GESTIONE DEI RIFIUTI 2

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Il sistema di gestione dei rifiuti dal decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22

 individua un quadruplice ordine di priorità che devono essere rispettate da parte

degli operatori del settore: prevenzione, riutilizzo (o reimpiego), recupero ed infine

smaltimento. Queste diverse attività risultano a loro volta disciplinate dagli articoli

3,4 5 del citato Decreto: la norma fondamentale è contenuta nell’articolo 4 relativo al

recupero di rifiuti, laddove si mette in evidenza che “ai fini di una corretta gestione dei

rifiuti le autorità competenti favoriscono la riduzione dello smaltimento finale dei rifiuti

attraverso: a) il reimpiego ed il riciclaggio; b) le altre forme di recupero per ottenere materia

prima dai rifiuti; c) l’adozione di misure economiche e la determinazione di condizioni di

appalto che prevedono l’impiego dei materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il

mercato dei materiali medesimi; d) l’utilizzazione principale dei rifiuti come combustibile

o come altro mezzo per produrre energia. Il riutilizzo, il riciclaccio e il recupero di materia

prima debbono essere considerati preferibili rispetto alle altre forme di recupero”.

Appare importante dunque distinguere tutte queste forme di gestione dei rifiuti preferite

allo smaltimento, in considerazione del differente ordine di priorità fissato tra le stesse.

Per i beni a fine vita in alternativa allo smaltimento il decreto Ronchi prevede quello che

possiamo definire il ‘recupero tout court’ ovvero le operazioni di cui all’allegato C del

D.Lgs 22/1997. Tale recupero può essere distinto in tre differenti operazioni, in ordine

di priorità: reimpiego o riutilizzo, riciclaggio e recupero di materia o di energia.

Con il termine reimpiego o riutilizzo si intende l’utilizzo -tal quale- e per lo stesso 

scopo per il quale era originariamente concepito, di un bene, che continuando ad 

esercitare la medesima funzione cui è destinato non entra nemmeno nel ciclo della

gestione dei rifiuti, in quanto nessuno -se ne disfa-, non integrando così una delle 

condizioni ex art. 6, lett.a) del decreto n.22/97, per qualificare giuridicamente un 

rifiuto.

Con il termine riiclaggio di rifiuti si intende invece quel tipo di recupero di materia

per l’ottenimento di un bene di uguale tipologia merceologia rispetto a quello originario.

Nel recupero di materia infatti, nella maggior parte dei casi non si ritorna alla stessa 

tipologia merceologica.

In discarica dovrebbero andare solo i rifiuti trattati e rifiutati individuati da apposite 

norme tecniche. Queste norme tecniche sono state recentemente emanate in recepimento

della nuova ‘direttiva discariche’ del Consiglio del 26 aprile 1999.

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GESTIONE DEI RIFIUTI

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Il D.L.vo n. 22/97 stabilisce una vera e propria gerarchia con precise priorità, nelle forme di 

gestione dei rifiuti. Pone, infatti, al primo posto il recupero ed il riutilizzo dei rifiuti come materiali

o prodotti; al secondo posto il recupero energetico ed in posizione residuale la discarica.

La riforma attribuisce quindi un peso rilevante, nella gestione dei rifiuti urbani, alla raccolta

differenziata, che rappresenta l’operazione preliminare, necessaria per realizzare un 

recupero dei materiali e della frazione organica.

Per la raccolta differenziata sono fissati degli obiettivi minimi obbligatori con media dell’ambito

territoriale ottimale. Mentre la riforma stabilisce che le tariffe della raccolta differenziata

devono essere calcolate in modo da risultare inferiori a quelle applicate per lo smaltimento 

dei rifiuti tal quali, stabilisce anche che negli ambiti territoriali ottimali dove non si

raggiungono gli obiettivi minimi della raccolta differenziata, sia aumentata la tassa

sui rifiuti che vanno in discarica.

La riforma prevede, inoltre, che il riutilizzo, il riciclaggio e il recupero di materia debbano

essere considerati preferibili rispetto al recupero energetico. Vi è peraltro da sottolineare

sul punto che a livello europeo il recupero di materiale e quello energetico sono posti

in realtà sullo stesso piano.

