VIAGGI IN ALTRI MONDI: IL JAZZ (Gerry Mulligan) (5)

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Fu la Holliday a introdurlo nuovamente nel mondo del cinema, procurandogli anche,

in uno dei suoi film, una piccola parte, che non sarebbe stata l’unica esperienza del

genere. Quanto alla musica, per qualche tempo Mulligan sembrò esserne scarsamente

attratto: la formula del quartetto non gli offriva nuovi sbocchi e il progetto che

accarezzava da anni, quello di metter su una grande orchestra, lo intimoriva.

Poi, nel marzo 1960, si decise a varare la ‘big band’ dei suoi sogni, riunendo

una formazione non troppo diversa da quella che aveva già diretto, in uno

studio di registrazione della Columbia, nel 1957.

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La nuova orchestra avrebbe fatto soltanto musica da ascoltare: per questo fu

chiamata Concert Jazz Band.

Fu presto chiaro che si trattava di un’espansione della concezione musicale

mulliganiana che si era espressa nei piccoli complessi. Anche in quell’orchestra si

conciliavano sostificazione armonica e forza ritmica, semplicità e complessità, e i

facili effetti erano severamente banditi. Gli arrangiamenti che la Concert Jazz Band

eseguiva non facevano ricorso neppure alla tradizionale contrapposizione delle

sezioni delle ance e degli ottoni, e rifuggiavano dagli squillanti collettivi e dall’uso

dei riffs in funzione di eccitante. Si trattava insomma di una formazione di studio

riservata ai buongustai piuttosto che di un’orchestra da palcoscenico. Secondo l’

opinione di molti, fu la più interessante big band di jazz degli anni 60: sicuramente

fu la più originale e la più aristocratica.

‘Io volevo ottenere la stessa chiarezza di suono e lo stesso intreccio delle linee

melodiche che avevo nei complessi più piccoli’. Dichiarò Mulligan, ‘Il clarinetto

che abbiamo non serve per condurre la sezione dei sassofoni ma contribuisce col

suo suono all’insieme in generale. Per quanto riguarda i solisti, io intendo servirmi

di pochi uomini per la maggior parte degli assoli, perché possano essere ascoltati

abbastanza a lungo da diventare familiari al pubblico’. In altra occasione precisò,

‘Io assegno a ciascuno una parte melodica senza provarmi a combinarle in armonia.

Il mio modo di vedere il ruolo dei solisti nell’orchestra è rigorosamente limitativo.

C’erano quattro solisti nel mio sestetto, e non ce sono più di quattro nella Concert

Jazz Band: tromba, tenore, Brock e io. Fin da principio ho voluto dare all’orchestra

una fisionomia precisa. Ho visto troppe orchestre sparpagliare gli assoli al punto

da lasciar suonare praticamente tutti’.

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Benché fosse molto orgoglioso della sua ‘big band’, che rappresentò il coramento

delle sue aspirazioni e resta, a tutt’oggi, il punto più alto raggiunto nella sua

carriera, Gerry scrisse per essa poche partiture. Di norma si limitava a supervisionare,

ritoccandoli qua e là, gli arrangiamenti che gli sottoponevano i suoi uomini di fiducia:

Bob Brookmeyer e Bill Holman, anzitutto e poi Johnny Mandel, Al Cohn, George

Russell, Johnny Carisi, e un giovane arrangiatore da lui stesso scoperto e che avrebbe

fatto strada: Gary McFarland. Quanto ai solisti, gli uomini chiave erano Brookmeyer,

Zoot Sims, i trombettisti Clark Terry e Don Ferrara, il trombettista Willie Dennis, il

batterista Mel Lewis, oltre naturalmente allo stesso Mulligan che di tanto in tanto

abbandonava il sassofono per suonare il clarinetto e qualche volta il piano.

La Concert Jazz Band si esibì con successo al Festival del jazz di Newport, di cui

Mulligan era stato fin dall’inizio, e sarebbe stato per anni, un ospite immancabile,

e diede molti concerti, ma nei quattro anni in cui fu attiva – dal 1960 al 64 – ebbe 

una vita intermittente e non facile, anche se tutt’altro che ingloriosa. Uno dei 

momenti di gloria fu la tournée che compì in Europa nel novembre del 60,

durante la quale – a Milano e a Berlino – furono registrati dei brani pubblicati poi

su disco. 

