SENZA FINE (2)

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VOCE: E fa la vagabonda! Ipazia….NEL TEMPO, scorrazza e gira in tondo.

Sempre aggrappata alla sua giostra senza fine. Ai suoi mulinelli temporali.

Mai uguali. Don Chisciotte?….Perché no! Mulini a Vento? Pourquoi-pas!

Perché non perdersi nella Città dei Falsi Mulini a Vento? Vuol vedere il

suo tempo immortale….Può far guerra ai fantasmi! E’ la Bella Dama Senza

Pietà!

IPAZIA: Forse l’Inquisitore vuole catturarmi! Cacciarmi dal MONDO per i

miei peccati! Ho sconvolto il calendario. Messo la museruola al tempo!

VOCE: Quel cane, del tempo, che abbaia alla luna e sbava all’aurora!

Che ti afferra i polpacci e ti guarda lottare coi mesi, con gli anni.

Che ti lecca le ferite ma solo dopo avertele ricoperte. Quel cane bastardo

senza padri né padroni.

IPAZIA: Atterro nel prato. Nel mio tempo quadrato. Nello spazio che dai

fogli mi riporta ai quadrifogli. E trovo erbacce. Solo erbacce che il tempo

ha accumulato. Fa questo, lui. Scaccia le vite ed ammassa i detriti. Smonta

le storie ed accumula le scorie.

VOCE: Frantuma. Corrode. Disintrega. Dimentica. Cancella. E allora bisogna

ripartire! Ripulire. Riorganizzare. Ricordare. Ingannare la tristezza. Tutti i

mondi e le lune ed i soli che sono svaniti. I sogni, anche quelli proibiti che

hanno ucciso ciò che mai conosciuto. Ricominciare sempre da capo. Ricominciare.

Da soli. Senza parole. Senza lacrime. Soli. Come cani!

(Maria Rosa Menzio, Spazio, tempo, numeri e stelle)

  …siti consigliati…

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SENZA FINE

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IPAZIA: Anno del Signore 1582. Il 10 di ottobre.

VOCE:   Compleanno d’ Ipazia. Un giorno mai esistito!

IPAZIA: Già. Aveva riformato il calendario, Gregorio XIII. Da quello giuliano a quello 

solare. Passare….direttamente dal giovedì 4 ottobre, al venerdì 15 ottobre. Sempre 

1582. Dieci giorni fantasma. Dieci giorn perduti!

VOCE: Firenze!…Musica da film….vestiti da medioevo!….Ma è lei, o non è lei? Il

batticuore è quello di Beatrice ma che rivive nella sua testa. Che riapproda nelle 

sue vene.

IPAZIA: “…E tanto onesta, pare/la donna mia quand’ella altrui saluta,/ c’ogne lingua

deven tremando muta,/e li occhi non l’ardiscon di guardare….”.

VOCE:  Uno specchio, uno specchio. Sette vite per uno specchio! Guardarlo in faccia,

il passare del tempo! Riflettersi nel suo infinito se stesso. Che meraviglia. E poi…tutto

come prima. Ventisette anni….ma anche ottocento. Con la faccia liscia liscia e le mani

che continuano a stringere il libro. E nel medio di sinistra….l’anello….e li occhi non

l’ardiscon di guardare…..sentire….capire……credere, di capire…cavalcare, quelle oscure

malìe…nel tempo…più tempo…individuare….fuggire…..dormire…..morire….vivere in

lei quel poco che rimane da vivere in te!

IPAZIA: ” Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, non è figlio di

nessuno, non ha figli né ne vuole, corre lento sulle scuole, né si gode e né si duole,

non ha scampo non ha cuore, né sta sopra né sta giù…..e a star sot-to  sa-rai-tu!”

VOCE:  Quadratura del cerchio. Cerchiatura del quadro. Specchiatura dell’occhio.

Riflessione del bulbo. L’occhio è bello. E’ perfetto. Un cerchio con dentro un cerchio

con dentro un altro cerchio….e rigira l’anello….svagata….l’Ipazia…si perde in un tuffo

concentrico. Cade. Rigira su se stessa come un’elica senza fine. Inghiottita dall’iride.

Dieci giorni fuori dai giochi. Altri dieci giorni perduti nello sguardo dell’anima. 

Né bene né male. Per conoscere. Capire. Sapere. Non morire. Vivere oltre. In altre 

donne. Altre facce. Altre mani. Altre vite. Altre avventure. Altri guai.