Questa scelta è valorizzata con una certa coerenza anche nel testo laddove si incoraggia 

la raccolta differenziata al recupero di materia. E’ da segnalare un recente intervento del

Parlamento con la legge 23 marzo 2001, n. 93, che ha eliminato l’esplicito riferimento 

nella definizione di raccolta differenziata alla finalità di recupero esclusivo di materia.

Tale modifica non è tuttavia sufficiente a modificare l’impianto della riforma: non è stata,

infatti, accompagnata da una revisione del testo ed in particolare della previsione della

priorità di recupero dei materiali della quantificazione del recupero degli imballaggi.

La priorità del recupero di materiale è essenziale per una ragione ambientale abbastanza

semplice: il riutilizzo del prodotto e il recupero della materia sono interventi di gestione

possibili con minori impatti ambientali e con minore consumo di risorse.

Avrebbe del resto poco senso fare una raccolta differenziata di materiali e poi inviarli

alla combustione.

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LA SCIENZA DEL DESIDERIO 3

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Nel Regno Unito, ad esempio, dal 1950 la disgregazione familiare è aumentata di

circa il 400%. Negli ultimi 20 anni dell’ultima parte del secolo scorso, la percentuale

di americani che definiva i propri matrimoni come ‘molto felici’ è calata drasticamente

e negli ultimi 50 anni, la fiducia e il senso di comunità tra la gente sono calati enormemente.

Alla metà del ventesimo secolo, oltre il 50% di tutti gli americani credeva che le persone

fossero ‘morali e oneste’. Nel 2000, la proporzione era calata a circa poco più di un

quarto e, nello stesso periodo, anche la partecipazione alle attività comunitarie e

sociali diminuì nettamente.

In altre parole, sembra esserci una correlazione tra la crescita dei consumi e l’erosione

delle cose che rendono felici le persone, in particolare le relazioni sociali. E’ evidente che

tale correlazione non significa necessariamente che ci sia un rapporto casuale tra i due

termini. Di fatto, come si escriverà più avanti, ci sono però ragioni più che solide per

considerare seriamente l’idea che le strutture e istituzioni necessarie a mantenere la

crescita erodano le relazioni sociali o, come sostiene l’economista Richard Layard, che

la crescita dei consumi abbia ‘portato un certo aumento della felicità, anche in paesi

ricchi, ma tale felicità aggiunta è stata annullata da una maggiore tristezza derivante da

relazioni sociali meno armoniose.

Un tragico risultato di questa inafferabile corsa alla felecità è che, sia ora sia per il

futuro, le società industriali stanno escludendo le possibilità che altre persone possano

condurre una vita soddisfacente, e non sono nemmeno in grado di offrir loro ricompense

nell’immediato. 

Il paradosso del benessere rende la domanda inevitabile: perché si continua a consumare?

Perché non si guadagna meno, si spende meno in modo tale da avere più tempo per la

famiglia e gli amici?

In questo modo, non si potrebbe vivire meglio, e più equamente, riducendo l’impatto

dell’umanità sull’ambiente?

Questa idea ha dato la motivazione a numerose iniziative che mirano a uno stile di

vita più semplice.

 ‘La semplicità volontaria’ è per certi aspetti una vera filosofia di vita.

Si ispira in gran parte agli insegnamenti del Mahatma Gandhi, che incoraggiava le

persone a ‘vivere semplicemente, cosicché gli altri possano semplicemente vivere’.

Nel 1936, uno dei discepoli di Ghandi descrisse la semplicità volontaria come ‘l’evitare

l’accozzaglia esteriore’ e la ‘intenzionale organizzazione della vita per uno scopo’.

(Tim Jackson, WorldWatch Institute)

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LA SCIENZA DEL DESIDERIO 2

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In una società dei consumi, tale contesa ha conseguenze materialistiche.

E’ come se gli individui tentassero di placare la propria ansia esistenziale attraverso gli

acquisti.

Secondo il punto di vista convenzionale, la ricetta del progresso è semplice: più si consuma,

più si diventa felici.

Un esame approfondito di ciò che motiva i consumatori rivela una vasta gamma di fattori,

famiglia, amicizia, salute, approvazione dei pari, comunità, scopo, noti per avere una forte

correlazione con la feliità di cui si dichiara di godere.

