IL VERME TRIONFANTE

Guardate! E’ serata di gala

in questi desolati recenti anni!

Una schiera d’angeli alati, avvolti

nei veli, inzuppati di lacrime,

siede a teatro ed assiste

a un dramma di speranze e timori,

mentre l’orchestra sospira, a sussulti,

la musica delle sfere.

Mimi, a immagine del Dio di lassù,

bisbigliano e parlottano sottovoce,

e di qua, di là volteggiando abilmente –

marionette che vanno e che vengono,

al cenno d’immani esseri informi,

che muovono in su in giù gli scenari,

scuotendo dalle loro ali di condor

l’invisibile Sventura!

Quel dramma variopinto – oh, siatene certi –

non sarà dimenticato!

Col suo Fantasma tallonato senza posa

da una turba che non riesce ad acciuffarlo,

attraverso un girotondo che sempre ritorna

allo stesso identico punto,

e con gli ingredienti di Follia, di Peccato

e d’Orrore ad animar l’intera vicenda.

Ma fate attenzione! Tra la calca dei mimi

s’insinua un mostro che striscia!

Rosseggia di sangue, s’attorce e si snoda,

viene avanti dal deserto della scena!

S’attorce! – s’attorce! Tra fitte mortali

i mimi gli fanno da pasto,

e i serafini piangono per quel sangue marcito,

di cui s’imbeve il dente del mostro.

Spenti – ora i lumi sono spenti!

E sopra a ogni sbigottita forma

s’abbassa il sipario drappo funereo,

come una raffica di tempesta,

mentre gli angeli, pallidi e ansanti,

levandosi e svelandosi, annunciano

che quel dramma s’intitola ‘L’uomo’,

e che l’eroe n’è il Verme Trionfante.

(E.A. Poe)

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IL CEDRO: TROMBA D’ORO DELLA SOLARITA’ (7)

NOMI – Cedrus da Arabi –                       cedro del libano.jpg

Serbin da Greci – Oxicedro

da molti – Reomiher da

Hebrei nel Genesis – 

Ginepro da Diascoride –

Sethim dal Esodo cap.

25 et 26 –

Alkitran da Serapione il

maggiore. 

GENERA – Soto questo nome

4 sonno le spezie di Cedri, 2 di

Theophrasto, queste dipinte

2, una delle sacre littere et una

Atlantica come dice M. Aloise

Anguillara ne suoi Pareri. 

Et quello de Diascoride son il Genepro volgare.

FORMA – Paragona la pianta ai ginepri e soggiunge in fine:”Et il maggiore il fruto di pino 

ma minor alquanto….

LUOGHO – In Phenice, in Licia, in Livorno et a Ostia apresso a Roma ne son in quantità

di questo Phenicea. Et in Istria, ma per esser simili a Genepri li tolghono in falo per Genepri.

In Cipri vengono in tanta procerita che cinque huomeni ci bisognia ad abraciare il tronco et

con altezza di 25 passa, ma gli optimi sonno in Africa, nel monte Libano et a Tripoli de

Soria. 

TEMPO – Sempre in ogni staggion sonno virenti. Suoi fruti nell’autunno, et sempre inanti

che maturati producono gli altri novelli fruti et molte volte il primo vede il terzio.

AMANO – Ne monti frigidi et sassosi sonno il suo proprio et non li bisognia tagliare suoe

cime, impero si muore et piui non germinano.

(Pietro Antonio Michiel, I cinque libri di piante, Codice Marciano, 1789)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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NEMESI

E’ stato scritto nelle sinistre                                           lovecraft2.jpg

prime ore della cupa

mattina di Ognisanti,

il che potrebbe dar

conto del tono e dell’

atmosfera. Presenta il

concerto, accettabile

per la mente ortodossa,

che gli incubi

costituiscano la

punizione inflitta

all’anima per colpe

commesse in una

precedente incarnazione, forse milioni di anni prima!

NEMESI

Oltre le cupe soglie del sopore

vigilate dai ghoul,

oltre i notturni abissi della luna,

ho vissuto esistenze senza numero,

ho sondato ogni cosa col mio

sguardo

e grido disperato ad ogni aurora

perché divento folle di terrore.

