PROGETTO BABILONIA (vent’anni dopo desert storm) (1)

(Non tutti conoscono e sono partecipi di talune motivazioni della storia, i complessi

intrighi che muovono, sempre e troppo spesso, talune decisioni. Per cui, se ora, alcuni

dei loro carnefici sono soddisfatti dei misfatti (ottenuti) e delle vendite delle loro memorie,

rendiamo pubbliche le vere ….memorie… adombrate da altri principi di ordine storico.

Per comprendere e svelare le motivazioni e gli ideali al porto dell’economia e non solo.

Ma soprattutto per partecipare alle vere pagine della storia, non al rito ridicolo e bizantino

della politica….)

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Questa è la storia di denaro, armi e di petrolio: una combinazione esplosiva nella politica

mondiale.

E’ un intrigo internazionale che ha come punto di partenza una banca italiana: le tracce,

però, si diramano tra Baghdad e Santiago del Cile, tra Londra e Gerusalemme, tra

Roma e Washington. E’ una storia di segreti, di tradimenti e perfino di omicidi su

commissione. Molti protagonisti, da Christopher Drogoul, il direttore della filiale

di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, a Paul Henderson, l’uomo d’affari inglese

che lavorava per Saddam Hussein e per il servizio segreto di Sua Maestà, sembrano

usciti da un romanzo di spionaggio.

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Il mistero dei prestiti all’Iraq per 4 miliardi di dollari concessi dalla filiale di Atlanta

della Bnl ha come sfondo la più lunga  guerra del secolo, quella tra Iran e Iraq (1980-88).

Ma si può dire anche che l’invasione del Kuwait, del 1990, faccia parte di questa vicenda:

come fece capire lo stesso ministro degli esteri iracheno Tariq Aziz, uno dei motivi dell’

aggressione fu la disperata situazione finanziaria dell’Iraq che esattamente 12 mesi prima

aveva perso l’accesso ai ‘quattrini facili’ della Bnl.

La Bnl è finita in questo pasticcio perché la filiale di Atlanta si è trovata ad essere il punto

di incontro di operazioni clandestine, traffici d’armi, programmi missilistici e nucleari,

finanzimenti segreti. Ma soprattutto era la banca del SISMI (servizio segreto militare).

Un cocktail esplosivo ma per niente raro negli anni 80: la Bcci, la banca di proprietà

dello sceicco Abu Dhabi finita in banca rotta nel 1991, era stata addirittura fondata per

svolgere questo ruolo su scala mondiale. Le operazioni clandestine dei servizi segreti

americani e inglesi condotte durante gli anni 80 erano infinitamente più vaste di quanto

si sapesse, e il loro uso delle banche infinitamente più spregiudicato. La banca italiana

si è ritrovata a recitare la scomoda parte del vaso di coccio.

Di fronte all’immensa ragnatela di corruzione politica emersa nella primavera del 1992

con Tangentopoli, i miliardi gettati in questo buco nero mediorientale sembrano una

storia vecchia, quasi dimenticata dall’opinione pubblica italiana.

L’avventura americano-irachena della Bnl resta però il maggiore scandalo bancario della

storia italiana, più grave del Banco Ambrosiano di Calvi, della Banca Privata di Michele

Sindona o della Banca Romana cent’anni fa, e le sue conseguenze si faranno sentire

ancora per molto tempo.

La Bnl è la seconda banca italiana e negli ultimi due anni i suoi conti appaiono risanati.

Il giudizio delle società di analisi americane, però, è pessimista: ‘Per l’esposizione verso

l’Iraq ci sono poche speranze di recupero’, scriveva il bollettino BankWatch della

Thomson: ‘I profitti continueranno a essere depressi a causa della necessità di ulteriori

accantonamenti per perdite sui prestiti’. In altre parole, tra le pieghe dei bilanci si

nasconde un enorme buco nero: quei due miliardi di dollari che non saranno mai

restituiti. Nonostante gli accanimenti che negli ultimi tre anni hanno fortemente

depresso i profitti, l’esposizione nei confronti di Baghdad supera di parecchio il

capitale sociale della Bnl.

Nei capitoli che seguiranno ci proponiamo di svelare e far comprendere i complessi

accordi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e in parte dell’Italia, nella sponsorizzazione

del regime di Saddam Hussein fino al giorno dell’invasione del Kuwait, e il sostegno

finanziario americano e inglese con George Busch e Margaret Thatcher…..