In altre parole, gli individui credono veramente che, attraverso i consumi, si ottengono

amici, comunità, senso del proprio scopo e così via. Ma ci troviamo di fronte a un paradosso

per certi aspetti tragico. Le persone conoscono bene le cose che le rendono felici, ma hanno

una scarsa comprensione di come fare a ottenerle. La tesi secondo cui sempre più consumi 

portano a un livello più elevato di benessere si rivela errata.

Avvelendosi di dati raccolti si è verificata l’ipotesi che il livello di soddisfazione di vita

sia legato all’aumento del reddito. Di positivo c’è che l’equazione quasi funziona: si 

assiste infatti a un trend crescente di soddisfazione per la propria vita ai livelli più 

bassi del reddito. Di negativo c’è che il rapporto continuerà a diminuire all’aumentare

del reddito. 

In gran pate dei paesi industrializzati, nella migliore delle ipotesi, vi è solo una blanda

correlazione tra del reddito e felicità dichiarata e in paesi con redditi medi oltre i 15.000

dollari, la correlazione tra aumento del reddito e un livello di soddisfazione di vita più

elevato è praticamente nulla.

Nel corso del tempo, si può raccontare lo stesso paradosso all’interno di singole nazioni.

Negli Stati Uniti, dal 1950 il reddito reale pro capite è triplicato, ma la percentuale di 

individui che dichiara di essere molto soddisfatta non è affatto cresciuta, anzi, dagli anni

70 ha registrato un calo. 

In Giappone per molti decenni la soddisfazione di vita non ha registrato grossi cambiamenti.

Nel Regno Unito, la percentuale di individui che si dichiara molto soddisfatta è passata

dal 52 del 1957 al 36% di oggi. 

Nei paesi occidentali alcuni aspetti fondamentali del benessere individuale, invece di

migliorare sembrano aver subito un declino. 

Nell’America del Nord, i tassi di depressione raddoppiano ogni decennio. Il 15% degli 

americani di 35 anni ha già sofferto di una forte depressione. Quarant’anni fa, si parlava

solo del 2%. Negli Stati Uniti, a un certo momento della vita, un terzo della popolazione

soffre di malattie mentali gravi, e circa la metà di queste persone sarà colpita da una 

grave depressione inabilitante. Nel corso di un qualsiasi anno, circa il 6% della popolazione

soffrirà di depressione clinica e attualmente in America del Nord, il suicidio è la 

terza causa di morte più comune tra i giovani adulti.

Risalire alle cause di questa infelicità non è particolarmente facile, ma vi sono due serie 

di dati piuttosto convincenti che vedono come il consumismo stesso ne sia in parte 

responsabile. 

La prima serie rivela una correlazione negativa tra i comportamenti materialistici e il 

benessere soggettivo. Il filosofo Alain de Botton ha mostrato come una società iniqua

porti ad alti livelli di ‘ansia da status’ tra i cittadini. 

Lo psicologo Tim Kasser e colleghi hanno mostrato come chi mostra comportamenti più

materialistici, definendo e misurando il proprio valore attraverso il denaro e i possedimenti

materiali, dichiara livelli inferiori di felicità. Rincorre l’autostima attraverso la ricchezza

materiale sembra un tipo di ‘gioco a somma zero’ in cui il bisogno costante di migliorarsi

e di approvazione serve solo a far sì che ci si fossilizzi in una nevrotica spirale di 

consumi. 

Un secondo nucleo di prove altrettanto convincenti collega la crescente infelicità all’

indebolimento di certe istituzioni fondamentali. Il benessere soggettivo dipende in 

maniera determinante da stabilità familiare, amicizia e forza della comunità. Ma, nella

società dei consumi questi aspetti sono stati messi in secondo piano. 

(Tim Jackson, WorldWatch Institute)

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LA SCIENZA DEL DESIDERIO

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Nella visione economica convenzionale, il consumo rappresenta la via al benessere umano.

Più si ha e più si è considerati ricchi.

Si ritiene che al crescere dei consumi corrisponda un miglioramento del benessere.

