiati negli animali.
– Pertanto, i fenomeni mentali non possono essere studiati scientificamente negli
animali.
Tale concezione si fonda sul luogo comune che l’incapacità degli animali di usare
il linguaggio fa sì che il loro comportamento non sia un criterio sufficientemente
discriminativo perché si attribuiscano loro veri e propri stati mentali.
Diversamente l’etologia cognitiva ha cominciato col porre, tra la motivazione e
l’azione, proprio quel pensiero relegato ai margini, conferendo all’animale uno
‘spazio interno’, che lo abilita a compiere delle vere e proprie operazioni mentali.
Si tratterebbe, forse, di una rivisitazione della psicologia intimista, per usare questo
termine nell’accezione più ampia, che ha come strumento principale l’introspezione?
Ahimè, se fosse così l’etologia cognitiva non avrebbe senso, perché l’animale non
parla e, di conseguenza, non può comunicarci quello che sente o quello che pensa.
Ma la psicologia cognitiva è tutt’altra cosa e decide che si può entrare nella scatola
nera del pensiero animale sperimentando se tra il suo voler fare e il suo fare,
tra l’imput e l’output, non ci siano delle rappresentazioni o delle elaborazioni.
Ragion per cui è l’intelligenza e non l’istinto che gli etologi cognitivi hanno chiamato
in causa.
Se un animale, all’interno di un territorio che ha percorso in lungo e in largo,
riesce a progettare delle scorciatoie, prima pensate e dopo messe in atto, significa
che è dotato di una rappresentazione topografica mentale, di una mappa cognitiva,
e quindi che non è una semplice macchina stimolo-risposta, e neppure una macchina
da accumulo energetico.
(Allen/Bekoff, Il pensiero animale)