I ROGHI DEI LIBRI

Nella sua opera                                                                             879675678987.JPG

sulla distruzione dei

libri nell’antichità,

W. Speyer scrive:

sarà facile “convenire

che la decisione di

bruciare i libri eretici,

analogamente ai roghi

dei libri cristiani ordinati

dagli imperatori pagani,

in genere non va attribuita

all’arbitrio di una volontà

statale posta sotto l’influenza

della Chiesa.

In base alle premesse spirituali della loro concezione del mondo e di Dio né i pagani

né i cristiani, convinti che da simili opere fosse minata la salvezza della loro esistenza,

potevano tollerare quei libri”.

L’estinzione colpisce sia i testi che i nomi.

Non è più consentito nominarli.

Né allora né quasi duemila anni dopo: chi aveva sangue ebraico o era imparentato con ebrei

– escluso dalla Camera della cultura del Reich – non poteva più venire nominato sulla stampa.

Per la stampa tedesca le opere degli emigrati non esistevano.

La pratica del rogo, vecchia di millenni, è particolarmente significativa.

Sono pienamente daccordo con Mosse, che nel suo importante studio sulla nazionalizzazione

delle masse collega il rituale del rogo alla lotta contro i demoni.

Niente più del rogo può rendere totale la distruzione.

Fenomeni naturali come i terremoti, o fenomeni storici come le distruzioni delle città, lasciano

dietro di sé delle rovine, e dalle rovine è sempre possibile ricostruire il passato.

Le élites al potere lo hanno sempre saputo.

Esistono certo grandi differenze tra i meccanismi sociali che conducono al rogo dei libri in un

impero cinese o romano, in regimi cioè la cui autorità è consolidata e la cui classe dirigente 

non ha bisogno di ricorrere all’azione della canaglia, né la tollera, e quanto invece avvenne nel

periodo della presa del potere da parte dei nazisti.

In quel precso momento si affacciò sulla scena della storia la canaglia, in tutto simile a un 

branco di comparse guidate da un abile regista. Essa doveva rimuovere la consapevolezza

della propria condizione di inferiorità sociale, al punto da non lasciare affiorare alla coscienza

la differenza esistente tra sé e il potere.

I rituali della distruzione posti in atto dai nazisti spiegavano in modo inequivocabile la

pervertita nuova storia della creazione del Reich millenario: la distruzione del passato è

il motivo portante del discorso che Goebbels tenne a Berlino in occasione dell’autodafé del

10 maggio 1933:

” FATE BENE QUESTA NOTTE AD AFFIDARE ALLE FIAMME LE PROFANAZIONI DEL

PASSATO. E’ QUESTA UNA FORTE, GRANDE E SIMBOLICA AZIONE, CHE DOVRA’

DOCUMENTARE DI FRONTE AL MONDO INTERO LA SCOMPARSA DEI FONDAMENTI 

SPIRITUALI DELLA REPUBBLICA DI NOVEMBRE. DA QUESTE ROVINE SI LEVERA’

VITTORIOSA LA FENICE DI UN NUOVO SPIRITO…”

Come vedete, la fenice si dovrà levare dalla cenere senza residui del passato, ‘creatio ex nihilo’.

Ironicamente, quelle dalle quali si leverà la fenice nazista sono ceneri comuniste ed ebraiche.

Che tentazione, per un’interpretazione psicanalitica!

Il presente diventa passato.

La storia comincia adesso, in questo momento, come disse Hanns Johst nel 1932:” Lo stato

nazionalsocialista e la cultura coincidono”.

Non c’è cultura prima del nazionalsocialismo, ma neppure dopo ne esiste alcuna.

E’ la festa del nuovo nell’estinzione del vecchio.

L’atto del celebrare, nel quale sono associati la canaglia e il potere, è tipico e specifico del

carattere rituale di questo comportamento autoritario.

Esso ha sempre e nuovamente bisogno della festa, della celebrazione, del tutto sconosciuta

invece all’antichità classica e cinese.

Ancora nel 1945, in occasione dei giganteschi bombardamenti aerei, lo strepitante

‘Werwolfsender’ (la stazione radio lupo mannaro) proclamava con grottesca sollenità da 

‘crepuscolo degli dei’: “Il nemico, che mirava a distruggere il futuro dell’Europa è riuscito

soltanto a distruggere il passato, così è scomparso tutto ciò che era vecchio e logoro”.