Questo punto di vista riesce a spiegare molto bene il motivo per cui il perseguimento del

maggior prodotto interno lordo (pil) sia diventato uno degli obiettivi politici fondamentali

di quasi tutti i paesi. Un pil in aumento simboleggia un’economia robusta e fiorente, più

potere di spesa, vite più ricche e soddisfacenti, più sicurezza familiare, scelta più ampia e

maggiore spesa pubblica. I mercati finanziari si rallegrano per l’ascesa dell’ ‘uccello d’oro’

dell’India e la sua classe di consumatori; e la robusta economia cinese ha portato a un

senso di ottimismo nel mercato ugualmente straordinario.

Però, l’economia è rimasta quasi intenzionalmente silenziosa sul fatto che la gente apprezzi

o meno determinati beni e servizi. Il modello ‘utilitaristico’ è diventato così popolare che

gran parte dei libri di testo di economia quasi non parlano delle sue origini e men che meno

mettono in discussione la sua veridicità. Tutto quello che gli economisti sanno dire a 

proposito dei desideri delle persone deriva da ciò che deducono dai comportamenti di 

spesa. Se la domanda per una particolare automobile, elettrodomestico o strumento 

elettronico è alta, sembra chiaro che i consumatori, in generale, preferiscono quella marca

anziché un’altra. I motivi dietro a tale scelta rimangono oscuri all’economia.

Fortunatamente, altre aree di ricerca, quali la psicologia del consumo, il marketing, e la

ricerca motivazionale, hanno sviluppato un bagaglio di conoscenza decisamente più ampio.

Questa ‘scienza del desiderio’ si è occupata principalmente di aiutare i produttori, dettaglianti,

venditori e pubblicitari a progettare e vendere prodotti che i consumatori compreranno.

Una minima parte della ricerca si preoccupa esplicitamente dell’impatto sociale e ambientale

del consumo. Di fatto, parte di essa è del tutto antitetica alla sostenibilità. Ma il suo spirito

è preziosissimo per un’accurata comprensione delle motivazioni dei consumatori.

innanzitutto, è subito chiaro che il consumo va ben oltre la mera soddisfazione di bisogni 

fisici o fisiologici del nutrirsi, di un tetto e così via. 

I beni materiali sono profondamente legati alle vite sociali e psicologiche di un individuo.

Gli individui creano e mantengono identità utilizzando cose materiali.

L’ ‘identità’, sostengono i ricercatori di marketing è la Roma a cui tutte le teorie del consumo

portano. 

Gli individui raccontano la storia della loro vita attraverso la ‘roba’.

Cementano relazioni con altri individui con beni di consumo. 

Utilizzano pratiche di consumo per suggellare la loro fedeltà a certi gruppi sociali e per 

distinguersi dagli altri.  

Inizialmente, potrebbe sembrare strano scoprire che cose semplici possano avere un tale

potere sulle vite sociali ed omotive, eppure tale capacità degli esseri umani di impregnare

di significati simbolici cose nude e crude è stata identificata dagli antropologi in ogni 

società documentata che si conosca.

La gente va matta per le ‘cose’, e non solo a livello materiale.

Il ruolo di semplici oggetti è avvalorato da migliaia di esempi molto familiari: un vestito da

sposa, il primo orsacchiotto di un bambino, un cottage ricoperto di rose vicino al mare.

Il ‘potere evocativo’ delle cose materiali innesca una gamma di complesse e radicatissime

‘narrazioni sociali’ circa lo status, identità, coesione sociale e la ricerca di un senso personale

e culturale.

In momenti difficili, i possedimenti materiali portano speranza e offrono prospettive di un 

mondo migliore in futuro. In una società secolare, il consumismo diventa una sorta di 

sostituto alla consolazione religiosa. 

Da recenti esperimenti psicologici è emerso che quando si diventa più coscienti della 

propria mortalità, si fa di tutto per migliorare la propria autostima e proteggere la

propria visione culturale del mondo.

(Tim Jackson)

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GIORNATA DELLA TERRA: SITUAZIONE ATTUALE 2

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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Nel 1999 i dirigenti della DuPont, elaborando una strategia volta ad allegerire l’impatto

sull’ambiente, si sono coraggiosamente impegnati a ridurre entro il 2010 le emissioni di

gas serra del 65% rispetto al livello del 1990. Il progetto consisteva in parte nel diversicare

le linee di prodotto mettendo da parte le divisioni come nylon e farmaceutici per concentrarsi

sui materiali a basse emissioni, come l’isolante Tyvek per aumentare l’efficenza energetica

delle abitazioni.