Ruotavo con la Terra al suo mattino,

quando il cielo era un turbine di 

fiamma;

ho vissuto il cosmo oscuro spalancarsi

là dove neri mondi vagan senza

scopo,

vagano nell’orrore inavvertiti,

senza fama né nome né

coscienza.

Ho aleggiato sui mari sconfinati,

sotto sinistri cieli grigio-piombo,

lacerati da fòlgori improvvise,

fra tuoni come grida di terrore,

coi gemiti di dèmoni invisibili

emersi dalle acque di

smeraldo.

Come un daino ho sostato sotto gli

archi

delle grandi foreste primordiali,

ove s’avverte la Presenza Immonda,

in luoghi dagli spettri anche

evitati,

alla Casa che Avvinghia son

sfuggito, a Colei che

sogghigna dietro i rami.

Sui monti crivellati di caverne

che si levano squallidi dal piano

ho bevuto acque infette dalle rane,

che filtran dagli stagni e dagli scoli;

ed in fonti maledette ho

visto cose che non oso dire.

Ho visto un gran palazzo cinto

d’edera,

nelle sue sale vuote sono entrato,

dove la luna alta sulle valli

proietta strane ombre sulle mura:

apparenze deformi ed intrecciate, il

cui ricordo non oso

richiamare.

Ho spiato dubbioso nelle case,

da giardini in rovina circondate,

di un villaggio maledetto cinto

da un lugubre terreno sepolcrale:

e dai lunghi filari d’urne bianche ho

ascoltato levarsi voci arcane.

Ho sostato fra tombe di millenni,

ho volato su vette di terrore

là dove infuria l’Erebo fumante,

dove s’ergono picchi desolati;

e in regni dove il sole del deserto

consuma ciò che mai può

rallegrare.

Ero già vecchio quando i Faraoni

salirono sul trono presso il Nilo;

ero vecchio nell’epoca lontana

in cui io solo davo corpo al male,

ed innocente aveva sede l’uomo

nell’isola felice dell’Antartide.

Oh, grande fu la colpa del mio

spirito,

e atroce è la vendetta del destino.

Né la pietà del Cielo può placarmi,

né il sepolcro può darmi alcun

riposo:

da ère interminate per me battono le

ali d’un dolore sconfinato.

Oltre le cupe soglie del sopore,

vigilate dai ghoul,

oltre i notturni abissi della luna,

ho vissuto esistenze senza numero,

ho sondato ogni cosa col mio

sguardo

e grido disperato ad ogni aurora perché

divento folle dal terrore.

(Lovecraft)

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IL MELOGRANO: OVVERO L’ETERNO RITORNO (6)

Nel Rinascimento la granata, che sotto                           melograno.jpg

la sua scorza raccoglie

armonicamente i grani

color del rubino, era

considerata sacra a

Giunone come

‘conservatrice dell’

unione dei popoli’,

visti come tanti chicchi,

e suscitatrice di concordia

nella grande famiglia

sociale. Perciò, spiegava

alla fine del XVI secolo Cesare

Ripa nella sua ‘Iconologia’, si raffigurava la Concordia come ‘una bella donna che mostra gravità

e tiene nella mano destra una tazza con un pomo granato, nella sinistra uno scettro che in

cima abbia fiori e frutti di varie sorti, in capo haverà una ghirlanda di mele granate con le

foglie e i frutti’. A sua volta l’Accademia, come congregazione di molte persone riunite per

perseguire un fine intellettuale comune, era simboleggiata dalla mela granata, la quale

infine concorreva a formare l’immagine della Conversazione: un uomo giovane, allegro e

ridente, vestito pomposamente con un abito verde, il capo cinto da una ghirlanda di alloro

e nella mano sinistra un caduceo che, invece delle due serpi allacciate, presenta un ramo

di mirto e uno di melograno, entrambi fioriti; e sopra le alette una lingua umana. Il giovane

è ritratto nell’atto di far riverenza, con una gamba sospinta indietro, mentre sul braccio

destro, teso in avanti come per abbracciare o ricevere un abbraccio, pende un nastro che

reca il motto ‘Veh soli’.