IPAZIA:  Io no, non ho cavigliere, bracciali od anelli di Re Salomone/non ho aureole

dorate, né potere, né gloria/non sono la sposa perduta, la città devastata/non ho 

draghi né mele stregate/non ho boschi incantati/giarrettiere fatate/non cerchi di 

fuoco/non ho doppi anelli che messi vicini danno l’infinito, io domani avrò solo/

come anello un collare/il cappio/del boia/e all’albero del mondo/sarò impiccata/

impiccata/impiccata/impiccata…..

(Maria Rosa Menzio, Spazio, tempo, numeri e stelle)

…siti consigliati…

http://www.uaar.it/ateismo/contributi/07.html

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IL GRANDE SOGNO, SCONVOLGIMENTO

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Se solo potesse vedermi in questo momento, certo che mi amerebbe, ci scommetto.

Scommetto che mi amerebbe.

E come non potrebbe non amarmi?

Guardami.                                                                   agtgfbk.jpg

Guardami in questo momento.

Come sono.

Se mi vedesse qui, ad aspettarla,

con ore d’anticipo prima del suo arrivo,

attento ogni suono o segno della sua

presenza.

Vedrebbe tutta la mia impazienza.

Vedrebbe la disperazione che ho nel 

petto.

Se solo potesse vedermi in questo momento, da lontano senza che

io sapessi che mi sta guardando, mi vedrebbe veramente come sono.

E allora come non potrebbe non provare qualcosa per me?

Qualcosa….ma magari no.

Magari così è …insomma, magari c’è una specie di repulsione per una

cosa del genere.

Nn so di preciso come funziona ma…magari c’è una…una specie di repulsione

quando uno è troppo appassionato, troppo bisognoso, ha troppo bisogno.

Non so.

Uno…sconvolgimento.

No. No, non è così. Non esiste nemmeno la parola, no?

‘Sconvolgere’.

Se solo si ricordasse di quella volta, quand’è stato…quella volta giù a 

Knoxville quando ci baciavamo sul treno; quel lungo bacio, per salutarci,

e poi a un tratto il treno partì dalla stazione, ma io non dovevo partire con 

lei; cioè, era per quello che ci stavamo salutando, perché non ci saremmo visti

per tanto tempo ed eravamo stretti in quel luogo…ci baciavamo e ci baciavamo

e poi improvvisamente il treno si mosse e non c’era più modo di scendere.

Gli alberi e le case sfrecciavano via.

Così alla stazione successiva mi sbatterono giù, parecchi chilometri più in 

giù la linea, ed eccomi lì, ad aspettare ore e ore il treno di ritorno….

Insomma, se mi avesse visto in quel momento lì in piedi ad aspettarla, 

lei….certo che mi amerebbe. 

Voglio dire, come potrebbe non avere un qualche…non so.

Non so che cos’è che fa scattare quella cosa….quel legame….tutto finito.

Ammesso ci sia mai stato.

(Sam Shepard, Il grande sogno)

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ZAPATECUS, MESSICO 1975 (3)

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Jessup annuì. Incredibile. Neanche stesse parlando con un lama tibetano.

Il vecchio brujo mormorò qualcosa in spagnolo ed Echeverria disse a Jessup:

” Vuole che tu tenga la radice. Porgigli la mano col palmo alzato”.

Jessup si sporse in avanti e protese la mano.

Il brujo gli depose attentamente la radice sul palmo e poi, d’improvviso, separò

il terzo e il quarto dito di Jessup, incidentogli rapidamente la carne con il coltello

da caccia.

Jessup, avendo letto Castaneda, avrebbe dovuto aspettarsi un’azione del genere e

invece lanciò un grido nel silenzio della notte mentre sentiva il sangue sgorgagli dal

taglio.

Rimase talmente stupefatto della repentinità del gesto che continuò a tenere protesa

la mano, la palma sollevata.

Il brujo gli afferrò il polso costringendo a mettere la mano sopra la pignatta e poi

a lasciar cadere la radice.

(…Poi lo fissò a lungo…..)

– Ti senti bene? – gli domandò Echeverria.

Lui annuì.

Il vecchio brujo e uno degli altri uomini stavano adesso sollevando la pignatta dalle

pietre infuocate e la deposero sulla coperta rituale.

