Da http://giulianolazzari.myblog.it
Mi ritrovai disteso accanto alla zatterra, che era mezzo
affondata non in uno strato di neve, ma in una spessa
coltre di ceneri.
Non avevo niente di rotto, constatai sollevandomi.
Hans e mio zio s’erano già rialzati e si stavano guardando
intorno.
– Dove siamo? chiese il professore, che sembrava addirittura
irritato d’essere tornato sulla terra.
Il cacciatore si strinse nelle spalle in segno d’ignoranza.
– Nej, rispose Hans.
– Come no? gridò il professore.
– Forse Hans si sbaglia, dissi finendo di rialzarmi.
Dopo le sorprese innumerevoli di quel viaggio, un’altra
ce n’era ancora riservata.
M’ero atteso di trovarmi su un bianco pendio, tra i nevosi
deserti delle regioni artiche, nella pallida luce di un cielo
polare; e invece, contro ogni prevesione, eravamo sul fianco
di una montagna calcinata da un sole torrido.
Non volevo credere ai miei occhi, ma la vera e propria
cottura a cui stavo venendo sottoposto, non lasciava alcun
dubbio.
Eravamo usciti mezzo nudi dal cratere, e l’astro radioso, al
quale non avevamo chiesto nulla da due mesi, si mostrava
fin troppo prodigo nei nostri confronti.
Quando i miei occhi si furono abituati a quello splendore
insolito per noi, non soltanto sottoterra, ma anche ad
Amburgo, cercai di mettere un po’ d’ordine nei miei
pensieri.
Passai in rivista gli altri vulcani possibili, a parte quelli
d’Islanda, e avanzai l’ipotesi che ci trovassimo nell’isola di
Jean Mayen.
Mio zio fece segno di no.
– Questo non è un vulcano del nord!
Dal cratere al di sopra delle nostre terre, s’innalzava di quarto
d’ora in quarto d’ora, con una forte detonazione, un’altra colonna
di ceneri e di lapilli, mentre torrenti di lava scorrevano
lateralmente.
Sentivo le convulsioni della montagna, che respirava come una
balena, rigettando di tanto in tanto densi vapori dai suoi enormi
sfiatatoi.
Al di sotto, per un pendio molto ripido, masse di materie eruttive
scendevano a una profondità di otto o novecento piedi, il che
dava al cono eruttivo un’altezza di cento teste.
La base del cono spariva in una cintura di vegetazione nella quale
si distinguevano olivi, fichi e viti carichi di grappoli vermigli.
Non era l’aspetto delle regioni artiche, bisognava convenirne.
Oltre questa cintura verdeggiante lo sguardo si perdeva da ogni
lato nelle acque di un mare incantevole.
Eravamo in un’isola di poche leghe di diametro.
A levante si scorgeva un piccolo porto, fiancheggiato da
poche case, e nel porto ondeggiavano battelli di una forma
particolare.
Al di là, gruppi di isolotti brillavano al sole.
Verso l’orizzonte di ponente si scorgevano coste e montagne
di conformazione armoniosa, oltre le quali appariva un cono
prodigiosa mente elevato, sulla cui cima si agitava un pennacchio
di fumo.
A nord, il mare libero e di un azzurro intenso lasciava spuntare
qua e là l’estremità di un’alberatura o la convessità di una vela
Il fatto che quello spettacolo fosse del tutto imprevisto
ne accentuava la straordinaria bellezza.
– Dove siamo?
– Dove siamo?
continuavo a ripetermi, mentre Hans guardava intorno
con la solita calma.
Mio zio s’era rassegnato a non capire.
– Quale che sia questa montagna, disse alla fine,
– non varrebbe veramente la pena d’essere usciti da un’
eruzione, per ricevere adesso qualche grossa pietra sulla
testa!
Scendiamo e ne sapremo di più.
Del resto muoio di fame e di sete.
(Jules Verne, Viaggio al centro della Terra)