E:” Adesso che non vi sono altro che macerie, SIAMO COSTRETTI A RICOSTRUIRE

L’EUROPA”. 

MOSTRUOSA E RIDICOLA PROIEZIONE PSICOLOGICA DELLA MANCATA LIQUIDAZIONE

DELLA STORIA, LA CUI RESPONSABILITA’ E’ ADDOSSATA AL NEMICO!

Nel romanzo ‘Fahrenheit 451’ che tratta dei roghi dei libri lo scrittore americano di fantascienza

Ray Brandbury ha colto il carattere celebrativo della distruzione dei libri.

All’inizio Montag, il protagonista, il quale, è vero, finirà poi col cambiare idea, sentiva che 

‘il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non sai che 

direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiameggianti, incendiarie, per far cadere

tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia’.

Certo alla fine, quando un’esperienza amorosa lo avrà indotto a ravvedersi, Montag capirà:

” DIETRO OGNI LIBRO C’E’ UN UOMO”.

Ma il suo capo, questo Ximènes della fantascienza, luogotenente della squadra dei pompieri

nella quale presta servizio Montag, la pensa diversamente: ” NON STIAMO A PERDERCI IN

CHIACCHIERE SUGLI UOMINI LA CUI FAMA VA ETERNATA NEI SERVIZI FUNEBRI.

NON CI PENSIAMO NEMMENO. BRUCIAMO TUTTO, BRUCIAMO OGNI COSA! IL 

FUOCO E’ LUCE E SOPRATTUTTO E’ PURIFICAZIONE”.

Questo dialogo (che diagolo non è) tra Montag, che diventa un individuo allorché intuisce il

carattere dell’individualità dietro ogni libro, E UN FASCISTA CHE ORDINA L’OBLIO, 

potrebbe anch’esso servire da epigrafe al nostro …dialogo….

(Leo Lowenthal, I roghi dei libri)

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BREVE LETTERA

( Di seguito riporto breve messaggio recapitato via mail alla redazione della Repubblica,

Terranews, ed il Fatto, circa l’episodio avvenuto ieri notte in un campo Rom alla periferia

della capitale

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201008articoli/57977girata.asp

sperando solo che il caso abbia ucciso vite innocenti)

“Visto la mia ripetuta sensibilità in riferimento alla condizione disagiata dei rom, ed al

nuovo capro espiatorio cui sono soggetti in taluni paesi della comunità europea, chiedo

umilmente vostro interessamento circa questo ultimo episodio, sperando solo che 

il caso in forma di incidente abbia portato la prematura morte di un bimbo.

Considerando il problema rom dal punto di vista storico, credo che il dovere morale

dell’informazione in questa epoca buia possa far luce sui meccanismi malati della

storia cui talune minoranze sono soggette (…umilmente  Giuliano Lazzari)”.

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DIARIO DEL DOTTOR SEWARD

Il paziente zoofago continua                                 iolklkoi.jpg

a manipolizzare la nostra

attenzione.

Ha avuto una sola crisi, e

precisamente ieri, a un’ora

insolita.

Pochissimo prima di mezzogiorno,

ha cominciato ad agitarsi.

L’infermiere, che conosce i sintomi ha chiesto immediatamente aiuto,

per fortuna gli uomini sono subito accorsi: appena in tempo, perché

a mezzo giorno in punto Renfield è divenuto tanto violento, che è

accorsa tutta la loro forza per trattenerlo.

Nel giro di cinque minuti, ha cominciato a calmarsi in misura via via

crescente, per sprofondare infine in uno stato di malinconia, in cui è

rimasto fino a ora.

L’infermiere mi riferisce, che durante il parossismo, le sue urla sono 

tali da raggelare; ho avuto il mio bel daffare quando sono entrato nel

reparto per rassicurare alcuni altri pazienti che ne erano spaventati.

(Abbiamo pensato per l’occasione di trasferire il buon ‘Troia’, bravo e

assiduo lettore della bibbia, ad altra clinica in Francia dove sono così

premurosi di modo che Renfield non abbia a disturbarlo ne lui tantomeno

gli assidui parenti – della famiglia del ‘Troia’ – che lo vengono spesso a trovare

e donano splendore e lustro all’intera clinica con i loro dotti argomenti.