‘Il ramo della mortella e del pomo granato’, spiega il Ripa ‘ambidue fioriti con bei rivolgimenti

intrecciati insieme, significano che nella Conversatione conviene che vi sia unione e vera

amicizia e che anche le parti rendano di sé scambievolmente buonissimo odore e pigliare

insieme dalle dette piante, essendo tra di loro si amano tanto che, quantunque posti lontanetti

l’una dall’altra radice, si vanno a trovare e si avviticchiano insieme a confusione di chi sfugge

la Conversatione’. L’uomo è giovane perché secondo l’iconografia i giovani si diletterebbero

più degli anziani a vivere insieme. E’ ridente e vestito di verde perchè questo colore indurrebbe

all’allegria. L’alloro ammonisce a rendere ogni conversazione virtuosa e mai viziosa. La lingua

sopra le alette ci ricorda che la natura ha dato parola all’uomo non perchè parli con sé

medesimo, ma perché esprima amore e affetto agli altri. L’atto di far riverenza e il braccio

aperto dimostrano a loro volta che conversando occorre essere cortesi e benigni verso chi è

degno della ‘vera e virtuosa conversatione’.

Anche un poeta del Novecento volle ispirarsi al melograno. 

Nel vestibolo della Priora, al Vittoriale degli Italiani, una colonna di pietra dono di Assisi a

Gabbriele d’Annunzio, sostiene un canestro colmo di melograne. Quei frutti, che in vetro, in 

pietra, in rame, disseccati o dipinti, sono sparsi in ogni stanza, non sono una decorazione 

causale: molti anni prima infatti, nel 1898, egli aveva voluto intitolare ‘I romanzi del melograno’

un ciclo narrativo di cui scrisse soltanto la prima opera, ‘il fuoco’, per trarre delle melegrane,

che in autunno, schiudendosi, lasciano intravedere i grani rossi, il simbolo della fecondità del

poeta. 

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

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LA BICICLETTA (l’amante segreta) (10)

Le fascie di caoutchoux vennero applicate                     michaud1.jpg

alle ruote del velocipedi

quando ancora non si era

sostituito ferro al legno,

e le prime applicazioni

furono di gomma pura,

coperta di cuoio o di

zinco perché troppo

molle.

Il processo di

galvanizzazione

permise più tardi di

munire le ruote di gomma

piene resistenti a sufficienza,

e tali da difendere

efficacemente il

velocipedista

dai sobbalzi incomodi e 

pericolosi causati dalle ineguaglianze del suolo.

Nel frattempo l’Inghilterra, paese classico del ferro e dell’acciaio, contribuiva in gran parte a

sostituire il ferro al legno nella costruzione dei velocipedi, nell’intento di renderli più leggeri.

Da allora ebbe inizio l’applicazione dei cuscinetti a sfere alle assi delle ruote, dai quali l’idea

prima pare sia sorta in America nel 1861, mentre alcuni l’attribuiscono a un costruttore

francese, Surinay, ed altri ancora ricordano invenzioni consimili nel 1857 e nel 1851. E’ 

però indubitabile che l’applicazione dei cuscinetti a sfera di acciaio costituì uno dei più

notevoli e più utili miglioramenti – soprattutto perché concesse ai ciclisti di quel tempo

 di raggiungere per la prima volta, senza necessità di sforzi in breve tempo esaurienti,

velocità di 10 e 12 chilometri l’ora. La scorrevolezza acquisita alle nuove macchine e la

relativa silenziosità del movimento, già favorita dalla applicazione delle fascie di gomma,

contribuirono non poco a conquistare al calunniato e disprezzato ed anche perseguitato 

ordigno un merito di praticità vera fino a quel punto ignoto. 

Narrano infatti le cronache come in quell’epoca si avesse la prima corsa velocipedista su

strada, Parigi-Rouen, vinta dall’inglese S. Moore, il quale coprì i 120 chilometri di distanza

in dieci ore e tre quarti. E si afferma sia stato questo il primo saggio di propaganda 

popolare dello sport ciclistico, ben che assai maggiore importanza abbia assunta, pure

in Francia, la prova compiuta                                                velocipede-and-motorcycle.jpg

alcuni anni più tardi ,

nel 1875, in occasione

del celebre record

Parigi-Vienna. 

