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L’abbazia arse per tre giorni e per tre notti e a nulla valsero
gli ultimi sforzi. Già nella mattinata del settimo giorno della
nostra permanenza in quel luogo, quando ormai i superstiti
si avvidero che nessuno edificio poteva più essere salvato,
quando delle costruzioni più belle diroccarono i muri esterni,
e la chiesa, quasi avvolgendosi su di sé, ingoiò la sua torre,
a quel punto mancò a ciascuno la volontà di combattere contro
il castigo divino.
Sempre più stanche furono le corse ai pochi secchi d’acqua
rimasti, mentre ancora ardeva quietamente la sala capitolare
con la superba casa dell’abate.
Quando il fuoco raggiunse il lato estremo delle varie officine,
i servi avevano da tempo salvato quante più suppellettili
potevano, e preferirono battere la collina per recuperare almeno
parte degli animali, fuggiti oltre la cinta nella confusione della
notte.
Vidi qualcuno dei famigli avventurarsi entro quello che rimaneva
della chiesa: immaginai che cercassero di penetrare nella cripta
del tesoro per arraffare, prima della fuga, qualche oggetto prezioso.
Non so se ci siano riusciti, se la cripta non fosse già sprofondata,
se i gaglioffi non siano sprofondati nelle viscere della terra nel
tentativo di raggiungerla.
( U. Eco, Il nome della rosa )