(Fabrizio Tonello, Progetto Babilonia)

 

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LA FAVOLA DELLA REPUBBLICA (raccontata in rima per bambini intelligenti)

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Perché sei così idiota,

disse il gatto alla trota

e tu perché pensi di

esser un lupo (rispose lei)

mentre guardi la mia anima

che nuota,

pensando di cibarti con un sol

boccone quanto il mio regno

che mai affoga,

ma nuota libero come una trota.

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Perché io son furbo disse

il gatto risentito,

amico di un’antico felino,

son bella e intelligente

e tutti mi voglion accarezzar la mente.

Io non son bello

rispose a lei anche l’uccello,

ma tutti i cacciatori mi voglion braccare,

e forse anche tu gatto di reame,

che spesso con la volpe te ne vai

silenziosa come la neve,

di me e delle mie rime ti vuoi cibare.

Per cui da questo ramo guardo la trota,

da cui un giorno ebbi ad imparare.

Tu invece felino di reame

zoppichi con la volpe

tua sola compare.

Vagando in ogni angolo

di reame convinta

or di nuotare poi di volare.

Ma né l’uno o l’altro dono

hai mai imparato ad apprezzare.

Perché non hai le ali per volare

e le rime per nuotare.

E le rime ti son nemiche

per questo reame.

Soprattutto quando vuoi convincere

la gente, che la volpe è nemica

della tua bramosia di regnare.

Ma siete uniti nel cuore

e nella mente

dalla sola sete

che dona il potere!

L’arte di comandare,

torturare,

e poi anche…d’ammazzare

ogni eresia e rima per questo grande reame.

(Pietro Autier)

altre rime di Pietro Autier (in):

dicono-di-noi.html

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PREGHIERA

Signore, a Te dinnanzi eccomi prosternato,

inchinato davanti alla Tua infinita bontà,

in questa orazione in versi io Ti supplico:

‘Donami o Signore, il senso della Bellezza!’

Signore, dinnanzi a Te eccomi prosternato.

Ero innocente, puro come rugiada,

e come il giglio allo sbocciare della primavera;

Signore la mia linfa e il mio frammento

hanno rubato,

uomini perversi dalla lingua melliflua

hanno messo veleno nella mia coppa d’ebbrezza,

quand’ero puro come rugiada.

E così, Signore, ho lasciato il Tuo cammino,

ed erro per un deserto tenebroso.

Ahimé, la passione incatena la mia ragione,

alla sua fiamma nera l’ha asservita

e dal Tuo cammino mi sono allontanato.

Signore la mia linfa e il mio frammento

hanno rubato,

il mio cuore ha perduto la fede e la speranza,

lasciando il peccato offuscare il mio amore….

Cerco adesso rifugio sotto la Tua ala,

presso il Tuo Libro, il Tuo Verbo eterno.

Assolvi i miei peccati, o Signore, Te ne supplico,

che dalla Tua bontà sia guarita la mia anima!

Vedi, vengo a cercar rifugio sotto la Tua ala.

Signore, Te ne prego, illumina la mia ragione,

il mio frammento e la mia linfa hanno rubato,

fortificami nella risoluzione,

possa io venire a capo di quei demoni impuri…

Vieni con la Tua grazia a rischiarare le mie tenebre,

o Signore, Te ne prego, dammi la luce!

Ravviva l’ardore della mia fede antica,

poiché il frammento e la linfa hanno rubato,

rendimi il Tuo amore e i Tuoi doni preziosi,

che io spezzi la mia coppa sulla pietra fredda

e dilani con l’unghia gli incatenamenti di Venere;

ravviva il fuoco della mia fede antica!

Signore, dinnanzi a Te eccomi prosternato,

piaccia il mio pentimento alla Tua bontà;

in questa orazione in versi io Ti supplico:

‘Donami, o Signore, il senso della Bellezza!’

..i tanta penosa bruttezza…

Signore, a Te dinnanzi eccomi prosternato!

(Musa Cazim Catic)

 

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L’INCONTRO (eremiti nella Taiga) (3)

Precedente capitolo:

l-incontro-eremiti-nella-taiga-2.html

 

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Su queste montagne le notti sono fredde.

Non avevamo tende.

Agaf’ja e suo padre, osservandoci mentre ci apprestevamo a stenderci vicino al

fuoco ‘con quanto ci aveva mandato Dio‘ ci invitarono a passare la notte nell’izba.

E con la descrizione di questa bisognerà terminare le impressioni della nostra prima

giornata.

