VOLI ANIMALI: PENSIERI

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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Numerosi scienziati, pur propensi ad ammettere che anche gli animali posseggano

stati mentali, sono comunque scettici nei confronti dell’etologia cognitiva.

Si può leggere in tale concezione l’ansia per l’incapacità di ciascuno di conoscere gli

stati mentali altrui. Ansia che, nella sua forma più generale, rimanda al problema 

tradizionale noto ai filosofi come il problema dei pensieri altrui.

Gli psicologi che studiano il comportamento umano rimuovono del tutto la questione

dello scetticismo riguardo al pensiero altrui nello stesso modo in cui i fisici 

rimuovono lo scetticismo circa l’esistenza degli oggetti fisici indipendente dal 

pensiero.

Circa il problema del pensiero delle altre specie vi è la frequente protesta contro

l’ingiustificato antropomorfismo che attribuisce stati mentali agli animali, ossia 

contro l’interpretazione in termini di caratteristiche umane di ciò che non appartiene

alla specie umana.

L’accusa di antropomorfismo rimanda più al problema del pensiero delle altre specie

che al problema generico del pensiero altrui, poiché, per definizione, non si può

giudicare antropomorfica l’attribuzione di stati mentali ad altri individui della 

specie umana.

Si può ricostruire nel modo seguente il ragionamento generale contrario alla

conoscenza scientifica del pensiero altrui:

– I fenomeni mentali sono fenomeni privati.

– I fenomeni privati non possono essere studiati scientificamente.

– Pertanto, i fenomeni mentali non possono essere studiati scientificamente.

Innanzitutto, si può osservare che le premesse di tale ragionamento si fondano sulla

particolare concezione che i fenomeni mentali siano ‘privati’. E’ pertanto lecito

chiedersi che cosa ciò significhi. Ovviamente, nessuno è in grado di osservare

direttamente gli stati mentali altrui, né di toccarli, udirli, sentirne il gusto o

l’odore. Ma nessuno è neppure in grado di percepire diettamente i quark.

Pertanto, se ‘privato’ significa ‘non direttamente percepibile’, allora anche i quark

sono fenomeni privati.

La conoscenza scientifica dei quark si fonda su ciò che i filosofi chiamano ‘interferenza

della spiegazione migliore’: la selezione delle ipotesi più plausibili tra le ipotesi

alternative rivali che spiegano i fenomeni osservabili. In mancanza di ulteriori

motivi contrari all’assunzione di un simile approccio ai fenomeni mentali, il solo

argomento della natura privata del pensiero non persuade.

Se ‘privato’ significa ‘direttamente percepibile soltanto dall’individuo che ne fa

esperienza’, allora l’inferenza per la spiegazione migliore sembrerebbe una strategia

praticabile. Infatti, tale interferenza non sarebbe una strategia possibile soltanto nel

caso in cui, per il suo carattere privato, uno stato mentale non influenzasse in alcun

modo la realtà esterna al soggetto che lo possiede.

Sebbene non vi siano ragioni di natura concettuale per cui gli stati mentali debbano

provocare conseguenze, ciò non significa che essi siano del tutto privi di conseguenze.

E nel caso ne avessero, dovrebbe essere possibile scoprire le caratteristiche di tali

stati mediante un’inferenza per la spiegazione migliore di quelle conseguenze.

Se ‘privato’ significa ‘che non comporta alcun tipo di effetti’, la prima premessa del

ragionamento è probabilmente falsa, mentre la seconda premessa è vera soltanto

se ‘privato’ ha quel significato. Pertanto, sia che sia falsa la prima o la seconda

premessa, il ragionamento è comunque erroneo. Dato che in questa sua versione

il ragionamento non dice nulla di specifico relativamente agli animali, esso

escluderebbe anche la possibilità di occuparsi degli stati mentali umani,

tesi quest’ultima che contrasta in modo netto con l’attuale scienza cognitiva.

Per quanto concerne gli animali, occorre prendere in considerazione la versione

più ristretta del ragionamento:

– I fenomeni mentali sono fenomeni privati.

– I fenomeni privati non possono essere scientificamente studiati negli animali.

– Pertanto, i fenomeni mentali non possono essere studiati scientificamente negli

animali.

Tale concezione si fonda sul luogo comune che l’incapacità degli animali di usare

il linguaggio fa sì che il loro comportamento non sia un criterio sufficientemente

discriminativo perché si attribuiscano loro veri e propri stati mentali.

Diversamente l’etologia cognitiva ha cominciato col porre, tra la motivazione e

l’azione, proprio quel pensiero relegato ai margini, conferendo all’animale uno

‘spazio interno’, che lo abilita a compiere delle vere e proprie operazioni mentali.

Si tratterebbe, forse, di una rivisitazione della psicologia intimista, per usare questo

termine nell’accezione più ampia, che ha come strumento principale l’introspezione?

Ahimè, se fosse così l’etologia cognitiva non avrebbe senso, perché l’animale non

parla e, di conseguenza, non può comunicarci quello che sente o quello che pensa.

Ma la psicologia cognitiva è tutt’altra cosa e decide che si può entrare nella scatola

nera del pensiero animale sperimentando se tra il suo voler fare e il suo fare,

tra l’imput e l’output, non ci siano delle rappresentazioni o delle elaborazioni.

Ragion per cui è l’intelligenza e non l’istinto che gli etologi cognitivi hanno chiamato

in causa.

Se un animale, all’interno di un territorio che ha percorso in lungo e in largo,

riesce a progettare delle scorciatoie, prima pensate e dopo messe in atto, significa

che è dotato di una rappresentazione topografica mentale, di una mappa cognitiva,

e quindi che non è una semplice macchina stimolo-risposta, e neppure una macchina

da accumulo energetico.

(Allen/Bekoff, Il pensiero animale)

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