E’ proprio in peccato per ‘Troia’ un Renfield così pericoloso.).

Adesso è passata l’ora del pranzo al manicomio, ma il mio paziente 

continua a starsene rannichiato in un angolo, intento a rimuginare con

una espressione torva, imbronciata e offesa che si direbbe più un indizio

vago che un sintomo preciso. 

Non riesco ad interpretarlo….

(Bram Stoker, Dracula)

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GLI INSENSATI

Nel 1815 l’ospedale di Bethlém mostra i                              1122.jpg

pazzi furiosi per un penny, tutte le 

domeniche.

La rendita annuale

di tali visite ammontava

a circa 400 sterline:

questo presuppone la cifra

straordinariamente elevata di

96.000 VISITATORI L’ANNO.

In Francia, la passeggiata a Bicetre e lo                                                     87867567.jpg

spettacolo dei grandi insensati restano fino alla

Rivoluzione, una delle distrazioni

domenicali per i borghesi

sulla  riva sinistra. 

Mirabeau racconta  nelle sue 

Observation d’un voyageur anglais

che si facevano vedere i folli di Bicetre 

‘come bestie curiose, al primo tanghero che  vuol spendere un soldo’.

Si va a vedere mostrare i folli come alla fiera di Saint-Germain il saltimbanco che

ammaestra le scimmie. 

Alcuni carcerieri erano molto reputati per la loro abilità nel far loro eseguire mille

giochi di danza e di acrobazia, ricompensandoli con qualche colpo di frusta.

La sola attenuazione che si sia trovata, alla fine del XVIII secolo, fu di affidare ai 

folli il compito di mostrare i folli, come se la stessa follia dovesse mostrare ciò che

è.

‘Non calunniano la natura umana’.

Il viaggiatore inglese ha ragione di giudicare la funzione di mostrare i folli come

troppo penosa anche per l’uomo più agguerrito.

L’abbiamo già detto.

Si trova rimedio a tutto.

Sono i folli stessi che, nei loro intervalli di lucidità, sono incaricati di mostrare i 

compagni, e questi, a loro volta, restituiranno il favore.

Così i guardiani di questi infelici godono dei benefici che lo spettacolo procura loro,

senza avere una forza di insensibilità alla quale indubbiamente, non potrebbero mai

pervenire.

Ecco la follia eretta a spettacolo al disopra del silenzio degli asili, e che diventa scandalo

pubblico per la gioia di tutti. 

La FOLLIA CONTINUA A ESSERE PRESENTE SUL TEATRO DEL MONDO PIU’

CHE MAI.

(M. Foucault, Storia della follia)

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S’I’ FOSSE FOCO, ARDEREI ‘L MONDO

S’i’  fosse  foco,  arderei ‘l  mondo;

s’i’  fosse  vento,  lo  tempesterei;

s’i’  fosse  acqua  i’  l’annegherei;

s’i’  fosse  Dio,  mandereil’en  profondo;

s’i’  fosse  papa,  sare’  allor  giocondo,

ché  tutti  cristiani  imbrigherei;

s’i’  fosse ‘  mperator,  sa’  che  farei?

A  tutti  mozzarei  lo  capo  a  tondo.

S’i’  fosse  morte,  andarei  da  mio  padre;

s’i’  fosse  vita,  fuggirei  da  lui:

similemente  farìa  da  mi’  madre.

S’i’  fosse  Cecco, com’i’  sono  e  fui,

torrei  le  donne  giovani  e  leggiadre:

e  vecchie  e  laide  lasserei  altrui.

(Cecco Angiolieri)

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LORENZO DAVIDICO E LA SUA CHIESA…

Inquisito e spia dell’Inquisizione, confessore di eretici ed eretico, maestro di devozione

implicato in strategie poliziesche dei poteri romani: la condizione di Lorenzo Davidico,

seppur singolarissima, è indicativa degli aspetti (per altro immutati..) torbidi e intricati

che realtà di quei tempi di lotta senza quartiere poteva assumere. 

Ma il suo caso non dovette essere isolato.

Il rapido corso delle cose, nel giro di un decennio, poteva trasformare i simpatizzanti

delle nuove idee in testimoni d’accusa e perfino in delatori: moralità, solidarietà ma

anche sacramenti e istituzioni non venivano risparmiati. 