Curvateci sotto lo stipite della porta sbucammo in un’oscurità quasi completa.

La luce azzurra della sera era visibile solo nella finistrella grande quanto due palmi.

Dopo che Agaf’ja ebbe acceso una scheggia di legno e l’ebbe fissata nel portaschegge

in mezzo all’izba ci fu possibile vedere alla meno peggio l’interno. Persino col lucignolo

le pareti erano scure – la fuliggine di molti anni non rifletteva la luce. Anche il soffitto basso

era nero come il carbone. Orizzontalmente sotto il soffitto erano appesi dei bastoni per

asciugare i panni. Alla stesa altezza lungo le pareti c’erano degli scaffali per le stoviglie

di scorza con le patate secche e i pinoli. In basso lungo le pareti c’erano delle grandi

panche. Su queste, come si poteva capire da alcuni stracci, dormivano e adesso si poteva

stare seduti. Alla sinistra dell’ingresso lo spazio principale era occupato dalla

stufa di pietra. Il camino della stufa, fatto anche quello di lastre di pietra tenute insieme

con l’argilla e rivestite con scorza di betulla, non usciva attraverso il tetto, ma

dal muro.

‘D’inverno ci si sarebbero potuti congelare i lupi. Allora abbiamo fabbricato per loro

questa stufa a legna. Ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a trascinarla fin qui…’

– disse Erofej, che aveva già pernottato lì più di una volta.

In mezzo all’abitazione c’era un tavolino lavorato a colpi d’accetta. Era tutto quello che

c’era. Ma si stava stretti. Lo spazio di quella tana era all’incirca di sei passi per cinque,

e non si riusciva a capire come sei adulti di entrambi i sessi avessero potuto stringersi

lì tutti quegli anni.

Era la miseria…

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Il vecchio e Agaf’ja parlavano senza agitazione e con piacere. Ma spesso la conversazione

era interrotta dal loro bisogno improvviso di pregare. Voltatisi verso un angolo dove,

evidentemente, si trovavano delle icone rese invisibili dall’oscurità, il vecchio e la figlia

intonavano a voce alta le loro preghiere, gemevano, sospiravano rumorosamente,

sgranavano con le dita i grani della loro lestovka, il rosario usato dai vecchi credenti

per tenere il conto delle prosternazioni. La preghiera finiva all’improvviso così come

era iniziata, e la conversazione riprendeva dal punto dove era stata interrotta….

All’ora stabilita il vecchio e la figlia si misero a cena.

Mangiarono delle patate che intingevano nel sale macinato grosso. I chicchi di sale

caduti sulle ginocchia li raccoglievano con cura e li rimettevano nella saliera.

Agaf’ja chiese agli ospiti di portare le loro tazze e vi versò il ‘latte di cembro’.

La bevanda, preparata con acqua fredda, aveva un colore simile a quello del tè al

latte e forse anche più saporita.

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Agaf’ja lo aveva preparato di fronte ai nostri occhi: aveva macinato i pinoli in un

mortaio di pietra, li aveva mescolati all’acqua in un recipiente di scorza, poi li

aveva filtrati…Agaf’ja non aveva nessuna idea della pulizia. Il cencio color terra

attraverso cui la bevanda era stata filtrata serviva alla padrona di casa anche per

pulirsi le mani. Ma che fare, il ‘latte’ lo bevemmo e, procurando ad Agaf’ja un

evidente piacere, lodammo sinceramente la sua bevanda.

(Vasilij Peskov, Eremiti nella taiga)

 

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I DELATORI 3

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Si tardò qualche tempo ad interrogare don Patricio Manzanera, il quale,

essendo cappellano della Real Armada, a volte era in un luogo ed a volte,

in un altro.

Il religioso fu infine interrogato nella città di Lorca il 12 ottobre 1785 dal

commissario don Mariano Mathias, secondo le regole del Sant’Uffizio.

Si tornò a raccogliere una seconda deposizione di questo teste il 12 luglio

1786 a Cartagena, tramite don Ignaco Madrid, commissario del Sant’ Uffizio

di tale città, affinché, in aggiunta a quanto già dichiarato, fornisse ulteriori

particolari all’avvenuto diverbio.

Il cappellano confermò quanto precedentemente dichiarato, ossia che Malaspina

aveva sostenuto la tesi della trasmigrazione delle anime, ed aggiunse di rammentare

che l’episodio era avvenuto sul cassero della Santa Clara, verso l’imbrunire e dopo

la recitazione del rosario.