A Jessup, che giaceva in quell’improvvisa oscurità, parevano ombre mostruose.

Poi il vecchio che lo fissava gli porse la pipa, il volto impassibile. Ma in Jessup qualcosa

si muoveva.

Jessup si tirò a sedere, accettò la pipa e cominciò a fumarla.

Immediatamente lo colse un senso di nausea, e cominciò a vomitare in terra.

Nessuno degli uomini gli prestò attenzione.

Il vecchio brujo stava chiedendo a Echeverria se il registratore fosse in funzione.

Lo scienziato gli rispose di sì allora lui cominciò a spiegare in spagnolo che la mistura

che Jessup stava fumando conteneva tre parti di poltiglia di fungo e una parte di

polvere di sinicuiche più una parte di polvere di un’altra pianta con un nome tolteco

che Echeverria tentò di ripetere senza però riuscirci.

Appoggiato su un gomito (mentre il corpo si muoveva in spasmi) Jessup vomitava

e udiva tutto con molta chiarezza.

Poi la nausea gli passò di colpo; anche il vomito era stato tranquillo, mai doloroso.

Si sentì proiettato in alto, verso un’istantanea

allucinazione.                                                           hubble4.jpg

Il praticello su cui stava reclinato scomparve

alle spalle, ovvero si ridusse ad un punticino

lontano parecchi chilometri sotto di lui;

poi il punto gradadamente sembrò

sbiadire e assumere la forma di una

fessura informe, una crepa.

Jessup si disse che doveva essere la

Fessura Tra

il Nulla.                                                                                 hubble2.jpg

Lentamente la crepa luminosa parve

spingersi verso l’esterno emanando

piccole onde di luce, così accecanti

che Jessup immaginò di trovarsi al

cospetto di una qualche specie di

illuminazione originale.

Quest’emanazione luminosa si spandeva                                                      hubble8.jpg

ora con enormi, inesorabili ondate finché

Jessup ne fu completamente avvolto

tanto che egli stesso divenne un incandescente

puntino bianco.

Il candore risplendente si estendeva da orizzonte

a orizzonte in uno spazio che andava sempre più

alargandosi, privo d’orizzonti, infinito.

Da tutto quel candore si levò una colonna d’aureole,

simili al tronco di un albero, che si mutava

in                                               hubble3.jpg

elisse dorata che continuava a girare su se stessa

e a riempirsi di frenetici punti di luce pulsante,

vermiformi e forcuiti: pareva di osservare al

microscopio un panorama di cromosomi

sacri.

Udì un grido quasi stridulo, esultante, ed era

strano dato che raramente le allucinazioni

psichedeliche sono accompagnate da fenomeni

uditivi.                                                                                          hubble6.jpg

Improvisamente emerse dall’iniziale puntino

di luce, divenuto nerissimo, una sagoma

brunastra, se sagoma si poteva chiamarla:

era piuttosto un ammasso di materia

liquefatta che pareva avere braccia e gambe

e una testa, ma talmente proteiforme che gli

arti e le altre caratteristiche fisiche continuavano

a sparire e ricomparire, come prodotte e riassorbite

dal ribollire stesso di quella materia.                                                           hubble7.jpg

A mano a mano che emergeva, sempre più grande,

la materia sembrò farsi iridescente, cangiante, accesa

da minuscole fiammelle che a un’osservazione più

attenta si rivelavano essere sostanza neurale in

esplosione.

La cosa continuava a ingrandirsi, e il suo colore si

faceva sempre più rosso e poi dorato.

(Paddy Chayefsky, Stati di allucinazione)

..siti consigliati…

www.nasa.gov

www.spacetelescope.org

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FRA IL 1480 E IL 1680 (2)

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– E di chi la colpa! – chiesero i giudici.

– L’opinione pubbica accusò il Perger!

A seguito di tale testimonianza i giudici decisero un nuovo interrogatorio.

L’imputato fu tradotto nell’aula della giustizia e sottoposto a contestazioni vivaci. 

Gli si rimproverò il passato di miscredente ed egli per tutta risposta obiettò che una

buona parte dell’umanità professa una religione per consuetudine e non per sentimento:

– C’è molta gente – disse – che va ogni giorno in chiesa, si confessa e si comunica e che

ogni giorno peggiora nei costumi……

Confessò ancora di aver suggerito ai contadini sortilegi contro i ladri e i maltempo, ma poi

tornò al suo abituale silenzio.

