IL MUSCHIO GRIGIO ARDE

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….Con gente che non aveva niente a che fare con gli astanti,

gente che cresceva e traeva forza dalla difficoltà di raggiungersi,

dagli ostacoli che li separava, dai lunghi cammini.

Il silenzio.

E la maschera che lotta e si erode, e quella terra con le sue

minacce e l’eternità congelata, un destino radicato nella sensibilità

e nel desiderio che ognuno ha ereditato da chi l’ha preceduto,

e si tramanda in diversa misura nell’ineluttabile solitudine, in

compagnia di fantasmi e mostri generati dalle tenebre, e di

benigne illusioni.

E con quella maschera avrebbero tutti dovuto tornare alla

polvere che reclama l’uomo, povero prestito senza valore,

restituito per intero, alla fine del tutto.

Alla fine di tutto, ognuno, ancora e ancora, all’infinito di coloro

ai quali è stato concesso di sostare sulla terra e raccoglierne

gli orpelli nelle tasche dell’anima.

Perché polvere sei, e polvere ritornerai.

( Thor Vilhjàlmsson, Il muscho grigio arde, Iperborea )

                                         

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IL MUSCHIO GRIGIO ARDE

Qui.

Era qui ?

Sì. E no.

Entrambi.

Forse era sotto una sorta di elmo, trasparente e intangibile, che lo

rendeva distante da ciò che gli era più vicino.

Un flusso di colori vividi, un fermento vitale di luci e ombre, un

mondo interiore che traeva la sua forza inebriante dalla violenza

indiscreta della folla compatta.

Vortici di suoni e silenzi che si confondevano con la musica si

riversavano su di lui, ineluttabili, e accrescevano insieme la sua

presenza e la sua assenza.

C’era qualcosa che si frapponeva tra lui e quanto accadeva intorno,

e che pure acuiva i suoi sensi ; ma la sua mente apparteneva a un 

altro tempo, a un’altra realtà.

Come se vi fossero due dimensioni di consapevolezza che si sovrappo

nevano senza interferire.

Una traeva forza dalle restrizioni, dai limiti, dalle mura che chiudevano

quel mondo, quell’istante effimero; l’altra innalzava la propria calma e 

le sue sensazioni e la sua mente, proprio in quanto tutto lì vi si opponeva.

Nello stesso momento si trovava in un’altra realtà, in un altro paese del

tutto diverso da quello, un paese dove erano in gioco forze primordiali.

Dove il tempo era talmente dilatato che la sua velocità svaniva.

( Thor Vilhjàlmsson, Il muschio grigio arde, Iperborea )

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A DANTE ALIGHIERI (CIII)

Quando  Ner  Picciolin  tornò  di  Francia,

era  sì  caldo  de’  molti  fiorini,

che  li  uomin  li  parean  topolini,

e  di  ciascun  si  facea  beff’e  ciancia.

Ed  usava  di  dir :

– Mala  mescianza  possa  venir  a  tutti

mie’  vicini,  quand’e’  son  appo  me  sì  picciolini,

che  mi  fuora  disnor  la loro  usanza !

Or  è  pel   lo  su’  senn’a  tal  condotto,

che  non  ha  neun  sì  picciol  vicino,

che  non  si  disdegnasse  farli  motto.

Ond’io  mettere’  cuor  per  un  fiorino

che,  anzi  che  passati  sien  mesi  otto,

s’egli  avrà  pur  del  pan,  dirà :

– Bonino !

(  Cecco Angiolieri, Rime, Bur classici )

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A DANTE ALIGHIERI (CII)

Dante  Alighier  s’i’  so  bon  begolardo,

tu  mi  tien’  bene  la  lancia  a  le  reni;

s’ eo  mordo  ‘l  grasso,  tu  ne  sugi  ‘l  lardo;

s’ eo  cimo  ‘l  panno,  e  tu  vi  freghi  ‘l  cardo:

s’ eo  so  discorso,  e  tu  poco  raffreni;

s’ eo  gentileggio,  e  tu  misser  t’ avveni;

s’ eo  so  fatto  romano,  e  tu  lombardo.