Precisò che, avendo ascoltato le affermazioni del reo, gli fece osservare che, se

gliele avesse udite pronunciare un’altra volta, lo avrebbe fatto sapere al Sant’ Uffizio

e lo avrebbe rovinato; disse poi a Malaspina che ‘ los misterios de nuestra Fe’ erano

concetti che lui doveva conoscere e che, se lo avesse desiderato, gli sarebbero stati

spiegati.

Aggiunse che, dopo tali parole, Malaspina gli rispose, con insofferenza ed arroganza,

di non aver intenzione di mettersi a discutere con dei cappellani; col che ebbe termine

la disputa e, da quella volta, mai più reo parlò col religioso di simili argomenti.

Don Patricio dichiarò anche che a quella discussione avevano assistito due o tre

persone e, a maggior distanza, molte altre, tutte della nave, delle quali non

rammentava l’identità.

Il commissario quindi chiese al testimone informazioni su quei libri francesi,

posseduti dal reo, ai quali aveva accennato nella deposizione precedente.

Il cappellano precisò che, pur avendo veduto Malaspina leggere diversi libri

in francese ed inglese, egli, non conoscendo tali idiomi, non era in grado di

individuare che libri fossero, né di quali autori, né se avessero o meno

l’approvazione della censura, nè se, oltre a quelli che portava con sé, ne

possedesse altri.

Mai, comunque, aggiunse, si era visto o udito Malaspina parlare con altri

delle cose che stava leggendo.

Il teste confermò quanto già dichiarato circa il libertinaje del linguaggio

usato dal reo in varie occasioni ed aggiunse che questi, tenendo di sostenere

le proprie affermazioni, era solito buttarla sullo scherzo.

Concluse che, a suo giudizio, Malaspina non nutriva peraltro sentimenti

differenti da quelli che debbono esser propri di un vero cattolico; e con ciò

concluse la sua seconda deposizione.

( D. Manfredi, L’inchiesta dell’inquisitore sulle eresie di Alessandro Malaspina)

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UN BLASFEMO

Precedente capitolo:

preghiera-catara.html

Mai più mi chinai, e nemmeno su un fiore,

più non arrossii nel rubare l’amore

dal momento che Inverno mi convinse che Dio

non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,

non avevano leggi per punire un blasfemo,

non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,

mi cercarono l’anima a forza di botte.

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,

lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,

nel giardino incantato lo costrinse a sognare,

a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.

Quando vide che l’uomo allungava le dita

a rubargli il mistero d’una mela proibita

per paura che ormai non avesse padroni

lo fermò con la morte, inventò le stagioni.

…Mi cercarono l’anima a forza di botte..

E se furon due guardie a fermarmi la vita,

è proprio qui sulla terra la mela proibita,

e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,

ci costrinse a sognare in un giardino incantato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato.

( Pivano : quanti personaggi ha descritto nel libro ?

Masters : 244. Ci sono 19 storie sviluppate in ritratti intrecciati.

Fabrizio de André, Un blasfemo, non al denaro non all’amore

né al cielo )

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L’INCONTRO (Eremiti nella Taiga) (2)

Precedente capitolo:

eremiti-nella-taiga-1.html

Per due ore sorvolammo la taiga (e ce ne innamorammo subito), levandoci

sempre più in alto nel cielo. A questo ci costringeva l’altezza crescente delle

montagne. Dolci e tranquilli nei dintorni di Abaza, i monti diventavano a poco a

poco severi e inquietanti. Le verdi e ridenti vallate inondate dal sole cominciarono

a restringersi gradualmente e verso la fine del percorso si mutarono in voragini

scoscese, con in fondo i fili argentati di fiumi e ruscelli.

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– Eccoci arrivati, mi urlò il comandante dell’elicottero.

Nella buia valle il fiume riluceva come picchiettato di vetrini al sole, l’elicottero lo

sorvolava sempre più basso…

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Atterrammo su un ghiaione presso la base dei geologi.

Sapevamo che da lì fino all’abitazione dei Lykov bisognava risalire quindici chilometri

lungo il fiume e poi su per la montagna. Ma avevamo bisogno di una guida. Trovata la

guida rieccoci in aria, sorvoliamo l’Abakan riproducendo nella stretta gola le volute del

fiume.

Atterrare vicino alla casa dei Lykov è impossibile. E’ situata sul fianco della montagna.