Fu allora che i giudici decisero di mettere in azione mezzi più convincenti. I documenti narrano

che il 26 maggio 1645 vennero applicati al Perger i pollici di ferro. 

L’orco di Rodengo resistette, poi sciolse la lingua e iniziò quella che, a scatti, sarà la 

più IMPRESSIONANTE confessione che mai essere umano abbia compiuto.

Confessò cioè di aver esercitato la magia, fornendo ad alcuni valligiani il mezzo di 

artificiosamente conquistare la simpatia di altre persone.

– Adoperava un filtro?

– No. Si pigliava una raganella, la i chiudeva in una scatola bucata: il tutto si sotterreva

in un formicaio e ivi si lasciava per nove giorni.

E dopo i nove giorni, aperta la scatola – aveva soggiunto lo stregone – vi si trovavono

due ossicini a forma di forchetta. Bastava toccare la persona desiderata con la forchetta

magica per acquistarne la profonda, inestinguibile simpatia.

Dopo la confessione, il Perger fu ancora una volta lasciato in pace. 

I giudici inquirenti però non dimenticarono che gli stregoni portavano sul corpo il 

marchio diabolico della loro professione. 

Satana – così dicono antiche storie – in un punto più o meno nascosto, lasciava visibili i segni

della sua sovranità. Perciò ordinarono una perizia che fu eseguita da un cerusico di 

Rodengo, Sebastiano Hofstetter, il quale esaminò l’epidermide dell’imputato, millimetro

per millimetro. Già si stava abbandonando senza successo l’indagine, quando il Perger,

sbadigliando, mostrò sotto la lingua una curiosa deformazione, che attentamente 

esaminata risultò essere il cercato marchio. 

La prova principale fu così raggiunta, ma tutto questo non bastò. 

Legato mani e piedi, sottoposto a nuove torture, lo stregone non proferì verbo.

…siti consigliati …

 http://www.payscathare.org/3-6270-HOME.php

www.montsegur.org

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FRA IL 1480 E IL 1680

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Fra il 1480 e il 1680 nella storia atesina si inserisce una pagina che ha il sapore di leggenda.

Per circa un secolo e mezzo infatti si susseguirono processi giudiziari contro maghi, streghe

e stregoni. E questo aspetto della vita atesina che va considerato con interesse anche

se in effetti non si discosti gran che nei particolari da analoghi episodi registrati al di

là delle Alpi e a sud di Trento.

Processi contro supposte streghe e contro stregoni, furono celebrati in ordine di tempo

un po’ dappertutto.

Nel 1548 a Luson, nel 1550 a Volturno, nel 1592 ad Anterselva, nel 1595 a Sesto Pusteria,

nel 1645 a Rodengo, nel 1690 a Merano, nonché nella diocesi di Forni.

Roma era il principio.

Per offrire un indice delle caratteristiche di siffatti procedimenti ci riferiremo al processo

di Rodengo, del quale esiste tuttora un’ampia e ‘romanzata’ e direi ‘romanizzata’

documentazione.

Protagonista fu certo Mattia Perger, DETTO L’ORCO DI RODENGO, abitante in un maso

di Monte Ponente sulla strada della Plose.

Per molti anni il Perger sfuggì all’attenzione del grosso pubblico sino al giorno in cui

circolò una strana voce sul suo conto. Egli aveva – dicevano i valligiani – venduto l’anima

al diavolo e in compenso era diventato l’amante di una strega, possessore di segreti infami

sulla distribuzione della vita e della morte, della felicità e della infelicità.

Non corse molto tempo, che i sospetti divennero certezza.

I magistrati della zona, sulla scorta di precise DENUNZIE, ordinarono il suo arresto.

In ceppi Mattia Perger fu condotto a Rodengo, dinanzi al giudice Michele Schgraffer.

Contava 58 anni e il viso mostrava i segni di un incipiente decadimento fisico.

Gli occhi vivaci e cattivi esprimevano tuttavia una vitalità prepotente.

L’arresto fu parco di ammissioni: non negò d’aver tenuto una condotta morale

deplorevolissima – vagabondaggio e disobbedienza ostinata alle sacre scritture –

ammise pure d’essersi occupato di astrologia e di avere indicato ad alcuni contadini

il mezzo per allontanare dai campi il pericolo di rovinosi temporali. 