Di quell’orchestra in Mulligan, restò una profonda nostalgia, e per i cultori del 

jazz alcuni eccellenti dischi Verve, il primo dei quali fu registrato fra la primavera

e l’estate del suo primo anno di vita, e l’ultimo nel dicembre 1962. La sempre più

saltuaria attività della Concert Jazz Band consentì al suo direttore di riunire ancora,

e più volte, dei piccoli complessi. Quando poi l’orchestra fu sciolta definitivamente,

si capì che qualcosa in lui si era spezzato. All’entusiasmo di un tempo era subentrata

una certa apatia, che durò a lungo. Qualche avvenimento degli anni che seguirono

interessa più il cronista che lo storico del jazz.

(A. Polillo, Jazz)

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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UN’ALTRA CANZONE: HURRICANE

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Colpi di pistola echeggiano nel bar di notte,

entra Patty Valentine dalla stanza di sopra,

vede il barista in una pozza di sangue,

grida ‘Mio Dio li hanno ammazzati tutti!’.

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Questa è la storia di Hurricane,

l’uomo che le autorità hanno accusato

di un delitto che non ha mai commesso,

messo in una cella di prigione, lui che sarebbe

potuto essere

il campione del mondo.

Tre corpi stesi a terra vede Patty

e un altro uomo, un certo Bello, aggirarsi con

aria misteriosa.

‘Non sono stato io’, dice e alza le mani,

‘Stavo soltanto rubando l’incasso, spero tu

capisca,

li ho visti solo andare via’, dice e si ferma.

‘Uno di noi farebbe meglio a chiamare la

polizia’.

E così Patty chiama i poliziotti

e loro arrivano con le loro luci rosse

lampeggianti

nella calda notte del New Jersey.

Nel frattempo in un’altra parte della città

Rubin Carter e un paio di amici stanno girando

in macchina.

Il pretendente numero uno alla corona dei pesi medi

non poteva certo immaginare che razza di merda

stava per cadergli addosso

quando un poliziotto lo fece accostare al bordo

della strada

proprio come la volta prima e quella prima

ancora.

Questo è il modo in cui vanno le cose a

Paterson,

se sei nero faresti meglio a non farti vedere in

giro per le strade

a meno che tu non vada in cerca di guai.

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Alfred Bello aveva un complice e aveva una

soffiata per la polizia,

lui e Arthur Dexeter Bradley stavano soltanto

facendo un giro.

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Bello disse, ‘Ho visto due uomini fuggire,

sembravano due pesi medi,

sono saltati su una macchina bianca con la targa

di un altro stato’

e Miss Patty Valentine con la testa fece sì.

Un poliziotto disse, ‘Aspettate un attimo, ragazzi,

questo qui non è ancora morto’.

Così lo portarono all’ospedale

e anche se quell’uomo riusciva a malapena a

vedere

gli dissero che poteva identificare il colpevole.

Sono le quattro del mattino e i poliziotti

acchiappano Rubin Carter,

lo portarono all’ospedale e lo fanno andare di sopra.

L’uomo ferito lo guarda coi suoi occhi ormai

morenti

e dice, ‘CHE COSA LO AVETE PORTATO A FARE QUI?

NON E’ LUI!’.

Sì, questa è la storia di Hurricane,

l’uomo che le autorità hanno accusato

di un delitto che non ha mai commesso,

sbattuto in cella di prigione, lui che sarebbe

potuto essere

il campione del mondo.

Quattro mesi dopo i ghetti sono in fiamme.

Rubin è in Sud America a combattere per il titolo

mentre Arthur Bradley è ancora in mezzo al giro

di rapine

e i poliziotti lo stanno tenendo sotto torchio,

cercando qualcuno da incolpare.

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‘Ricordi quell’omicidio in un bar?’

‘Ricordi che avevi detto di aver visto la

macchina fuggire?’

‘Pensi di poter scherzare con la legge?’

‘Pensi che potrebbe essere il pugile quello che

hai visto scappare quella notte?’

‘Non dimenticare che sei un bianco’.

Arthur Dexeter Bradley disse, ‘Non sono proprio

sicuro’.