E, a parte il loro orto, nella taiga non c’è una sola radura. Tuttavia da qualche parte nelle

vicinanze c’è un acquitrino di montagna su cui non si può atterrrare, ma su cui si può

scendere molto bassi. Facendo ben attenzione i piloti descrivono un cerchio dopo l’altro

per avvicinarsi alla radura dove, sull’erba, luccica pericolosamente l’acqua. Durante

queste manovre vediamo sotto di noi quello stesso orto così come era stato scoperto

dall’alto.

Orto! Delle strisce di solchi di patate lungo il declivio, e più giù ancora delle altre

verdure. Accanto, la catapecchia annerita.                                the-lykovs_5-t.jpg

Quando abbiamo descritto il secondo cerchio

abbiamo visto due figurine vicino alla capanna:

un uomo e una donna. Osservavano

l’elicottero riparandosi con una mano dal sole.

Per loro la comparsa di questa macchina significa

l’arrivo di esseri umani. Sospesi sull’acquitrino

gettammo nell’erba il nostro bagaglio, poi saltammo

anche noi sul cuscinetto di muschio bagnato. Un minuto dopo, senza bagnare i

pattini d’atterraggio nell’acquitrino, l’elicottero si sollevò elastico per nascondesi

subito dietro la cresta boscosa della montagna.

Silenzio…..

Un silenzio assordante, ben noto a chiunque si sia lanciato da un elicottero.

E proprio qui sull’acquitrino Erofej confermò la triste notizia giuntaci ad Abaza:

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della famiglia dei Lykov erano rimasti solo due persone – il vecchio e la figlia

minore Agaf’ja – Dmitrij, Savin e Natal’ja – erano morti l’autunno scorso uno

dietro l’altro, praticamente a catena.

– Karp Osipovic! Siete vivo?

Chiamò Erofej avvicinandosi alla porta il cui stipite superiore gli arrivava sotto

la spalla.

Qualcuno si mosse nell’izba.                                                                                     1183862427.jpg

La porta cigolò e vedemmo emergere al sole un vecchietto.

Lo avevamo svegliato. Si stropicciò gli occhi, li strizzò, si

passò il palmo lungo la barba arruffata e infine esclamò:

– Signore, Erofej!….

Era chiaro che il vecchio era contento dell’incontro, ma

la mano non la diede a nessuno. Avvicinandosi incrociò

le braccia sul petto e si inchinò a ciascuno dei presenti.

– E noi aspettavamo, aspettavamo. Abbiamo pensato che fosse un elicottero

dei pompieri. E ci siamo messi tutti tristi a dormire.

Il vecchio riconobbe anche Nikolaj Ustinovic, che era stato da lui l’anno prima.

– E questo è un ospite di Mosca. Un mio amico. Si interessa alla vostra vita, disse

Erofej.

Il vecchio si inchinò con fare circospetto nella mia direzione:

– Siate il benvenuto, siate il benvenuto…..

(Vasilij Peskov, Eremiti nella Taiga)

 

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EREMITI NELLA TAIGA (1)

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Era il febbraio del 1982.

Mi telefonò Nikolaj Ustinovic Zuravlev, un etnografo regionalista di Krasnojarsk,

che di ritorno dal Sud faceva tappa a Mosca per tornare in Siberia. Mi chiese se il

giornale sarebbe stato interessato a una  vicenda umana straordinaria. Un’ora dopo

mi trovavo già nel centro di Mosca, al suo albergo, e ascoltavo con attenzione il

racconto del visitatore siberiano.

Il succo della storia era questo: nelle montagne della Chakasija, in un punto sperduto

e inaccessibile del Sajan occidentale, erano stati scoperti degli uomini rimasti per

più di quarant’anni completamente isolati dal mondo.

Una piccola famiglia. I due figli non avevano visto nessuno fin dalla nascita, salvo i

genitori, e non sapevano nulla del mondo degli uomini se non dai loro racconti.

Chiesi subito a Nikolaj Ustinovic se sapesse tutto ciò per sentito dire o se avesse

visto gli ‘eremiti’ coi suoi occhi. L’etnografo disse di avere prima letto della

casuale ‘scoperta’ dei geologi in una nota di servizio, d’estate poi era riuscito a

raggiungere l’angolo sperduto della taiga.

– Sono stato nella loro baita. Ho parlato con loro come adesso con lei.

– La mia impressione?

– L’epoca anteriore a Pietro il Grande mescolata all’età della pietra!