Poi si chiuse in un mutismo impenetrabile, o meglio parlò ancora, ma soltanto per

riepilogare ciò che aveva affermato.

I giudici lo lasciarono intanto in pace e chiamarono a deporre un contadino di Castelrotto,

certo Mairegger, proprietario di un mulino, il quale narrò una storia che fece rizzare i 

capelli sulle teste dei giudici. 

Il Perger batteva spesso alla sua porta e molto spesso era anche trattenuto a cena.

Una sera il Perger, raccontò un episodio strano avvanuto in un certo periodo della 

sua esistenza, durante il quale s’era dato alla professione del MUGNAIO.

” S’era accollato – DISSE IL TESTE – in un angolo della cucina, e roteava gli occhi 

spiritati. Le parole gli uscivano a malapena, sibilanti dalla bocca….

– Narra, narra, gli dicemmo, ed egli:

– Nel mio mulino s’erano rifugiati tutti i topi della regione; ratti, topacci, topini gialli, 

neri, bianchi….

Quando la ruota si muoveva urlavano pazzamente in coro: ” NON MI UCCIDERE…”.

– Ebbene, gli chiedemmo, e poi?…..

– …. E poi nulla!….

Sorrideva di un riso sinistro che mai fino allora, era errato sulle sue labbra. 

Al mattino successivo se ne andò, dopo aver chiesto una ciotola di latte….Non ve ne era 

in cascina e gli fu risposto garbatamente di no. 

Se ne andò agitando convulsamente le mani e profferendo oscure frasi di minaccia.

– Ebbene, è tutto qui? – chiesero i giudici. 

– Questo non è che il principio! Qualche ora dopo la ruota del mulino fu messa in moto.

Girava a stento, quasi fosse inceppata da durissimi ostacoli. Fu aperto lo sportello e 

esaminato il grano: era frammisto a resti macinati di GROSSI TOPI! …..

Il teste si asciugò il sudore freddo, che il ricordo dell’episodio gli faceva fermentare in 

fronte, poi riprese: 

– Il mulino fu ripulito, la macinazione riprese, l’incidente si ripeté. Così per molti 

mesi…ANNI…SECOLI!!

(M. Ferrandi, L’Alto Adige nella storia)

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Pietro Autier 1.JPG

  

 

ZAPATECUS, MESSICO giugno 1975

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– Vuole sapere se sei sempre dell’idea di partecipare.

– Sì, certo, disse Jessup.

L’anziano brujo tornò alla sua cantilena.

Una delle donne portò fuori una grossa pignatta e l’appoggiò sulle pietre, direttamente

a contatto col fuoco. Jessup si sporse in avanti per vedere cosa contenesse.

Era per un quarto piena di poltiglia giallastra.

Il brujo spiegò trattarsi di teste di funghi bollite, los honguitos, che da due giorni ormai

erano state messe a fermentare, cioè da quando erano tornati sui campi sacri.

Ripigliò a cantinelare e cominciò ad avvolgere intorno all’estremità forcute della radice

quelli che sembravano eseere dei viticci.

Sollecitato da Jessup, Echeverria domandò al vecchio: ” Che tipo di esperienza incontrerà

il mio amico?”.

Senza smettere il suo lavoro il brujo rispose:” Farà ritorno alla sua Prima Anima”.

Echeverria tradusse la risposta, Jessup, che intanto controllava i nastri, sollevò di

colpo lo sguardo: ” Ha adoperato esattamente quella terminologia?”.

– Sì, disse Echeverria.

– E’ praticamente buddismo, mormorò Jessup, introducendo nel registratore il nastro

nuovo. Appena cominciò a girare, domandò a Echeverria di chiedere al vecchio: ” Che

aspetto ha la Prima Anima?”.

Echeverria tradusse.

Il vecchio brujo rispose.

Echeverria di nuovo tradusse.

– E’ roba NON-NATA.

Jessup fissò il volto del brujo: sembra avere terminato la preparazione della radice e

adesso guardava Jessup.

L’ultimo spicchio di sole era appena scomparso dietro le vette lontane, gettando nella

piccola valle un’improvvisa ombra profonda.

Jessup non riusciva a distinguere i lineamenti del vecchio, anche se stava appena a

due metri da lui, però ne vedeva gli occhi che rilucevano come quelli di un felino.