La distanza che 

separa queste due

città (1252 km.), fu

percorsa in 12 giorni

e 10 ore da Laumaillé,

e da Pagis del Vélo di 

Parigi, con una media

giornaliera di oltre 100

chilometri! Prova che anche oggi appare meravigliosa, quando si rifletta che essa fu compiuta

su strade pessime in quel tempo e con macchine affatto primitive, se paragonate alle agili e

comode biclette attuali. Appunto nel 1875 l’ingegnere Truffault, costruttore di Tours, formò

per la prima volta di ferro vuoto le intelaiature dei velocipedi, applicando anche i cerchioni

vuoti o incavati e raggiungendo un grado di leggerezza relativa certamente notevole. E in 

quel volger di tempo venivano pure modificandosi i modelli-tipo di velocipede.

Il velocipedista, mancando ancora qualsiasi sistema di moltiplicazione ed essendo le ruote

non molto alte, doveva imprimere ai pedali un movimento assai rapido per ottenere una

certà velocità, non proporzionata d’altronde allo sforzo sviluppato.

(U. Grioni, Il ciclista)

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UN CLERO INFAME

I chierici si spacciano per pastori 

ma sono assassini

sotto parvenza di santità.

Quando li vedo vestirsi,

mi viene in mente

messer Isengrino che un giorno

voleva entrare in un ovile:

per paura dei cani

indossò una pelle di pecora

per eludere la loro sorveglianza,

poi divorò a tradimento.

Re e imperatori,

duchi, conti e contini,

insieme a cavalieri,

solevano governare il mondo:

ora vedo che i chierici

si sono impadroniti del potere

con il furto e il tradimento,

con l’ipocrisia,

con la forza e con le prediche;

e si risentono

se non gli si lascia ogni cosa:

sarà così, malgrado tutto.

Più grandi sono,

meno valore hanno,

più follia

e meno franchezza,

più menzogna

e meno istruzione,

più peccati

e meno amore reciproco.

Parlo dei cattivi chierici,

perché non ho mai sentito dire

che vi siano peggiori nemici di Dio

dai tempi antichi.

Quando sono al refettorio

non trovo onorevole

vedere i più vili

seduti alla tavola più importante

ed essere i primi a scegliere;

sentite una grande villania:

osano venirci

e nessuno li allontana.

Ma non ho mai visto

un povero diavolo di mendicante

sedersi accanto ai ricchi;

vi garantisco che mai hanno commesso una simile colpa!

Gli Alcaidi e gli Almassori

non temono

che abiti e priori

vadano a invadere le loro terre

e se ne impadroniscano,

perché ciò costerebbe loro troppa pena;

qui si preoccupano solo di come

impossessarsi del mondo

e cacciare messer….Pietro

dal suo rifugio.

Ma lo ha sfidato qualcuno

che non se ne rallegra mai molto.

Chierici, chi vi ha considerati

privi di un cuore perverso e ingiusto

ha sbagliato i suoi conti:

PERCHE’ MAI HO VISTO GENTE PEGGIORE! 

(Peire Cardenal, 1229/1230, eretico)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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IL MELOGRANO: OVVERO L’ETERNO RITORNO (5)

Attributo della Grande Madre, regina                                   melograno1.jpg

del Cosmo, nel suo duplice ruolo di 

Colei che dà la vita e Colei che la toglie,

la melograna era simbolo sia di Fecondità

sia di Morte, tant’e vero che si sono

trovate melograne di argilla nelle tombe

greche dell’Italia meridionale.

Secondo un mito greco il primo

melograno nacque dalle stille di sangue

di Dionisio.