L’iniziativa ha avuto successo: nel 2007 la DuPont ha diminuito le emissioni del 72%

rispetto al 1991 e l’utilizzo globale di energia del 7% e in tutto questo processo ha risparmiato

3 miliardi di dollari. L’azienda ora progetta di andare oltre i semplici miglioramenti nel

rendimento dei processi per arrivare alla creazione di prodotti che imitano la natura,

tra cui quelli di sintesi chimica come il Bio-Pdo che possono sostituire il petrolio nei

polimeri e nei prodotti detergenti, cosmetici e antigelo.

Le azioni della DuPont, così come quelle di altre aziende, stanno a indicare la nascente

consapevolezza che nel secolo della sostenibilità il modo in cui vengono prodotti

merci e servizi deve essere completamente ripensato.

Nel corso dei passati cento anni l’umanità ha creato e venduto beni e servizi con

sistemi che hanno richiesto un pesante tributo, ora le compagnie più sensibili riconoscono

la necessità di muoversi oltre il ‘business as usual’ per andare incontro alle esigenze

delle persone in modo sostenibile.

Ogni anno vengono estratte, elaborate e infine gettate via più di 500 miliardi di tonnellate

di materie prime, delle quali meno dell’1% è incorporato in un prodotto e ancora

utilizzato sei mesi dopo la vendita.

Tutto il resto si trasforma in rifiuti.

Questo schema di produzione e i consumi che genera ora minacciano tutti gli ecosistemi

della Terra. 

Nell’arco di tempo in cui mediamente un manufatto viene progettato, ma prima che 

sia effettivamente costituito, l’80-90% del suo ciclo di vita economico e i costi ecologici

relativi sono già diventati inevitabili. Ad esempio, questo libro che stiamo leggendo,

la sedia su cui siete seduti, l’aeroplano sul quale potreste volare, il terminal in cui 

atterrerete, il veicolo con cui continuerete il viaggio sono tutti risultanti da una 

miriade di scelte fatte da policymaker, designer, ingegneri, artigiani, venditori,

distributori e via dicendo.

Ogni passaggio rappresenta l’opportunità di far nascere un’idea, una parte o un

intero processo produttivo in modo che questo utilizzi più o meno risorse per migliorare

il risultato finale.

Pensando in modo più olistico e selezionando in ogni momento l’opzione più saggia

si può ridurre l’impatto di queste scelte sul pianeta e sui suoi abitanti.

Questi sono i fondamenti del capitalismo naturale, la cornice di sostenibilità che

suggerisce come soddisfare le necessità in modo da raggiungere anche un durevole

vantaggio competitivo, risolvere con profitto la maggior parte delle sfide ambientali e

molte di quelle sociali che il pianeta deve affrontare e assicurare una migliore qualità

di vita ai suoi abitanti. 

(L. Hunter Lovins)

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GIORNATA DELLA TERRA: LA SITUAZIONE ATTUALE

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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Per quasi 10.000 anni, dalla nascita della civiltà e per tutto l’Olocene, il mondo è apparso

incredibilmente vasto. Sconfinate foreste e immensi oceani affrivano quantità infinita

di risorse. Gli esseri umani ptevano inquinare liberamente, ed evitare le conseguenze

spostandosi altrove. Ma grazie ai progressi della salute pubblica, alla rivoluzione

industriale e, in tempi recenti, alla rivoluzione verde, la popolazione mondiale è

passata dai 500 milioni del 1800 ai quasi 7 miliardi di oggi.

Negli ultimi cinquant’anni il numero degli esseri umani è più che raddoppiato, e

il nostro sfruttamento delle risorse ha raggiunto livelli incredibili: il consumo globale

di cibo e acqua dolce è più che triplicato, e il consumo di combustibili fossili è

quadruplicato. L’umanità usa da un terzo a metà di tutta la fotosistensi che avviene

sulla Terra.

Questa crescita sfrenata ha trasformato l’inquinamento da un problema locale a un

assalto di dimensioni planetarie.