Il brujo gli rivolse un discorso insolitamente lungo, sei frasi in spagnolo, e alla

conclusione di ciascuna attese che Echeverria traducesse.

– Starai male, disse il vecchio.

– Poi sarai lanciato nel vuoto.

– Vedrai un punto.

– Il punto diventerà una scia.

– E’ la FESSURA TRA IL NULLA.

– Da questo NULLA uscirà la tua ANIMA  NON-NATA.

Jessup annuì. Incredibile. Neanche stesse parlando con un lama tibetano.

(Paddy Chayefsky, Stati di allucinazione)

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ZAPATECUS, MESSICO giugno 1975

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Gli Hinchi, spiegò a Echeverria e a Jessup, conservavano poco dell’originaria religione

animistica, nient’altro ormai che un superficiale rispetto per Quetzalcoatl, il dio serpente

piumato. Chissà come, avevano sviluppato un proprio codice religioso basato sulle

forze spirituali e vivificatrici.

Jessup ci trovò una curiosa analogia con le filosofie orientali.

La tribù intanto riempiva grossi sacchi di funghi, freshe foglie, petali, baccelli e bianchi

tuberi, e lo faceva attraversando lentamente il sacro altopiano alla maniera dei raccoglitori

di cotone, talvolta inginocchiandosi per liberare con le mani le radici.

Jessup se ne stava in disparte tenendo pronto il registratore portatile mentre Echeverria,

che era un botanico, spiegava come le piante raccolte fossero sinicuiche ovvero Hema

salicifolia, mentre i funghi erano quasi certamente Amanita muscaria, ‘ potentemente

psichedelici e alquanto pericolosi in quanto contenenti taluni alcaloidi della

belladonna, antropina, scopolamina.

La sinicuiche è una pianta tenuta in alta considerazione presso parecchie tribù indie.

Ho avuto modo di incontrarla in luoghi tanto settentrionali quanto Chihuahua.

A te dovrebbe interessare particolarmente.

Gli indi sostengono che provoca ricordi antichi.

La chiamano Primo Fiore’.

– Primo nel senso primordiale?

Sì, nel senso più antico.

– Mi piacerebbe provarla, disse Jessup.

– Credi che mi accoglierebbero nei loro riti?

– Mi pare gente socievole, osservò Echeverria.

Il 12 luglio fecero tutti ritorno nel territorio della tribù che era in una valle.

Quasi tutti si lanciarono in una tesguinada, una festa di due giorni a base di birra di

mais nel corso della quale alcune donne prscelte macinavano le varie radici, germogli,

petali, foglie.

Le polveri che ricavavano e anche i funghi spezzettati venivano fatti macerare per un

anno in zucche svuotate e poi ben chiuse. Vennero quindi portate fuori le zucche dell’anno

precedente e iniziarono i preparativi per il rito del fumo.

Soltanto cinque uomini, los escogidos, vi prendevano parte.

Uno di essi era ovviamente il vecchio brujo.

La cerimonia ebbe luogo davanti alla casa, una sorta di baracca dotata di una traballante

verenda sorretta da un paio di pali marcescenti.

Accesero un fuoco accucciandovisi intorno.

Il focolare era costituito da tre grosse pietre.

Il brujo uscì dalla baracca portando un sacco, che svuotò lentamente.

Estrasse per prima cosa un coltello da caccia lungo più di venti centimetri: riluceva

bluastro nella luce del tardo pomeriggio. Poi tirò fuori un sacchetto di cuio marrone,

poi ancora un vecchissimo astuccio anch’esso di cuio, da cui tolse la pipa cerimoniale:

un gambo scuro, rossastro e lungo una ventina di centimetri con all’estremità un fornello

annerito. Dispose questi oggetti in ordine su una coperta, poi si chinò nelle quattro

direzioni, cantilenando piano. Mise la mano nel sacco e ne estrasse un mazzo di biache

radici legate insieme: ne scelse una e con un coltello la tagliò.

(Paddy Chayefsky, Stati di allucinazione)

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UNA DIAGNOSI (terza seduta)

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Innanzitutto il materiale etnografico non accredita alcuna base ‘biologica’ alla

cosiddetta malattia sciamanica, che apparentemente compare negli anni della

maturazione sessuale. Ci sono certamente molte testimonianze secondo le

quali la malattia comincia a manifestarsi nel futuro sciamano durante la

pubertà, ma la letteratura abbonda anche di notizie su persone in cui questi

disturbi ebbero inizio all’età di venti, trenta o persino quarant’anni.