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E i poliziotti, ‘Un povero ragazzo come te

dovrebbe avere un po’ di tregua.

Abbiamo per te un lavoro in un motel e

parleremo col tuo amico Bello.

Non vorrai mica tornare in prigione, fa’ il bravo

ragazzo

e farai anche un favore alla società,

quel figlio di puttana è uno spavaldo e lo

diventa sempre di più,

noi vogliamo fargli stringere il culo,

vogliamo inchiodarlo a quest’omicidio, TRIPLO.

Non è un gentlemen, Jim’.

Rubin poteva far fuori un uomo con un solo

pugno

ma non gli era mai piaciuto parlarne troppo.

‘E’ il mio lavoro – diceva -, lo faccio solo per

i soldi

e quando sarà finito me ne andrò per conto mio

in qualche paradiso

dove scorrono ruscelli pieni di trote e dove l’aria

è pura

e col mio cavallo cavalcherò lungo un sentiero’.

E invece lo portarono in prigione

dove cercano di trasformare uomini in topi.

Tutte le carte di Rubin erano già state truccate,

il processo fu una sporca buffonata, per lui

neppure uno spiraglio.

Il giudice chiamò per testimoni i più miserabili

ubriaconi.

Per la gente bianca lì presente Rubin era un

fannullone rivoluzionario

e per i neri era soltanto un negro pazzo.

Nessuno dubitò che fosse stato lui a premere il

grilletto

e anche se non poterono mostrare la pistola

il procuratore disse che era stato lui a compiere

il fatto

e la giuria tutta di bianchi fu d’accordo.

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Rubin Carter fu processato in modo falso

con l’accusa d’omicidio di primo grado e indovinate

chi testimoniò?

Bello e Bradley, e tutti e DUE MENTIRONO

sfacciatamente

e i giornali anche loro stettero al gioco.

Come poté la vita di un tale uomo

essere messa nelle mani di DUE DISGRAZIATI COME

QUELLI?

Vederlo sistemato in modo così ovvio

non ha potuto farmi vergognare di vivere in

un paese

dove la giustizia è solo un gioco.

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Ora tutti i crimininali IN GIACCA E CRAVATTA

SONO LIBERI DI BERE MARTINI E VEDER SORGERE IL SOLE,

mentre Rubin siede come Buddha in una cella di

TRE METRI,

un uomo innocente in un inferno in terra.

Questa è la storia di Hurricane

ma non finirà così, finché non ridaranno luce al

suo nome

e non gli renderanno il tempo che ha passato

sbattuto in una cella di prigione, lui che sarebbe

potuto essere

il campione del mondo.

(Bob Dylan, Hurricane)

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BREVE PARENTESI ALPINA (la montagna del razzista)

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Nel 1836 entra in gioco Louis-Jean Agassiz, giovane professore di scienze naturali

alle Scuole superiori e all’Accademia di Neuchatel.

Figlio di un pastore protestante, dottore in medicina e filosofia esperto di PESCI

FOSSILI, Agassiz è oggi considerato un personaggio eclettico, stravagante e dalle molte

ombre, per via DELLE TENDENZE RAZZISTE CHE EMERGONO a chiare lettere dagli

studi della maturità.

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Venerato per oltre un secolo in patria e all’estero come padre insigne della GLACIOLOGIA,

al punto che in Oberland gli fu dedicata una  montagna – l’Agassizhorn, 3946 metri -,

è stato successivamente contestato IN QUANTO PRECURSORE DELL’APARTHEID.

Nel 2007, in occasione del bicentenario della nascita, un comitato svizzero di opinione

ha lanciato la campagna ‘Smontare Louis Agassiz’, proponendo di ribattezzare l’

Agassizhorn con il nome di Rentyhorn, in onore di Renty, LO SCHIAVO ORIGINARIO

DEL CONGO che lo scienziato aveva ritratto malignamente nella Carolina del Sud

per ‘DIMOSTRARE L’INFERIORITA’ DELLA RAZZA NERA’.

(E. Camanni, Ghiaccio vivo)

…In riferimento ai ghiacciai vedere anche

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UNA VECCHIA CANZONE: SHELTER FROM THE STORM

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Era in un’altra vita,

una vita dura di fatica e sangue,

quando l’oscurità era una virtù e la strada era

piena di fango.