Quando uscì dal rifugio che era stata la coscia del padre Zeus, il piccolo, fu catturato

dai Titani che, ispirati dalla gelosissima Era, lo fecero a pezzi e poi lo misero a bollire

in un paiolo. Dal sangue che si era sparso spuntò un albero, il melograno; e altri sorsero

sulle tombe di giovani eroi, da Eteokles a Menoikéus, racchiudendo nell’essenza vegetale

le stille del loro sangue. Ma in epoca arcaica il melograno era associato a un essere femminile,

Rhoio, uno dei nomi greci della pianta: era figlia di Stafylos, il Tralcio d’uva, a sua volta

figlia di Dionisio. Il padre irato l’aveva rinchiusa in una larnax, un recipiente di argilla, e

gettata in mare. Dopo un fortunoso viaggio era approdata sull’isola di Delo, dove aveva

generato Anios, che a sua volta aveva generato Oinò, Spermò, Elais, ovvero Vino, Grano

e Ulivo. Sìde è un altro nome del melograno, collegato a una fanciulla, eroina eponima di

Panfilia. Secondo la leggenda più antica Sìde era sposa di Orione, il mitico cacciatore che

la gettò nell’Ade perché aveva osato contendere con Era in una gara di bellezza. Forse il 

mito riflette il passaggio da una sfera culturale primitiva a una più moderna, dove Era

avva assunto il ruolo principale. Un’altra variante del mito narra che Sìde, insidiata dal

padre, si uccise sulla tomba della madre. Gli dei, impietositi dalla triste vicenda, fecero

sorgere dal sepolcro, il melograno mentre il padre veniva trasformato in un nibbio, l’uccello

che mai si posa sui rami dell’albero. 

In tutti questi miti è simboleggiato il ciclo di morte-sacrificio da cui nasce la vita: vi alludeva

anche il larnax di Rhoiò, che veniva usato nel mondo egeo come cassa funebre.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

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LA BICICLETTA (l’amante segreta) (9)

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Il 1867 segna il principio di un periodo importante: il periodo industriale.

Lallement, al suo ritorno, trova che Michaux,                              images.jpg 

indubbiamente dotato di non comune iniziativa,

ha munita la sua macchina di un freno – un volgare

freno a paletta, agente sulla ruota posteriore. Ma è

tuttavia un nuovo utilissimo elemento che ritrova

la sua pratica applicazione. L’esposizione del 1867

rivela al gran pubblico il nuovissimo sport, e le

prime macchine a pedale di ‘marca’ francese sono

vendute in Inghilterra al modesto prezzo di 25

sterline!

Lallement ne imprende la fabbricazione, pubblica                         lautrec.jpg

dei…cataloghi, riceve

ordinazioni  di macchine

‘su misura, secondo la

lunghezza delle gambe

del cavaliere’; insegna

finalmente ai

velocipedisti di allora –

e per la prima volta –

di premere sui pedali

con la parte anteriore

del piede.

Intanto certo James

Carrol, ex socio di Lallement, lancia per suo conto la macchina francese nel Nuovo Mondo.

Lellement morì nel 1870, dopo aver conseguita, per tutto il suo lavoro e non senza l’aiuto di

un processo giudiziario, la somma di 10.000 franchi.

E Michaux padrone del campo,                      la compagnie parissienne.jpg 

fonda la più importante

fabbrica di velocipedi

dell’epoca, sotto la

ragione sociale

‘Michaux & C’.

(più tardi Compagnie

Parisienne), che impiegò

fin da principio 500

operai.

Ben che da questo punto

possa veramente

iniziarsi la storia

del velocipede

trasformato per successivi miglioramenti in veicolo sufficientemente

pratico nella sua concezione generale, e tuttavia lecito ricordare come e quanto noi

dobbiamo oggi riconoscere, in questo breve sguardo retrospettivo, che la macchina

lanciata in quei tempi dalla ‘Compagnie Parisienne’ non poteva essere considerata se

non un principio, grossolanamente completo del concetto meccanico del velocipede

moderno non solo, ma anche dei monumentali congegni oggi scomparsi, e che pure

segnavano sul primo tipo di macchina a pedale, un progresso notevolissimo.