L’assottigliamento dello strato di ozono e l’elevata concentrazione di gas serra sono

due problemi più noti, ma stanno emergendo molti altri effetti negativi. L’improvvisa

accelerazione della crescita demografica, del consumo di risorse e dei danni ambientali

ha cambiato la terra. Oggi viviamo in un mondo ‘pieno’, con risorse limitate e ridotta

capacità di assorbire gli scarti. Perciò anche le regole per vivere il pianeta sono cambiate.

Dobbiamo intervenire in modo da vivere all’interno della ‘zona di sicurezza’ dei nostri

sistemi ambientali. Se non rivedremo il nostro modo di agire, provocheremo cambiamenti

ambientali catastrofici che potrebbero avere conseguenze disastrose.

Che cosa potrebbe causare questi cambiamenti?

E come possiamo evitarli?

Recentemente un team internazionale di scienziati ha provato a rispondere a questi

interrogativi ponendosi una domanda ancora più ampia: ci stiamo avvicinando a un serie

di ‘punti di non ritorno’ planetari che modificheranno l’ambiente in modi mai verificatesi

nel corso della storia umana?

Dopo aver esaminato numerosi studi interdisciplinari sui sistemi fisici e biologici, il 

team ha individuato 9 processi ambientali che potrebbero alterare drasticamente la 

capacità del pianeta di sostenere la vita umana. Per ciascuno di questi processi sono stati

stabiliti limiti all’interno dei quali l’umanità può ritenersi al sicuro. 7 di essi hanno valori

di soglia molto chiari, definiti in maniera scientifica per mezzo di un numero: cambiamento

climatico, perdita di biodiversità, inquinamento da azoto e fosforo, riduzione dell’ozono

della stratosfera, acidificazione degli oceani, consumo globale del suolo. Gli altri 2 processi,

inquinamento dovuto all’aerosol atmosferico e inquinamento chimico globale, non sono 

stati studiati a sufficienza per stabilire limiti numerici precisi. 

Secondo questa analisi, la terra ha già oltrepassato i limiti in 3 casi: perdita della biodiversità,

inquinamento di azoto e cambiamento climatico. Ma anche negli altri processi per cui è stato

stabilito un limite numerico la tendenza è inequivocabilmente verso il raggiungimento della

soglia. I singoli valori potrebbero avere bisogno di piccoli aggiustamenti, e nuovi processi

potrebbero venire aggiunti in futuro, ma si tratta comunque di un primo indice dei problemi

ambientali più pericolosi e di una base di partenza per pensare come gestirli.

(J. Foley)

 

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GIORNATA DELLA TERRA: NOZIONI PRATICHE 4

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GLI OBBLIGHI DOCUMENTALI: FORMULARI, REGISTRI E MUD.

FORMULARIO PER IL TRASPORTO:

Il D.Lgs. 22/1997 (art.15) ha istituito il formulario di identificazione per il trasporto

di qualsiasi genere di rifiuto da parte di imprese o enti. Le uniche eccezioni a questo

principio sono costituite: dal trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che

gestisce il servizio pubblico di raccolta;

” dai trasporti di rifiuti che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi al giorno o di

30 litri al giorno efettuati dal produttore dei rifiuti stessi”.

E dalle “attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo

svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che

formano oggetto del loro commercio”.

L’art. 15, comma 1, del D.lgs. 22/1997 ha definito l’insieme di dati essenziali da riportare

sul formulario di identificazione del rifiuto:

a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore;

b) origine, tipologia e quantità del rifiuto;

c) impianto di destinazione;

d) data e percorso dell’istradamento;

e) nome e indirizzo destinatario,

rinviando ad un successivo decreto ministeriale le indicazioni di dettaglio.

TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI DA ATTIVITA’ ORGANIZZATE:

l’art. 53 bis del D. Lgs 22/97 prescrive che ” chiunque al fine di conseguire un ingiusto

profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative

organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente

ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da 1 a 6 anni”.

Fino a poco fa si riteneva che tale norma fosse applicabile solo in caso di gestione abusiva

di rifiuti ad opera della cd ‘ecomafia’.

In realtà è sufficiente gestire, in modo abusivo, ingenti quantità di rifiuti al fine di ottenere

un ingiusto profitto per l’applicabilità del delitto di cui all’art. 53 bis del decreto Ronchi.