La confessione sacramentale veniva vista come uno strumento fra gli altri per mettere 

alle strette eretici. 

Il clima che emerge dai documenti inquisitoriali di quegli anni è di incertezza, paura.

La stagione liturgica del ‘perdono’ pasquale si rovescia nel suo contrario, con uno 

scatenamento di denunzie e di processi. Un popolo cristiano che discute e si interroga

sul significato e sul valore della confessione è costretto a piegarsi a pratiche complesse

e preoccupanti, da cui dipende non più solo la liberazione della propria coscienza ma 

la sicurezza della vita e della libertà personale. 

Un esempio storico dei fatti sopra detti.

A Siena l’orefice Angelo di Lorenzo, detto ‘il Riccio’, denunziò nel 1569 un lavorante 

della sua bottega, un certo Vivaldo, fiammingo di origine: non lo fece in confessione 

ma prima di confessarsi. La denunzia fu presentata il 10 febbraio: tempo di quaresima

e di confessioni. 

La sottoscrissero insieme il Riccio e un suo lavorante, Michele Greco. 

All’inquisitore raccontarono che erano andati a confessarsi e avevano detto al confessore

di conoscere ‘uno che poco teme Idio et mancho osserva le cose della Chiesa’; il confessore

non li aveva voluti assolvere ‘se non vengano a rivelarlo al Santissimo Officio’. 

Una storia lineare, a stare a questo racconto: una perfetta messa in esecuzione del disegno

concepito da quel ‘santissimo Officio’.

Ma le cose erano andate diversamente, come poi il Riccio raccontò al tribunale quando 

fu chiamato a confermare la denunzia. 

Vale la pena seguire il suo racconto: vi si trova la descrizione degli effetti del decreto del

Sant’Uffizio sulle strategie individuali e sui vincoli di un AMBIENTE CITTADINO E DI 

UN MONDO DI ARTIGIANI.

Il Riccio conosceva bene Vivaldo, perché lo teneva a pensione in casa sua. Lo vedeva 

mangiare carne nei giorni di astinenza; vedeva che non andava a messa. Erano segni 

chiari delle sue idee. Per di più, di quelle idee si discuteva liberamente in casa:

Vivaldo, parlando con la moglie dell’orefice, esponeva francamente le sue opinioni

ostili alla messa e all’adorazione dell’ostia consacrata. 

Ma tutto questo non sembra aver creato al Riccio alcun problema fino al giorno in 

cui seppe dell’ordine di denunziare in confessione i sospetti di eresia. 

Lo seppe nella stagione delle confessioni, in quaresima; ne sentì ‘ragionare da diverse

persone’. Dicevano ‘che nessuno poteva essere assoluto che havesse praticato o

sapesse chi fusse sospetto di heresia’; dicevano cose anche più preoccupanti: che, a 

non denunziare l’eretico o il sospetto, si correva il rischio di subire la stessa sua pena

il giorno in cui la cosa fosse saltata fuori in altro modo. 

Il Riccio non si contentò dei discorsi della gente, ma volle sincerarsi di persona.

Andò al convento francescano dell’Osservanza, a parlare con un frate, un tipo ‘piccoletto

et allegro’, che confermò le voci: ‘mi disse che, essendo preso detto Vivaldo e si fusse

scoperto, che io saria corso nella medesima pena per haverlo tenuto in casa mia’.

Emerge da questo che il frate, confessore potenziale, si era fatto dire tutto, anche il nome 

dell’eretico: e questo poté forse alimentare l’inchiesta sui fiamminghi a Siena che 

già era avviata su altre basi. 

Dopo questa mezza denunzia, il Riccio, che voleva essere proprio sicuro del fatto suo,

andò a parlare ancora con un prete del Duomo di Siena e con un ‘teatino’ (forse un gesuita?).

La risposta era sempre la stessa.

A questo punto, il Riccio si decise: andò all’Inquisizione, insieme al suo lavorante Michele,

e fece regolare denunzia. Poi andò finalmente a confessarsi: e al frate, che subito lo 

‘esortò’ a denunziare Vivaldo, poté rispondere che già lo aveva fatto: il frate, non 

contento, ‘quasi glie ne chiedeva la fede per esser sicuro di posserlo assolvere’.