Un ‘Selkup che diverrà sciamano si ammalerà a diverse età, a 14 anni o 15

anni, ma anche più tardi, a 20 o 21 anni’, scrive E.D. Prokof’ Eva.

E leggiamo in Anokhin:’ L’inizio della chiamata allo sciamanesimo varia tra

i 6 e i 50 anni di età. La più alta percentuale la riceve nel ventesimo’.

Le affermazioni di questo tipo sono moltissime e, in base al materiale in mio

possesso, un buon numero di sciamane uzbeche furono afflitte dalla

malattia ben dopo il matrimonio, quando avevano già avuto da uno a tre

figli.

Incontrai personalmente una di esse, alla quale gli spiriti erano apparsi intorno

ai 60 anni. Quindi, la cosiddetta malattia sciamanica non è necessariamente e

naturalmente connessa con i cambiamenti corporei legati all’età e si può presumere

che dipenda da fattori di diversa natura.

Risulta necessario risalire alle origini della civiltà umana.

Tanto per cominciare, nella remota antichità si pensava che pazzia e disordine mentale

fossero causate dal volere degli spiriti, perciò una persona ‘posseduta’ sarebbe dovuta

svenire e avrebbe dovuto assumere comportamenti inspiegabili in una mente sana.

La necessità di avere attacchi e di manifestare sintomi di pazzia potrebbe dunque

essere stata suggerita allo sciamano dalle tradizioni della sua gente.

Chi fosse stato scelto dagli spiriti, infatti, sarebbe caduto preda di attacchi non perché

epilettico o nevrotico, ma perché sapeva, fin dall’infanzia, che essi colpiscono sempre

e inevitabilmente coloro che sono destinati a diventare ‘servitori degli spiriti’.

(M. M. Balzer, V.N. Basilov, I mondi degli sciamani)

…allego in PDF dichiarazione dei diritti dei nativi e segnalo due siti…

dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni.pdf

http://www.unric.org/it/diritti-umani/54

http://www.nativiamericani.it

sciamani.jpg

QUELLI DI CARTAGENA

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Luogo: Sudamerica; data: nomembre 1735; porta: Cartagena de las Indias.

Con null’altro che i passaporti firmati dai re                      sud america.jpg

borboni, i nostri filosofi della natura avevano

fatto breccia nelle pareti fitte di licheni della

ciclopica fortezza posta di guardia al fondaco

per eccellenza delle Americhe.

Percorsa la Boca Chica ed entrati nella baia,

i nostri furono come sopraffatti dagli ardenti

affluvi dei fiori, dall’aroma di vaniglia, dai

piacevoli odori di delizia della terra ferace attorno al gran porto.

Ogni cosa divenne motivo di delizia e meraviglia ai loro occhi.

Lungo il melacon, vestiti di bianchi calzoni attillati e di corte giacche pure bianche,

i copricapi di paglia brunastra, i peoni ondeggiavano sotto il peso de ‘las cosas de

Espana’: pelli di Cordova, vino della Mancia, arrobas d’olio di Jaén, e prodotti delle

fabbriche di tutta Europa – oggetti di vetro, armi da fuoco, tessuti di Madras.

Sul litorale, lambito dalla risacca una teoria di palme; balsaminacee e acacie, in

piena fioritura, empivano a onde le strade animate dal loro profumo.

Ai margini della città, i nostri attraversarono boschetti di alberi di cacao; di quel

cacao che dava la cioccolata, che solo i parigini più ricchi potevano permettersi.

Mangiarono papaya, guyaba, chirimoya; si empirono da scoppiare del frutto

delizioso e tenero del sapote: si sciolsero in rapsodie al gusto dell’ananasso,

‘che maturo e scortecciato, trabocca a tal punto di succo, da sciogliersi interamente

in bocca’.

Cartagena – non tardarono a scoprire – era il perno, l’arteria commerciale principe

della Spagna e i reami di questa sul Pacifico. Ogni legno diretto al Nuovo Mondo

era costretto a farvi il primo scalo. L’onore di essere tra le uniche porte d’accesso alle

Americhe spettava, oltre che a Cartagena, a Puerto Bello (Panama) e a Vera Cruz (Messico).