Venivo da una terra incolta, una creatura priva

di forma –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

E se passo ancora per questa strada, sono certo,

farò  sempre del mio meglio per lei, su questo dò

la mia parola.

In un mondo di morte dagli occhi d’acciaio e di

uomini che combattono per stare al caldo –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Non una parola tra noi due fu detta, c’era di

mezzo poco rischio;

fino a quel punto tutto era rimasto in sospeso.

Prova ad immaginare un posto dove si sta

sempre caldi ed al sicuro –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Ero consumato dalla stanchzza, quasi sommerso

dalla grandine,

avvelenato dall’erba ed esausto del cammino,

braccato come un coccodrillo, devastato dall’alcool

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

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Improvvisamente mi girai e lei era lì,

bracciali d’argento ai polsi e fiori sui capelli.

Mi si accostò con infinita grazia e tolse la mia

corona di spine –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Ora c’è un muro tra di noi, qualcosa è andato

perso;

ho dato troppe cose per scontate, ho oltrepassato

i limiti.

E pensare che tutto è cominciato una mattina

tanto tempo fa quando

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Ebbene, il deputato s’arrampica sugli specchi ed

il predicatore cavalca una montagna;

ma niente veramente conta, è solo il destino che

comanda.

Ed il becchino con un occhio solo suona un

futile corno –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Ho saputo di bambini appena nati lamentarsi

come colombe,

e di vecchi sdentati paralizzati dalla mancanza di

amore.

Ho capito bene la tua domanda, amico, non c’è

speranza né salvezza? –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

In un piccolo villaggio in cima a una collina

hanno scommesso sui miei vestiti;

ho contrattato la mia salvezza e loro mi hanno

dato in cambio una dose letale.

Ho offerto la mia innocenza, col disprezzo sono

stato ripagato –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

Bene, vivo in un paese straniero, ma sono

costretto a passare il confine;

la bellezza cammina sul filo d’un rasoio, un

giorno o l’altro sarà mia.

E se potessi soltanto mandare indietro il tempo a

quando Dio e lei sono nati –

‘Vieni – lei disse – dalla tempesta ti offrirò

riparo’.

(Bob Dylan, Shelter from the storm)

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1° DICEMBRE 1955 (3)

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La nostra intenzione non era quella di portare al fallimento la società

che gestiva il trasporto con gli autobus, ma di far entrare in società la

giustizia. Continuando a riflettere, compresi infine che in realtà la nostra

azione equivaleva a smettere di cooperare con un regime malvagio, piuttosto

che semplicemente sottrarre il nostro sostegno alla società degli autotrasporti.

Naturalmente quest’ultima ne avrebbe sofferto, perché era una espressione

di quel regime, ma il nostro fine fondamentale ERA IL RIFIUTO DI COOPERARE

CON IL MALE.

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A quel punto cominciai a riflettere su ‘La disobbedienza civile’ di Thoreau.

Mi convinsi che noi, a Montgomery, stavamo organizzando un’operazione

molto vicina a ciò di cui Thoreau aveva parlato in quel saggio. Ci limitavamo a

dire alla popolazione bianca:”Noi non possiamo più prestarci a collaborare

con un regime malvagio”.

Da quel momento concepii il nostro movimento come un’operazione di massa

di non collaborazione. E da allora in poi mi servii raramente del termine ‘boicottaggio’.

(…..) Verso mezzanotte uno dei membri del comitato telefonò per avvisarmi che

tutti i tassisti negri di Montgomery avevano accettato di sostenere la protesta

il lunedì mattina….

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Così senza né testo né appunti, raccontai l’episodio accaduto alla signora Parks.

Poi passai in rassegna la lunga storia di maltrattamenti e di insulti che i

cittadini negri avevano subito sugli autobus del servizio urbano, e nacque

il più importante e decisivo discorso della mia vita:

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“Questa sera siamo qui per una faccenda grave.

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In senso generale, siamo qui perché prima di tutto e innanzi tutto siamo cittadini 

americani, e siamo decisi ad esercitare la cittadinanza nel suo significato più pieno.