Sì  che,  laudato  Deo,  rimproverare

poco  pò  l’uno  l’altro  di  noi  due:

sventura  o  poco  senno  cel  fa  fare.

E  se  di  questo  vòi  dicere  piùe,

Dante  Alighier,  i’  t’ averò  a  stancare;

ch’ eo  so  lo  pungiglion,  e  tu  se’  ‘l  bue.

( Cecco  Angiolieri, Rime, Bur classici )

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A DANTE ALIGHIERI (CI)

Dante Alighieri,  Cecco,  ‘l tu’  serv’e  amico,

si  raccomand’a  te  com’a  segnore ;

e  sì  ti  prego  per  lo  dio  d’ Amore,

il  qual  è  stat’un  tu’  signor  antico,

che  mi  perdoni  s’ispiacer  ti  dico,

ché  mi  dà  sicurtà  ‘l  tu’  gentil  cuore;

quel  ch’i’  ti  dico,  è  questo  tenore :

ch’ al  tu’  sonetto  in  parte  contraddico.

Ch’ al  meo  parer  ne  l’una  muta  dice

che  non  intendi  su’  sottil  parlare,

a  que’  che  vide  la  tua  Beatrice;

e  puoi  hai  detto  a  le  tue  donne  care

che  tu  lo  ‘ntendi : adunque,  contraddice

a  se  medesimo  questo  tu’  trovare.

( Cecco Angiolieri, Rime, Bur classici )

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LA FATTORIA DEGLI ANIMALI

Quanta fatica e sudore per ritirare il fieno !

Ma i loro sforzi furono infine compensati perché il raccolto fu assai 

migliore di quanto avessero potuto sperare.

Talvolta il lavoro era duro; gli strumenti erano stati fatti per 

l’uomo e non per animali, ed era un grande svantaggio che nessun 

animale potesse usare utensili per i quali sarebbe stato necessario 

reggersi sulle gambe posteriori.

Ma i maiali erano tanto intelligenti che sapevano superare ogni 

difficoltà.

Quanto ai cavalli, essi conoscevano il campo a palmo a palmo e 

in realtà si intendevano e sapevano di mietitura e di rastrellatura

assai più e meglio di Jones e dei suoi uomini. 

I maiali non lavoravano, ma dirigevano gli altri.

Con la loro cultura superiore era naturale che assumessero la dire

zione della comunità.

Gondrano e Berta si attaccavano al falciatoio o al grande rastrello

e andavano senza sosta su e giù pel campo con un maiale che 

camminava al loro fianco gridando : – Avanti, compagni !  o 

– Indietro, compagni ! 

a seconda del caso.

E ogni animale, fino al più umile, lavorava a voltare il fieno e 

a raccoglierlo.

Persino le anatre e le galline nonché le oche si affannavano qua

e là tutto il giorno sotto il sole, portando fili di fieno nel becco.

( G. Orwell, La fattoria degli animali, Oscar Mondadori )

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IL MENDICO E IL POLITICO

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– Voi vi pensate, disse il mendico, – per l’aspetto ch’io mostro

ch’io fossi un uomo infelice, bruttissimo, sporcissimo e di 

miserie e d’infermità ripieno ?

– Così, disse il politico ( ed il graduato ), io mi penso ancora.

– E pur, ripigliò il mendico, voi di gran lunga v’ingannate, 

perché tale io  non sono . E’ ben vero che il tutto con arte

faccio e molto più di quello che voi vedete.

E quantunque agli occhi vostri io appaia qual vi rassembro,

tuttociò d’altro aspetto son riguardevole.

Perché, oltre che mi trovo assai giovane e gagliardo, non 

vivo così poveramente come a voi par che viva.

Anzi se  ‘l ver dir voglio, trapasso una vita felicissima

d’allegrezze e di comodità ripiena.

Io me ne vo tutto ‘l giorno a spasso a l’altrui spese, ricerco

tutto il mondo senza spendervi pur un picciolo, con l’altrui 

danaro soccorrendomi.

Cammino securamente giorno e notte senza punto temer di 

ladri; anzi talor rubo loro con le affettate parolucce mie molti

denari.

