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Su queste montagne le notti sono fredde.
Non avevamo tende.
Agaf’ja e suo padre, osservandoci mentre ci apprestevamo a stenderci vicino al
fuoco ‘con quanto ci aveva mandato Dio‘ ci invitarono a passare la notte nell’izba.
E con la descrizione di questa bisognerà terminare le impressioni della nostra prima
giornata.
Curvateci sotto lo stipite della porta sbucammo in un’oscurità quasi completa.
La luce azzurra della sera era visibile solo nella finistrella grande quanto due palmi.
Dopo che Agaf’ja ebbe acceso una scheggia di legno e l’ebbe fissata nel portaschegge
in mezzo all’izba ci fu possibile vedere alla meno peggio l’interno. Persino col lucignolo
le pareti erano scure – la fuliggine di molti anni non rifletteva la luce. Anche il soffitto basso
era nero come il carbone. Orizzontalmente sotto il soffitto erano appesi dei bastoni per
asciugare i panni. Alla stesa altezza lungo le pareti c’erano degli scaffali per le stoviglie
di scorza con le patate secche e i pinoli. In basso lungo le pareti c’erano delle grandi
panche. Su queste, come si poteva capire da alcuni stracci, dormivano e adesso si poteva
stare seduti. Alla sinistra dell’ingresso lo spazio principale era occupato dalla
stufa di pietra. Il camino della stufa, fatto anche quello di lastre di pietra tenute insieme
con l’argilla e rivestite con scorza di betulla, non usciva attraverso il tetto, ma
dal muro.
‘D’inverno ci si sarebbero potuti congelare i lupi. Allora abbiamo fabbricato per loro
questa stufa a legna. Ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a trascinarla fin qui…’
– disse Erofej, che aveva già pernottato lì più di una volta.
In mezzo all’abitazione c’era un tavolino lavorato a colpi d’accetta. Era tutto quello che
c’era. Ma si stava stretti. Lo spazio di quella tana era all’incirca di sei passi per cinque,
e non si riusciva a capire come sei adulti di entrambi i sessi avessero potuto stringersi
lì tutti quegli anni.
Era la miseria…
Il vecchio e Agaf’ja parlavano senza agitazione e con piacere. Ma spesso la conversazione
era interrotta dal loro bisogno improvviso di pregare. Voltatisi verso un angolo dove,
evidentemente, si trovavano delle icone rese invisibili dall’oscurità, il vecchio e la figlia
intonavano a voce alta le loro preghiere, gemevano, sospiravano rumorosamente,
sgranavano con le dita i grani della loro lestovka, il rosario usato dai vecchi credenti
per tenere il conto delle prosternazioni. La preghiera finiva all’improvviso così come
era iniziata, e la conversazione riprendeva dal punto dove era stata interrotta….
All’ora stabilita il vecchio e la figlia si misero a cena.
Mangiarono delle patate che intingevano nel sale macinato grosso. I chicchi di sale
caduti sulle ginocchia li raccoglievano con cura e li rimettevano nella saliera.
Agaf’ja chiese agli ospiti di portare le loro tazze e vi versò il ‘latte di cembro’.
La bevanda, preparata con acqua fredda, aveva un colore simile a quello del tè al
latte e forse anche più saporita.
Agaf’ja lo aveva preparato di fronte ai nostri occhi: aveva macinato i pinoli in un
mortaio di pietra, li aveva mescolati all’acqua in un recipiente di scorza, poi li
aveva filtrati…Agaf’ja non aveva nessuna idea della pulizia. Il cencio color terra
attraverso cui la bevanda era stata filtrata serviva alla padrona di casa anche per
pulirsi le mani. Ma che fare, il ‘latte’ lo bevemmo e, procurando ad Agaf’ja un
evidente piacere, lodammo sinceramente la sua bevanda.
(Vasilij Peskov, Eremiti nella taiga)