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GIORNATA DELLA TERRA: NOZIONI PRATICHE 3

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LA LEGISLAZIONE SPECIALE ITALIANA: INDUSTRIE, VEICOLI, IMPIANTI TERMICI

La legge 13 luglio 1966, n. 615 (provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico),

pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.201 del 13/08/1966, ha segnato una svolta

‘storica’ nel panorama della normativa ambientale italiana, costituendo la prima

legge del settore.

Sino ad allora nessuna specifica normativa era stata prodotta al fine di tutelare le

risorse ambientali, e già il fatto che in pieno boom economico si fosse ritenuto di

porre in essere una legge su questa particolare forma di inquinamento, lascia intende

re quanto già fosse viva l’esigenza primaria di dare ad essa una regolamentazione

adeguata.

In realtà i lati positivi di questa legge non vanno molto oltre questa sorta di primogenitura

normativa ambientale, anche se indubbiamente aver per lo meno messo un punto

di partenza alle tipiche fonti inquinanti(veicoli, industrie e impianti termici) mettendo

al centro di un apparato sanzionatorio ad hoc, per la prima volta, la tutela della

‘risorsa aria’, non è certo cosa di poco conto, alla luce, appunto, del particolare momento

storico in cui è stata promulgata. Ma le critiche (e i limiti) sono state subito notevoli

ed evidenti. A parte il fatto che solo cinque anni dopo sono stati emanati gli indispensa

bili decreti di attuazione, il suo grado di effettività è assolutamente disomogeneo nel

territorio nazionale, essendo basata su un criterio di controllo dell’inquinamento atmosferico,

per cui il territorio nazionale doveva essere suddiviso in ‘zone territoriali limitate’.

Solo l’inserimento dei comuni nelle zone A e B (individuate sulla base di particolari

requisiti geografici, demografici e ambientali) costituiva il presupposto necessario per

l’applicazione della legge ex art. 2. Così facendo si è creatra di fatto una ‘zona franca’

costituita dal territorio nazionale residuo, in cui la normativa non si applicava.

E non si trattava di un’area limitata, corrispondendo alla maggior parte del territorio

nazionale e a quasi due terzi della popolazione italiana.

Tale disciplina per zone, in realà, non ha mai operato per gli autoveicoli ed è ormai, da

considerarsi abrogata, per quanto riguarda gli impianti industriali, dopo l’entrata in vigore

del D.P.R. 203/88. Quindi potremmo ritenerla in vigore solo con riferimento alle

procedure amministrative di controllo per gli impianti termici di uso civile.

Nel 1992 l’art. 231 del D.L.vo 285 (nuovo codice della strada) abrogò esplicitamente

l’intero capo VI della legge, riguardante i ‘veicoli a motore’.

Il D.P.R. 203/88, invece, non solo non contiene alcuna esplicita abrogazione, ma per

un certo periodo di tempo è stato ritenuto applicabile solo agli impianti ‘industriali’,

solo una costante e più recente giurisprudenza ha invece considerato applicabile tale

decreto a ‘tutti gli impianti’.

Dunque se è vero che tale decreto abbia abrogata la L. 615/66 con riferimento alle

tematiche di sua competenza, il punto è: dove si ferma tale abrogazione implicita?

Ai soli impianti industriali o a tutti gli impianti?

Considerata l’evoluzione giurisprudenziale in materia si ritiene che tale abrogazione

investa ‘tutti gli impianti’ e dunque di fatto, tutta la legge, mantenendone ‘in vita’ solo

le parti tecnico amministrative, residue.

Più in dettaglio, l’art. 1 definisce l’ambito di applicazione della legge, delimitandolo

all’esercizio di ‘impinati termici’, alimentati con conbustibili minerali solidi o liquidi,

a ciclo continuo o occasionale, nonché l’esercizio di impianti industriali e di mezzi 

motorizzati, che diano luogo ad ‘ emissione in atmosfera di fumi, polveri, gas e odori

di qualsiasi tipo ad alterare le normali condizioni di salubrità dell’aria e di costituire

pertanto pregiudizio diretto o indiretto alla salute dei cittadini e danno ai beni pubblici

o privati’.