Siamo qui anche perché amiamo la democrazia, perché abbiamo la radicata convinzione 

che la democrazia, quando da un fragile foglio di carta si traduce nella concretezza

di un atto, è la migliore forma di governo che esista sulla terra…

Sapete, amici miei, viene sempre l’ora in cui un popolo si stanca di essere calpestato

dal ferreo piede dell’oppressione.

Viene l’ora, amici miei, in cui un popolo si stanca di essere sprofondato nell’abisso

dell’umiliazione, dove si vive nello squallore di un lamentoso scoramento.

Viene l’ora in cui il popolo si stanca di essere scacciato dal sole scintillante del luglio

della vita, e lasciato in piedi nel freddo pungente di un novembre alpino.

E noi non abbiamo torto.

Non siamo nel torto, facendo quel che facciamo.

Se siamo nel torto noi, allora è nel torto la Corte suprema di questo paese.

Se siamo nel torto noi, allora ha torto la Costituzione degli Stati Uniti.

Se siamo nel torto noi, è nel torto Iddio onnipotente.

Se siamo nel torto noi, allora Gesù di Nazaret non era altro che un sognatore utopista,

che non è mai sceso sulla terra. 

E noi, qui a Montgomery, siamo ben decisi a lavorare e a batterci finché la giustizia

non scorrerà come l’acqua, e la rettitudine come un fiume poderoso.

Voglio dirvi che in tutte le nostre azioni dobbiamo tenerci uniti.

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L’unità è la grande esigenza di quest’ora, e se saremo uniti potremo ottenere molte

delle cose che non solo desideriamo, ma meritiamo giustamente. 

E non vi lasciate spaventare.

Noi non abbiamo paura di quel che facciamo, perché lo facciamo nel rispetto della legge.

Nella nostra democrazia americana non c’è mai un momento in cui dobbiamo pensare

di essere nel torto se protestiamo. 

Noi ci riserviamo questo diritto.

Noi, i diseredati della terra, noi che siamo stati oppressi tanto a lungo, siamo stanchi

di attraversare la lunga notte della cattività.

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E adesso stiamo stendendo la mano verso l’aurora della libertà e della giustizia

dell’uguaglianza.

Lasciatemi dire, amici, per concludere….che noi dobbiamo tenere ….Dio in primo

piano. Cerchiamo di essere cristiani in tutte le nostre azioni. Ma stasera voglio dirvi

che per noi non è sufficiente parlare di amore. L’amore è uno dei punti cardine della

fede cristiana.

C’è un altro lato, che si chiama giustizia.

Schierarsi al fianco dell’amore è sempre giustizia, e noi ci stiamo servendo soltanto degli

strumenti della giustizia. Non solo usiamo gli strumenti della persuasione, ma abbiamo

capito che dovevamo ricorrere agli strumenti della coercizione. Questa faccenda non

è soltanto un processo educativo, è anche un processo legislativo.

Mentre ci troviamo qui questa sera, e mentre ci prepariamo per quel che verrà dopo,

cerchiamo di uscire di qui con una severa e audace determinazione a rimanere uniti.

Noi lavoreremo insieme. Quando nel futuro saranno scritti i libri di storia, proprio

qui, a Montgmory, qualcuno dovrà dire: ‘C’era un popolo, un popolo nero, – capelli

crespi e carnagione scura -, un popolo che ha avuto il coraggio morale di lottare 

per far valere i propri diritti. E così facendo hanno instillato un nuovo significato

nelle vene della storia della civiltà’ “.

(M.L. King, I have a dream)

Da http://giulianolazzari.com

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1° DICEMBRE 1955 (2)

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Nominò un comiatato, nel quale ero compreso anch’io, per stilare il comunicato.

Nella stesura definitiva, il testo era il seguente:

“Lunedì 5 dicembre non pendete l’autobus per andare a lavorare, per andare in

centro, a scuola, o in qualsiasi altro luogo.

Un’altra donna negra è stata arrestata e incarcerata per aver rifiutato di cedere il

posto in autobus.

Lunedì non usate l’autobus per andare a lavorare, a scuola, in città, o per qualsiasi

altra destinazione.

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Se lavorate, prendete un tassì, fatevi accompagnare in macchina

da qualcuno, o andate a piedi. Per sapere come comportarvi in seguito, lunedì

sera venite a un’assemblea che si terrà nella chiesa battista di Holt Street alle 19″.

