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Angeles, ma prima di
arrivarci i due
vagabondarono a lungo,
facendo l’autostop.
Sostarono a Reading,
a St. Louis e ad
Albuquerque; quando
arrivarono a destinazione
non avevano un soldo in
tasca. Manco male che
Gerry aveva già una
discreta reputazione fra
i jazzmen, tanto che gli
riuscì di trovare da
suonare in diversi locali,
e in particolare al
Beach, dove nei weekend
si improvvisava in jam-
session a perdifiato.
Gli riuscì anche di scrivere
dieci arrangiamenti per
l’orchestra di Stan Kenton,
uno dei quali, Young
blood, suscitò la più
viva ammirazione degli
intenditori.
Poi trovò una nicchia
allo Haig, dove suonava tutti i lunedì sera.
Aveva cominciato con un trio, in cui il suo sassofono baritono era sostenuto soltanto da
una chitarra e una batteria, e poi, quasi inavvertitamente si era trovato a dirigere un
quartetto. Al suo fianco era stato messo Chet Baker, un trombettista di 23 anni, appena
congedato dall’esercito, scovato da Dick Bock, che organizzava le jam-session nel locale.
Nel quartetto, che era completatato dal bassista Bob Whitlock e dal batterista Chico
Hamilton, non c’era alcun pianista: Mulligan era dell’opinione che, in un gruppo come
il suo, un pianoforte fosse di disturbo. A sentire lui, l’idea di fare a meno del piano
gli era stata suggerita da Gale Madden, ed era stata già messa in pratica qualche
altra volta all’Est, quando il sassofonista aveva suonato in certi locali di Long Island
e del New Jersey.
“M trovai subito d’accordo con lei – spiegò poi Mulligan – sul fatto che il piano è
spesso usato male in una sezione ritmica. Avete a disposizione uno strumento dalle
illimitate possibilità come quello e ridurlo al ruolo di stampella di uno strumento
solista mi pareva assurdo”.
E ancora: “Il compito, ormai universalmente accettato, del pianoforte di suonare
costantemente gli accordi del giro armonico rende il solista di uno strumento a
fiato schiavo dei capricci del pianista”.
Mulligan si trovò invece benissimo con Baker, con cui tuttavia non andò daccordo
sul piano umano. Dick Bock apprezzò tanto il complessino che volle registrarlo per
realizzare i primi dischi di una Casa discografica, la Pacific Jazz, che, grazie a essi,
prese il via trionfalmente. Il quartetto di Mulligan ebbe infatti un immediato,
straordinario successo, tanto da rendere prigioniero per qualche tempo il suo
leader della formula da lui trovata.
“Il successo fu il risultato di una strumentazione e di una concezione musicale a
cui io non pensavo come a qualcosa di definitivo quando mi ci imbattei. – Ricordò
qualche anno dopo il sassofonista – In realtà le possibilità erano illimitate, ma
quando cominciai a portare il quartetto in giro per il Paese la gente mi chiedeva
invariabilmente ciò che aveva ascoltato sui dischi….e io pensavo che fosse mio
dovere suonare quello che il pubblico desiderava ascoltare.
Fu un compromesso….
Io non penso di essere sceso, così facendo, a compromessi con la mia integrità musicale,
ma questo mi impedì di suonare più cose nuove e di diversificare il mio approccio”.
(A. Polillo, Jazz)
Da http://giulianolazzari.splinder.com