E così Vivaldo fu arrestato e, per ordine del Sant’Uffizio da Roma, gli fu dato 

‘di buona corda’.

Dalla sua deposizione, emerse un altro aspetto di quella confessione, riformata dall’intervento

inquisitoriale. Vivaldo dichiarò all’inquisitore di Siena che si era confessato, sì, ma lo

aveva fatto per nascondere i risvolti segreti della sua vita, il modo in cui era diventato

seguace delle idee calviniste pur mantenendo in apparenza comportamenti cattolici:

” Mi son confessato per non dar ad intendere che io fussi lutherano….e mi son comunicato

per mostrar che io ero buon christiano”.

La confessione, innestata sul tronco di un SISTEMA POLIZESCO e trasportata sul banco

del tribunale come prova a discarico, mutava natura. Diventava ESIBIZIONE RITUALE,

prova di conformità e dunque atto di CONFORMISMO. 

E quello che Vivaldo diceva di se stesso – di essersi confessato per ingannare le autorità –

altri lo sospettarono e lo dissero di amici e di vicini.

La pianta del sospetto cresceva vigorosa sulla ambiguità di segno introdotta nella pratica 

dei sacramenti; e trovava alimento nella rottura dei vincoli sociali prodotta da quella 

alterazione della confessione dei peccati. 

L’orefice fiammingo Vivaldo, quando si era visto scoperto, aveva pensato a un tradimento

di un suo amico e compagno di mestiere, Alessandro. Incontrandolo in piazza del campo

a Siena, ‘alla bocca di san Martino’, lo aveva investito con violenza:” Quando si va a 

confessar, si confessano e’ peccati suoi e non quelli di altri”.

Era un’idea della confessione sulla quale Bartolomeo da Medina si sarebbe detto daccordo.

Ma quell’idea, che pure era ufficialmente sostenuta nella letteratura per i confessori, era

completamente superata e stravolta dall’intervento dell’Inquisizione. 

Di fatto, la confessione era diventata il luogo delle delazioni e delle denunzie segrete. 

Chi si rifiutava di prestarsi a quell’uso, pagava di persona. 

Alessandro non aveva tradito l’amico; anzi, ‘per non revelar’, non era stato assolto e non si 

era potuto comunicare. Era una gran prova di amicizia e quella sera i due festeggiarono la

fiducia ritrovata con UNA CENA ALL’ OSTERIA. 

Ma dovevano pagar cara quella cena: di lì a poco, si ritrovarono tutt’e due davanti agli 

aguzzini dell’Inquisizione.

(A. Prosperi, Tribunali della coscienza)

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I’ HO SI’ POCO DI QUEL CH’I’ VORREI

I  ho  sì  poco  di  quel  ch’i’  vorrei,

ch’i’  non  so  ch’i’  potesse  menomare;

e  sì  mi  poss’un  cotal  vanto  dare,

che  del  contraro  par  non  travarei;

ché  s’i’  andass’al  mar,  non  credarei

gocciola  d’acqua  potervi  trovare:

sì  ch’i  son  oggimai ‘n  sul  montare,

ché,  s’i’  volesse, scender  non  potrei.

Però  malinconia  non  prenderaggio,

anzi  m’allegrerò  del  mi’  tormento,

come  fa  del  rie  tempo  l’om  selvaggio.

Ma’  che  m’aiuta  sol  un  argomento:

ch’i  aggio  udito  ad  un  om  saggio

che  ven  un  dì,  che  val  per  più  di  cento.

(Cecco Angiolieri)

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IL RIMPATRIO

Tutte le notti, durante il sonno, furtivamente mi invadeva la febbre: una febbre intensa,

di natura sconosciuta, che toccava il suo massimo verso il mattino.

Mi svegliavo prostrato, cosciente solo a mezzo, e con un polso, o un gomito, o un

ginocchio, inchiodati da dolori lancinanti.

Giacevo così, sul pavimento del vagone o sul cemento delle banchine, in preda al

delirio e al dolore, fin verso mezzoggiorno: poi, entro poche ore, tutto rientrava

nell’ordine, e verso sera mi sentivo in condizioni pressoché normali.

Leonardo e Gottlieb mi guardavano perplessi e impotenti.