E gioverà per ciò ricoradre che tutte le parti                      biciclo.gif 

del velocipede Michaux, nel 1870, erano di

legno, con cerchi di ferro alle ruote, costituendo

un complesso pesantissimo. Ma i perfezionamenti

furono rapidi e radicali. Si cominciò con l’applicazione

di un freno, agente, come già dicemmo, sulla ruota

posteriore: nel mezzo de manubrio era attaccata una

cinghia di comunicazione con la paletta del freno

medesimo il quale si poteva stringere facendo                                 freni bicicletta.jpg 

girare il manubrio, mobile nel suo asse, a mezzo

delle manopole. Intanto nuove modificazioni

erano indispensabili; diminuire le trepidazioni

e i sobbalzi della macchina, che ne rendevano

faticosissimo l’uso, ed alleggerirne il peso,

allora di circa 40 chilogrammi.

Certamente la genialità degli inventori, nel

1870, non trovò l’appoggio e il conforto di

una opzione pubblica favorevole; anzi i fautori del nuovissimo mezzo di trasporto ebbero

a sostenere asprissime lotte e persecuzioni vere e proprie. Il misoneismo inconsulto dei

governanti d’allora – che d’altronde sotto alcune forme rivive ancora oggi, forse meno 

ingiustificato, in alcune contrade d’Europa, contro lo sport automobilistico – non potè

tuttavia opporsi, per nostra fortuna, al graduale progredire della nuova industria.

(U. Grioni, Il ciclista)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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LA CAPPELLA NERA

Il segreto del Graal deve essere celato

E mai da uomo alcun rivelato,

Poiché appena questo si ode,

Potrebbe accadere ad uno sì prode,

Se una donna ha chi lo dice

Per la vita non avrà più pace

Se Master Blihis non mente,

Questo segreto nessun deve mai dire.

Ma la meraviglia che qui trovò

Per cui spesso di spavento tremò,

Non deve mai a nessuno rivelare,

Chi lo dirà avrà da penare,

Poiché del Graal è questo il segnale

Che in pena langua ed in ogni male

Chi ad alcuni riveli il suo segreto.

(…….)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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IL MELOGRANO: OVVERO L’ETERNO RITORNO (4)

Dialoghi con Pietro in:

paginedistoria.myblog.it

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Già Pausania aveva descritto una                                 

statua di Era in Argo, maestosa sul                         melograno2.jpg

trono, che portava sul capo una corona

dov’erano scolpite Cariti e Ore, in una

mano il frutto e nell’altra lo scettro.

Quale significato avesse la melagrana

lo scrittore greco non volle svelarlo,

limitandosi a dire che ‘la tradizione è

di quelle di cui è meno lecito parlare’.

Anche altre dee furono ritratte con

questo simbolo vegetale:

Atena, protettrice della città di Atene

nella sua funzione di divinità vittoriosa,

Afrodite nell’isola di Cipro, dove secondo

un mito avrebbe piantato per la prima volta

l’albero, e infine Core-Persefone, Signora

degli inferi e delle piante.

I Latini chiavano il frutto ‘malum punicum’, melo

fenicio, perché si diceva che provenisse dall’area siro-fenicia dove una mitica Side, altro

nome greco della melagrana, veniva considerata l’eroina fondatrice di Sidone che ne aveva

ripreso anche etimologicamente il nome.

L’alberello, detto botanicamente ‘Punica granatum’, proviene in realtà da una zona che si

estendeva dal Punjab, in India, ai territori a sud del Caucaso; ma fin dall’antichità si era

diffuso in Asia Minore e poi nei Paesi mediterranei.

E’ una delle piante del mio minuscolo giardino che dalla primavera all’inizio dell’inverno,

quando perde le foglie caduche di un verde brillante, offre incanti misteriosi. All’inizio

della primavera nascono le foglioline di un colore rossiccio ruginoso che poi a poco a poco

trascolora nel verde. Nel segno dei gemelli sbocciano i primi fiori, simili a campanule,

che si aprano come una stella a sei punte: anch’essi rossi, ma di un rosso che trascolora

nell’arancio. Dai fiori fecondati crescerà il frutto, simile a una grossa bacca che, giunta

a maturazione nell’autunno, sarà sovrastata da una coroncina e assumerà varie gradazioni

di rosso, dal più tenue al più acceso, svelando al suo interno gli innumerevoli semi

sanguigni: feconda e regale.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

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