Godo quello ch’io m’attrovo, nè di perderlo temenza m’affligge.

Non son obbligato ad alcuno di render di mia roba.

Né alcuno mi porta invidia, ma tutti hannomi compassione;

son iscusato di non prestar giammai o di dar a credenza.

Non ho de liti travaglio.

E manco temo che le tignuole mi rodano le vestimenta.

Non dubito de’ corsari, di tempeste o di scogli che mi 

rubino, sommerghino o rompino le mie navi.

Né punto temo di guerre o di revoluzioni di stati.

Di gabelle, di dazi di decime non son tassato : solamente

per riscuotere ho qualche obbligo.

Per me può tempestare, venir la gragnuola, soffiare i venti

e scuotersi il mondo, che non mi si leveranno le mie entrate.

Non temo di ladri che mi rubino l’oro, che gli avari facciano

carestia, o chi per ereditar mi brami la morte.

Manco dubito che alcuno, per levarmi le comodità, tradir mi 

voglia.

Io non sono ansioso di accumular molto, nè tormento da diligenza

di conservarlo, o afflitto da temenza di perderlo.

Dove io mi trovo vi son anco co  ‘l cuore.

Ciò che mi guadagno il giorno me logodo la sera e quello che la

sera godo, non temo che involato mi sia la notte.

( P. Camporesi, Il libro dei Vagabondi, Garzanti )

 

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IL PONTE

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Attraverso il ponte la strada conduce oltre il ruscello montano

fiancheggiando la cascata. Già una volta ho percorso questa

strada-già molte, molte volte, ma una volta in particolare.

Fu in tempo di guerra e la mia licenza era alla fine, dovevo

di nuovo rimettermi in cammino ed affrettarmi su strade

provinciali e ferrovie per ripresentarmi puntualmente e

riprendere il servizio.

Guerra e servizio, licenza e richiamo, cartolina rossa e carto

lina verde, eccellenze, ministri, generali, uffici- tutto un mondo

incredibile e babelico, che pure viveva ed aveva per di più

potere di avvelenare il mondo e di snidare un piccolo viandante

e acquarellista come me dal suo rifugio.

Qui si estendevano prato e vigna, e sotto il ponte, era sera,

gorgogliava il ruscello nell’oscurità, e il cespuglio bagnato 

abbrividiva, un cielo serale agonizzante si inarcava in una 

frescura rosata, presto vi sarebbero state le lucciole.

Non una pietra, qui, che non amassi.

Non una goccia della cascata alla quale non fossi grato, 

non una goccia che non provenisse direttamente dalla dimora

di Dio. 

Ma tutto ciò era niente, ed il mio amore per il cespuglio bagnato

e incurvato era sentimentalismo, la realtà era ben diversa, si 

chiamava guerra e dava fiato alla tromba per bocca di un generale

o di un maresciallo, ed io dovevo correre a da tutte le valli del

mondo mille altri dovevano correre, e un tempo immenso aveva 

inizio. 

E noi, povere buone bestie correvamo in fretta e quel tempo cresceva

a dismisura. 

Ma per l’intero viaggio cantò in me l’acqua gorgogliante sotto il 

ponte e risuonò la morbida stanchezza dell’umido cielo serale, e 

tutto era oltremodo folle e doloroso.

Ora ce ne andiamo di nuovo, ognuno lungo il suo ruscello, ognuno

per la sua strada ed osserviamo il vecchio mondo, cespuglio e 

prati, con occhi fatti più silenziosi e più stanchi.

Pensiamo agli amici che sono sepolti e sappiamo solo che così

doveva essere, e sopportiamo con tristezza.

Ma ancora scorre graziosa l’acqua bianca e azzurra colando dalla 

montagna bruna e canta la vecchia canzone, e il cespuglio è gremito

di merli.

La tromba non strepita dalla lontananza sino a noi, il tempo è 

di nuovo costituito da giorni e notti colme di malie, di mattini e

di sere, di mezzodì e tramonti, ed il paziente cuore del mondo ha

ripreso a battere.

Se ci distendiamo sul prato con l’orecchio alla terra, o ci curviamo 

dal ponte sull’acqua, o scrutiamo a lungo nel cielo chiaro, lo sentiamo,

l’immenso placido cuore della terra, ed è il cuore della madre di cui

noi siamo i figli.