Il treno percorreva pianure coltivate, città e villaggi foschi, foreste dense e selvagge,

che credevo scomparse da millenni dal cuore dell’Europa: conifere e betulle talmente

fitte che, per attingere la luce del sole, dalla reciproca concorrenza erano costrette a

spingersi disperatamente all’insù, in una verticalità opprimente.

Il treno si faceva strada come in gallerie, in una penombra verde-nera, frammezzo

ai tronchi nudi e lisci, sotto la volta altissima e continua dei rami fittamente intralciati.

Rzeszow, Przemysl dalle truci fortificazioni, Leopoli.

A Leopoli, città-scheletro, sconvolta dai bombardamenti e dalla guerra, il treno sostò

per tutta una notte di diluvio. Il tetto del nostro vagone non era stagno: dovemmo

scendere, e cercare riparo. Con pochi altri, non trovammo di meglio che il sottopassaggio

di servizio: buio, due dita di fango, e feroci correnti d’aria.

Ma a metà notte giunse puntuale la febbre, come una pietosa mazzata sul capo, a

portarmi il beneficio ambiguo dell’incoscienza.

Ternopol, Proskurov.

A Proskurov il treno giunse al tramonto, la locomotiva fu staccata, e Gottlieb ci assicurò

che fino al mattino non saremmo ripartiti. Ci disponemmo pertanto in stazione.

La sala d’aspetto era molto ampia: Cesare, Leonardo, Daniele ed io prendemmo

possesso di un angolo, Cesare partì per il paese in qualità di addetto alla sussistenza,

e tornò poco dopo con uova, insalata e un pacchetto di tè.

Accendemmo un fuoco sul pavimento.

Cesare fece cuocere le uova, e preparò un tè abbondante e bene zuccherato.

Ora, o quel tè era ben più gagliardo di quello nostrano, o Cesare doveva aver sbagliato

le dosi: poiché in breve ogni traccia di sonno e di stanchezza fuggì da noi, e ci sentimmo

invece vivificati da uno stato d’animo inconsueto, alacre, ilare, teso, lucido, sensibile.

Perciò, ogni fatto e ogni parola di quella notte è rimasto impresso nella mia memoria,

e ne posso raccontare come di cose di ieri. 

La luce del giorno svaniva con estrema lentezza, prima rosea, poi viola, poi grigia; seguì

lo splendore argenteo di un tiepido plenilunio.

Accanto a noi, che fumavamo e discorrevamo vivacemente, sedevano su una cassetta

di legno due ragazze vestite di nero, molto giovani. Parlavano fra loro: non in russo 

bensì in yiddish.

– Capisci cosa dicono? – chiese Cesare.

– Qualche parola.

– Dài, allora: attacca. Vedi se ci stanno.

Quella notte tutto mi sembrava facile, perfino capire il yiddish.

Con audacia inconsueta, mi rivolsi alle ragazze, le salutai, e sforzandomi di imitarne

la pronunzia chiesi loro in tedesco se erano ebree, e dichiarai che anche noi quattro

lo eravamo.

Le ragazze scoppiarono a ridere: ” Voi non parlate yiddish: dunque non siete ebrei!”

Nel loro linguaggio, la frase equivaleva ad un rigoroso ragionamento.

Eppure eravamo proprio ebrei, spiegai.

Ebrei italiani: gli ebrei, in Italia e in tutta l’Europa occidentale, non parlano yiddish.

Questa, per loro, era una grande novità, una curiosità comica, come se qualcuno

affermasse che esistono francesi che non parlano francese…..

(Primo Levi, La Tregua)

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L’IMPALATORE (2)

– Guarda, guarda!                                                                           romania.jpg

– evidentemente gli era bastata un’occhiata –

“una è scritta da voi, e al mio amico

Peter Hawkins. 

L’altra…”

e a questo punto ha notato gli

strani caratteri, e il volto gli si

è oscurato, gli occhi hanno avuto

un lampo perfido – ” l’altra E’ UNA

COSA INDEGNA, UN OLTRAGGIO, ALL’AMICIZIA E ALL’OSPITALITA’!

Non è firmata. Bene, qund’è così NON CI INTERESSA…”

E, con tutta tranquillità, ha avvicinato lettera e busta alla fiamma della lampada,

(non oserai quelle rime….sono solo fuoco che brucia…tu essere….), fino a 

ridurle in cenere. 