Ero così emozionato che quella notte quasi non dormii, e la mattina dopo molto

presto andai alla chiesa per distribuire i volantini. Entro le 11 un esercito di donne

e di giovani aveva preso i settemila volantini per distribuirli a mano.

La questione degli autobus era uno dei punti dolenti di Montgomery.

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Chi fosse venuto a Montgomery prima del boicottaggio degli autobus, avrebbe

sentito i conducenti rivolgersi ai passeggeri negri con appellativi come ‘negracci’,

‘scimmioni neri’, ‘vacche nere’. Avrebbe osservato come in molti casi i passeggeri

di colore salissero dalla porta anteriore, pagassero il biglietto e poi fossero costretti

a discendere, e risalire dalla porta posteriore, avrebbe visto come spesso, prima

che il passeggero negro avesse raggiunto la porta posteriore, l’autobus ripartisse,

dopo aver incassato il prezzo del biglietto. Ma peggio ancora: il visitatore avrebbe

visto passeggeri negri in piedi, accanto ai sedili vuoti. Non importava che non 

salisse nessun passeggero bianco e che l’autobus fosse pieno di passeggeri di

colore: a questi ultimi era vietato occupare i primi quattro posti a sedere, che

erano riservati ai soli passeggeri bianchi.

Ma si arrivava ancora più in là.

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Se il settore riservato ai bianchi era tutto occupato, da bianchi, e salivano in vettura

altri bianchi, spesso il conducente diceva ai passeggeri negri, seduti nel settore 

non soggetto a restrizioni, di alzarsi e cedere il posto ai bianchi. Se si rifiutavano

venivano arrestati.

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Nel tardo pomeriggio della domenica, dopo una dura giornata di lavoro, tornai a

casa e mi sedetti per leggere il gionale del mattino. C’era un lungo articolo che 

parlava del progetto di boicottaggio. Mi accorsi che nel testo era implicita l’idea

che i negri si disponevano ad affrontare il loro problema nello stesso modo

adottato dai White Citizens Councils.

La lettura dell’articolo ebbe l’effetto di obbligarmi per la prima volta a riflettere 

davvero sulla natura del metodo del boicottaggio. Fino a quel momento lo avevo

accettato in modo acritico, ritenendolo il mezzo migliore di cui potessimo disporre.

Adesso cominciavo a nutrire qualche dubbio.

Il nostro modo di agire era consono all’etica?

Il metodo del boicottaggio è fondamentalmente contrario alla morale cristiana?

Non è forse un modo negativo di impostare la soluzione del del problema?

Era vero che avremmo imitato il comportamento seguito da alcuni dei Consigli

dei cittadini bianchi?

Se anche da un simile boicottaggio avessimo ottenuto risultati pratici di carattere 

durevole, poteva un mezzo immorale giustificare un fine morale?

Ognuna di queste domande esigeva una risposta onesta.

Dovetti riconoscere che il metodo del boicottaggio poteva essere usato per fini

contrari all’etica e contrari alla dottrina cristiana.

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Per di più dovetti ammettere che proprio questo metodo era stato adottato in molti

casi dai Consigli dei cittadini bianchi per privare numerosi negri, oltre che persone

bianche di buona volontà, dei mezzi essenziali al sostentamento.

Certo però, dissi a me stesso, l’azione che noi progettiamo non potrebbe essere

interpretata nella stessa luce; i nostri scopi erano del tutto diversi.

Noi ci saremmo serviti del boicottaggio PER DARE VITA ALLA GIUSTIZIA E 

ALLA LIBERTA’, E ANCHE PER PREMERE IN MODO DA OTTENERE I NOSTRI

DIRITTI. 

(M.L. King, I have a dream)

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1° DICEMBRE 1955

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Il 1° dicembre 1955 la signora Rosa Parks rifiutò di cambiare posto quando il

conducente dell’autobus le disse di alzarsi e spostarsi  in fondo alla vettura.

La signora Parks occupava il primo sedile del settore non sottoposto a

restrizione. Tutti i posti a sedere erano occupati; se la signora Parks avesse

obbedito al conducente sarebbe dovuta rimanere in piedi, lasciando il posto a

un passeggero bianco di sesso maschile, che era appena salito. Con un

atteggiamento calmo, sommesso e dignitoso, caratteristico della sua splendida

personalità, la signora Parks rifiutò di muoversi.