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GIORNATA DELLA TERRA: NOZIONI PRATICHE 2

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LE CATEGORIE DEI RIFIUTI:

RIFIUTI URBANI:

a) i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad

uso di civile abitazione.

b) i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da

quelli di cui alla lett. -a-, assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi

dell’art. 21, comma 2, lett. -g-.

c) i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade;

d) i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o

sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime

e lacuali e sulle rive dei corsi d’acqua;

e) i rifiuti vegetanti provenienti dalle aree verdi, quali giardini, parchi ed aree cimiteriali;

f) i rifiuti provenienti da esumazione ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da

attività cimiteriale diversi da cui alle lett. b,c,e.

RIFIUTI SPECIALI:

a) i rifiuti da attività agricole ed agro-industriali;

b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizioni, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che

derivano dalle attività di scavo;

c) i rifiuti da lavorazione industriali;

d) i rifiuti da lavorazioni artigianali;

e) i rifiuti da attività commerciali;

f) i rifiuti da attività di servizio;

g) i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti

dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle

acque reflue e da abbattimento di fumi;

h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie;

i) i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti;

l) i veicoli a motore, rimorchi e simili uso e loro parti.

Come si stabilisce se un rifiuto è ‘urbano’ o ‘speciale’?

Per quanto riguarda le due grandi macrocategorie, cioè gli urbani e gli speciali, la norma,

come appena visto, ci fornisce i due elenchi che questa volta sono esaustivi perché indicano

con precisione i campi di riferimento.

Circa i rifiuti speciali, ad esempio, il campo dei ‘rifiuti da lavorazioni industriali’ è una

grande categoria. Quindi, nel caso di un’attività industriale il materiale che si identifica,

i vari passaggi sopra riportati, come ‘rifiuto’ derivante dal ciclo produttivo, è

automaticamente speciale, perché il campo industriale indica per presunzione di legge 

un rifiuto speciale. Identica costruzione per ‘lavorazioni artigianali’: tutti i ‘rifiuti’ rinvenuti

in una azienda artigianale derivanti dal ciclo di lavorazione sono automaticamente speciali.

Dopo tale costruzione, si deve approfondire se quel rifiuto è anche pericoloso.

E’ necessaria a tal fine una ulteriore verifica.

I RIFIUTI PERICOLOSI:

Come abbiamo già accennato poco sopra, dal 1 gennaio 2002 solo i rifiuti contrassegnati con

l’asterisco nel nuovo Elenco Europeo dei Rifiuti sono da ritenere pericolosi.

Per quanto riguarda le attuali difficoltà che abbiamo anche solo per considerare se siamo

di fronte o no ad un rifiuto già abbiamo avuto modo di trattare, ma ora cerchiamo di

concentrarci sulle novità apportate dalla Dec. 2000/532/CE ( e successive modifiche).

Dunque, ribadiamo innanzitutto che in primo luogo ‘solo i rifiuti contrassegnati con

l’asterisco sono pericolosi’. In secondo luogo se il rifiuto viene classificato pericoloso

in quanto tale, la pericolosità è insita nello stesso ed in particolare deriva dalla sua

origine sostanzialmente riconducibile al fatto che questi rifiuti presentano una o più

delle caratteristiche di pericoli di cui all’All. 1 del Ronchi. Qualora invece si faccia riferimento 

a sostanze pericolose in esso contenute, si renderà necessaria una apposita analisi 

chimica. Il superamento della concentrazione limite di sostanze pericolose contenute

nel rifiuto, di cui all’art. 2 del Dec. 2000/532/CE comporta l’automatica qualificazione

di rifiuto pericoloso. Questo procedimento di identificazione e valutazione si traduce in 

un ONERE PER IL PRODUTTORE-DETENTORE DI RIFIUTI.

Secondo quanto prescrive il punto 5 dell’introduzione all’allegato alla Decis. 532 ‘ Ai

fini della presente decisione per ‘sostanza pericolosa’ si intende qualsiasi sostanza

che è o sarà classificata come pericolosa ai sensi della direttiva 67/548/CEE e 

successive modifiche; per ‘metallo pesante’ si intende qualunque composto di 

antimonio, arsenico, cadmio, cromo, rame, piombo, mercurio, nichel, selenio, tellurio,

tallio e stagno, anche quando tali metalli appaiono in forme metalliche come pericolose’.  

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