I convogli provenienti dalla Spagna toccavano per prima Cartagena, dove sbarcavano

il carico destinato a quella che ora è la Colombia ed era allora il vicereame di Santa Fe.

La scelta di Cartagena era stata determinata non tanto dalla posizione geografica, quanto

dall’inaccessibilità del sito della medesima, che ne faceva una città praticamente

inespugnabile.

Passeggiandovi, e considerando anche i sobborghi, i francesi la giudicarono ‘ben disegnata’.

Strade dritte, ampie, uniformi e ben lastricate; case in gran parte di pietra, talune di

mattoni, in generale a un solo piano oltre il pianterreno, con appartamenti abilmente

progettati.

Cartagena aveva il suo governatore, il quale, sebbene nominato dal re, dipendeva dal

viceré; il suo cabildo, che amministrava gli affari locali; una guarnigione con un

comandante responsabile verso il governatore: e una sede DELL’ INQUISIZIONE

che non dava conto di sé a nessuno.

Per i francesi, freschi freschi da Parigi dove vigeva libertà d’azione e dove la libertà di

parola, purché si osservassero le sfumature dell’urbanità, permetteva  di dire tutto

ciò che si volesse (o quasi), il constatare la presenza concreta della SANTA INQUISIZIONE

fu un rude colpo. ROBA DA MEDIOEVO, né più né meno.

Fondato nel 1569 per decreto di Filippo II, IL TRIBUNALE era composto di tre inquisitori,

due segretari e un certo numero di accoliti che ne metteva in pratica le decisioni:

IMPICCANDO, BRUCIANDO sul rogo, incarcerando.

Gli spiritacci di Cartagena dicevano che il Tribunale consisteva di ‘ UN SANTO CRISTO

DOS CANDELEROS Y TRES MADEROS’ e cioè un crocefisso, due candelabri e tre babbei;

ma, data la potenza del medesimo, che andava ben oltre quella dell’autorità temporale,

sarebbe stato poco prudente per uno straniero far eco a simili sentimenti.

Il Tribunale deteneva il controllo dell’intera vita INTELLETTUALE degli abitanti, esercitando

una rigida supervisione (COSTANTE E TEMPORALE) su ogni cosa, incluse INTRODUZIONE,

PUBBLICAZIONI E VENDITA di qualsiasi forma di prodotto letterario.

I librai erano tenuti a fornire elenchi dei libri in vendita e a distruggere quelli condannati

dall’Inquisizione: tale era il potere di questa.

La popolazione della ‘Perla delle Indie’ aveva imparato da tempo a tenersi lontana dagli

occhi del Tribunale e, per buona memoria, amava ripetersi il proverbio ‘DE REY E

INQUISICION – CHITON’.

A Cartagena, gli accademici incontrarono i capitani dell’Armada Real destinati a esser loro

colleghi nella misurazione dell’arco meridiano. Si trattava dell’emerito Don Jorge Juan y

Santacilla, matematico e comandante dell’ordine di Aliaga e di Malta, e del suo vice

e portaparola del re don Antonio de Ulloa, giovane, notevolmente astuto, matematico

valente e, per breve periodo, governatore della Luisiana.

Il re aveva dato loro due ordini: contribuire al meglio delle possibilità alla riuscita

del programma scientifico dei francesi e IMPEDIRE AI MEDESIMI OGNI INVESTIGAZIONE

DEL REAME AL DI FUORI DI DETTO PROGRAMMA.

Erano stati inoltre incaricati di compilare un rapporto sullo ‘stato dell’impero coloniale’,

al quale diedero titolo di NOTICIAS SECRETAS DE AMERICA.

Questo rapporto, il più sagace e penetrante mai stato scritto su un impero coloniale, con

corredo di raccomandazioni di riforma ben specificate, non provocò misure di alcun

genere né venne pubblicato.

In seguito, ne capitò in mano inglese una copia, che fu stampata 75 anni dopo la

stesura.

PER IL VERO POCO O NULLA SI SEPPE MAI DELL’INTREPIDA COLONIA….DURANTE

LA PERMAMENZA DEI COLONI.

(Charles-Marie de La Condamine, V.V. Hagen, Scienziati-Esploratori alla scoperta

del SudAmerica)

….in riferimento ai tribunali dell’inquisizione….

www.galileofirenze.it

www.museogalileo.it

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