Se oggi ripenso a quella sera quando percorsi qui il cammino del 

commiato, risuona già da orizzonti lontani il rimpianto la cui 

azzurrità profumata niente sa di battaglie e di grida.

Ed un giorno non esisterà più niente di ciò che ha consumato e 

tormentato la mia vita e che tanto spesso l’ha colmata di opprimente

angoscia.

Un giorno verrà la pace con l’ultima stanchezza, e la terra madre mi 

accoglierà in sé.

Non sarà la fine ma una nuova nascita, sarà un bagno e un sapore in

cui si inabisserrà tutto il vecchio e l’appassito e il giovane e il nuovo

riprenderanno ad alitare.

Allora con altri pensieri voglio ripercorrere tali strade, origliare ai 

ruscelli, spiare i cieli serali, sempre e poi sempre.

(  H. Hesse,Il ponte, Storie di vagabondaggio, Newton ed. )

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LA SOLUZIONE FINALE : STERMINIO

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Nel colloquio che ebbe con Eichmann, Heydrich cominciò con un

discorso sull’emigrazione…e poi disse : – Il Fuhrer ha ordinato lo

sterminio fisico degli ebrei.

Poi alla fine Heydrich gli disse anche un’altra cosa, e cioè che tutta

la faccenda era stata posta sotto l’autorità del WVHA e che il nome 

convenzionale di tutta l’operazione sarebbe stato ‘ SOLUZIONE

FINALE’.

Nel marzo del 1941, circa sei mesi prima di questo colloquio tra

Heydrich ed Eichmann, nelle alte sfere del partito non era più

un segreto che gli ebrei dovevano essere sterminati.

Inoltre, tutta la corrispondenza relativa alla questione doveva rispettare

rigorosamente un determinato ‘gergo’, e se si accettuano i rapporti degli

Einsatzgruppen è raro trovare documenti in cui figurino le parole come

‘sterminio’, ‘liquidazione’, ‘uccisione’.

Invece di dire uccisione si dovevano usare termini come ‘soluzione

finale’,‘ evacuazione’ e ‘trattamento speciale’; invece di dire

deportazione bisognava usare parole come ‘trasferimento’  o

‘lavoro in oriente’, oppure, se si parlava di persone dirette a

 Thereisienstadt ( il ghetto dei vecchi ), si doveva dire

‘cambiamento di residenza’ in modo di dare l’impressione

che si trattasse di provvedimenti temporanei.

( H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli )

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LA SECONDA SOLUZIONE: CONCENTRAMENTO

Fu soltanto quando scoppiò la guerra ( 1 sett. 1939 ) che

il regime nazista divenne scopertamente totalitario e criminale.

Uno dei passi più importanti in questa direzione, sul piano

organizzativo, fu il decreto, firmato da Himmler, che fuse il

Servizio di sicurezza delle SS, che era un organo del partito e

a cui Eichmann apparteneva fin dal 1934, con la polizia di

sicurezza dello Stato, cioè con la polizia regolare, che comprendeva

anche la polizia segreta dello Stato o Gestapo.

Da questa fusione nacque l’Ufficio centrale per la sicuezza del 

Reich ( RSHA), il cui primo capo fu Reinhardt Heydrich .

L’ RSHA, inoltre era soltanto uno dei dodici uffici centrali delle 

SS : i più importanti erano l’Ufficio centrale dell’ordine pubblico,

diretto dal generale Kurt Daluege, che si occupava di rastrellare gli

ebrei, e l’ufficio centrale dell’amministrazione e dell’economia 

diretto da Oswald Pohl, che si occupava dei campi di concentramento

e più tardi s’interessò degli aspetti ‘economici’ dello sterminio.

Questa concretezza o oggettività, parlare dei campi di concentramento

in termini di AMMINISTRAZIONE e dei campi di sterminio di 

ECONOMIA, era tipica della mentalità delle SS, ed era una cosa

cui Eichmann, al processo, si mostrò ancora QUANTO MAI FIERO.

( H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli )

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