Poi ha proseguito.

” La lettera a Hawkins…Be’, quella naturalmente la spedirò, visto che è priva di 

materia, e visto che è vostra. Le vostre missive per me sono sacre. 

VOGLIATE SCUSARMI, AMICO MIO, SE HO SPEZZATO IL SIGILLO, ma sono 

tzigano anche io e all’oscuro ….

Non volete richiuderla?”

Mi ha porto la lettera e, con un corretto inchino DA PRINCIPE, mi ha dato una 

busta nuova. No ho potuto far altro che riscrevere l’indirizzo e consegnargliela

in silenzio.

Qand’è uscito dalla stanza, ho udito una chiave girare piano nella serratura.

Un istante dopo, sono corso all’uscio, l’ho tentato: era serrato.

Quando un paio d’ore dopo, il Conte è tornato in silenzio nella stanza, mi ha risvegliato

perchè ero addormentato sul divano. 

I suoi modi sono apparsi estremamente cortesi e cordiali; avvedutosi che avevo 

dormito, ha detto: ” Oh, amico mio, siete stanco? Andate a letto. E’ quello il miglior

luogo di riposo. Questa sera può darsi che io non abbia il piacere di conversare con 

voi, perché ho molte INCOMBENZE DA SBRIGARE. Ma voi dormite pure, ve ne prego.”

Sono andato in camera mia e mi sono messo a letto e, strano a dirsi, ho dormito senza 

sogni. 

La disperazione ha le sue calme.

(Bram Stoker, Dracula)

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L’IMPALATORE

DIARIO DI JONATHAN HARKER

21 Agosto

C’è una possibilità di fuga, o per lo meno di far giungere miei notizie a casa.

Un gruppo di Szgany è giunto al castello e si è accampato nel cortile.

Codesti Szgany sono ZINGARI; ne ho trovato notizia nel mio libro.

Sono tipici di queste regioni, per quanto apparentati con tutti gli altri ZINGARI

del mondo (urlano, sbraitano, ululano, corrono, bevono …..).

Ve ne sono migliaia qui nella terra del DRAGO e in tutta la regione della Transilvania,

e campano in margine alla legge (in quanto la legge è presa da ben altre tribù).

Di norma, si mettono al SERVIZIO DI QUALCHE ARISTOCRATICO o BOYAR,

di cui assumono il nome.

Sono impavidi e non hanno religione, ma solo superstiziosi, e parlano unicamente

i vari dialetti della lingua roman.

Scriverò qualche lettera (come le precedenti sotto riportate) indirizzata ai miei, e

cercherò di convincerli a spedirle. Ho già parlato con loro dalla finestra, tanto

per fare conoscenza, e quelli si son tolti il cappello e hanno abbozzato inchini, e

fatto molti altri gesti poi corrono come forsennati con i loro cavallini, NON HO

CAPITO PIU’ DI QUANTO COMPRENDA CIO’ CHE DICONO…FRASI SCONNESSE…

Ho scritto due lettere.

Quella a Mina è stenografata, e in quella indirizzata al signor Hawkins, gli chiedo

semplicemente di mettersi in contatto con lei, alla quale ho spiegato la situazione

in cui mi trovo, tralasciando però gli orrori che del resto posso solo sospettare.

Se dovessi scriverle a cuore aperto, la getterei nell’angoscia e nel più mortale dei 

terrori. 

Se le lettere non partissero, ebbene, il Conte non perverrà a conoscere il mio segreto

né l’entità di ciò che ho scoperto…..

Ho consegnato le lettere; le ho lanciate attraverso le sbarre della finestra insieme

ad una moneta d’oro, cercando di far capire, con tutti i gesti possibili, che dovevano

essere spedite. L’uomo che le ha raccolte se le è premute sul cuore, si è inchinato,

se le è messe nel berretto.

Di più non potevo fare.

Sono tornato in punta di piedi nello studio e mi sono messo a leggere.

Visto che il conte non veniva, ho vergato queste righe….

Il Conte è venuto.

Mi si è seduto accanto e, con la più garbata delle voci, aprendo due delle lettere ha

detto: “Gli Szigany m’hanno dato queste, non so donde provengano ma naturalmente

me ne accerterò…..”

(Bram Stoker, Dracula)

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