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La conseguenza fu l’arresto.

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Chi vuole capire il gesto della signora Parks deve rendersi conto che arriva il giorno

in cui il calice della sopportazione trabocca, e la persona umana esplode in un grido:

“Non posso più sopportarlo”.

Agli occhi del mondo, il rifiuto da parte della signora Parks di spostarsi i fondo all’

autobus ha rappresentato l’intrepida e coraggiosa dichiarazione di averne avuto

abbastanza.

La signora Parks era la vittima delle forze della storia e delle forze del destino:

per il ruolo che le assegnava la storia era il personaggio ideale, aveva reputazione

immacolata e una innata dedizione al dovere. Tutti elementi che facevano di lei

una delle persone più rispettate nella comunità dei cittadini negri di Montgomery.

Il processo a suo carico era fissato per il 5 dicembre, un lunedì.

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Soltanto E.D. Nixon – che aveva firmato la cauzione per lei – e un paio di altre

persone avevano saputo dell’arresto, che era avvenuto nelle prime ore serali

del giovedì. Nixon era sempre stato nemico giurato dell’ingiustizia.

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Bastava guardarlo in faccia, alto, scuro di pelle, i capelli un po’ grigi, per capire

che era un lottatore. Poiché lavorava come addetto alle carrozze pulmann dei 

treni, era a stretto contatto con le organizzazioni sindacali; era stato presidente

della NAACP dell’Alabama e anche presidente della Sezione di Montgomery:

in tutte queste situazioni si era sempre adoperato con impavida determinazione

per assicurare i diritti del suo popolo, e per scuotere i negri dall’apatia.

Il 2 dicembre, il venerdì mattina presto, Nixon mi chiamò.

Era così concentrato in quel che stava per dire da dimenticare di salutarmi con

il solito ‘pronto’: invece attaccò subito il racconto di quel che che la sera prima

era accaduto alla signora Parks. Ascoltai, profondamente scosso, la sua descrizione

dell’umiliante episodio. 

“Abbiamo già sopportato troppo a lungo questo genere di cose” concluse Nixon,

e la voce gli tremava. “Ho la sensazione che sia arrivato il momento di boicottare

gli autobus. Soltanto con il boicottaggio possiamo far capire ai bianchi che non 

accetteremo più di essere trattati in questo modo”.

Fui d’accordo con lui, una protesta era necessaria, e il metodo del boicotaggio

sarebbe stato efficace.

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Prima di chiamarmi, Nixon aveva parlato del progetto con il reverendo Ralph Abernathy,

il giovane ministro della Prima chiesa battista di Montgomery, destinato a diventare

uno dei personaggi centrali della protesta. Anche secondo Abernathy il boicottaggio 

degli autobus poteva essere il partito migliore. Perciò tutti e tre passammo trenta o

quaranta minuti a telefonarci per concordare il modo di procedere e la strategia. 

Nixon propose di convocare tutti i ministri e i cittadini in vista quella stessa sera, in

modo da sentire le loro opinioni sul progetto, e io misi a disposizione la chiesa per

l’assemblea. Mentre si avvicinava l’ora dell’incontro, mi avviai verso la chiesa con

una certa apprensione, chiedendomi quanti esponenti del movimento avrebbero

risposto alla nostra convocazione. Più di quaranta persone, rappresentanti di

tutte le professioni e i mestieri della popolazione negra di Montgomery, affollavano

l’ampia sala riunioni della chiesa. I più numerosi erano i ministri delle chiese

cristiane. Quando vidi che erano presenti in così gran numero provai una grande

gioia, perché capii che stava per succedere un evento fuori dell’ordinario.

Il reverendo L.Roy Bennett, presidente della Interdenominational Alliance di

Montgomery e ministro della chiesa americana metodista episcopaliana

del Monte Sion, avanzò la proposta che, in segno di protesta, il lunedì

successivo i cittadini negri di Montgomery boicottassero gli autobus.

“Questo è il momento di muoverci” concluse Bennett.

“Non è tempo di parlare; è tempo di agire”.

(M.L. King, I have a dream)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

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