– Il fuoco lo fanno con la selce…Con schegge di legno…D’estate vanno scalzi,

d’inverno si calzano di scorza di tiglio. Vivono senza usare sale. Non hanno pane.

La lingua non l’hanno persa. Però i più giovani della famiglia si fatica a capirli….

Adesso sono in contatto con un gruppo di geologi e paiono contenti dei loro

incontri con gli uomini, per quanto brevi. Non diversamente da prima, comunque,

si comportano con circospezione, e non hanno mutato pressoché nulla nella vita

quotidiana, nel loro modo di vivere.

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La ragione della loro vita eremitica va ricercata nel settarismo religioso, le cui radici

risalgono ai tempi anteriori a Pietro.

Alla parola Nikon… SPUTANO e si fanno il segno della croce a due dita, di Pietro I parlano

come di un nemico personale. Gli eventi della vita più recente sono loro ignoti. L’elettricità

la radio, gli sputnik sono al di là della loro comprensione.

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Furono scoperti nell’estate del 1978, durante una ripresa aerea geologica, si erano notati dei

giacimenti ferrosi lungo il corso superiore dell’Abakan. Un gruppo di geologi stava per venirvi

calato a fini esplorativi, stava scegliendo dall’alto il punto d’atterraggio. Il lavoro era meticoloso.

Gli aviatori perlustrarono più volte in volo la profonda gola per valutare dei banchi pietrosi

fosse il più adatto a un atterraggio.

Durante una discesa lungo il versante della montagna i piloti scorsero una cosa chiaramente

simile a un orto. All’inizio pensarono a una falsa impressione. Che orto poteva mai esserci,

se la regione era considerata disabitata? Il piùvicino punto abitato, giù lungo il corso del

fiume, distava 250 chilometri. Eppure era un orto! Lungo il declivio si potevano distinguere

le strisce scure dei solchi – si sarebbero dette patate. E poi una radura nello scuro massiccio

di cedui e pini non poteva spuntare da sola. Un disboscamento. Per giunta di antica data.

Abbassandosi il più possibile sulle vette montane i piloti scorsero vicino all’orto qualcosa

di simile a un abitacolo. Descrissero un alto cerchio, e videro una catapecchia! E di lì

anche un sentiero che conduceva al fiume. Anche dei ciocchi di tronchi tagliati e messi

a seccare. Uomini, comunque, non se ne vedevano.

Strano!

Sulle carte degli aviatori in tali luoghi qualsiasi punto abitato, perfino il rifugio invernale

di un cacciatore che resti vuoto d’estate, viene sempre indicato. E lì c’era addirittura un

orto!

(prima parte…continua.) (Dedicato a tutti coloro che sono convinti della propria civiltà….

….convinti, per l’appunto…, in tutta la loro barbara arretratezza. Riflessione di Pietro vicino

al suo orticello…)

(Vasilij Peskov, Eremiti nella taiga)

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CHE ACHAB SI GUARDI DA ACHAB

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In riferimento ai fatti dell’8 dicembre 2011, in Arizona, Jared Lee Loughner,

un assassino della democrazia…e non solo.

Propongo senza commento alcune immagini e parole (che non ho letto né udito),

di un assassino e il suo mondo.

Forse queste ci possono in parte svelare o almeno spiegare o raccontare il delirio

specchio di una società malata?

– Non so….vedete ed ascoltate voi….

Che Achab si guardi da Achab...

 

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RITORNO

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Questa sera veniamo da voi, cantando un canto,

per il sentiero della luna,

o villaggi, villaggi;

nei vostri cortili

lasciate che ogni mastino si svegli,

e che le fonti di nuovo

nei secchi irrompano a ridere –

Per le vostre feste dai campi, vagliando

vi abbiamo portato con canti la rosa.

Questa sera veniamo da voi, cantando l’amore,

per il sentiero della montagna,

o capanne, capanne;

di fronte alle corna del bue

lasciate che infine si aprano le vostre porte,

che il forno fumi, che si incoronino

di un fumo azzurro i tetti –

Ecco a voi le spose con i nuovi germogli

hanno portato il latte con le brocche.

Questa sera veniamo da voi, cantando la speranza,

per il sentiero del campo,

o fienili, fienili;

tra le vostre buie pareti

lasciate che risplenda un nuovo sole,

sui tetti verdeggianti

lasciate che la luna setacci la farina –

Ecco vi abbiamo portato il fieno raccolto in covoni

la paglia con il dolce timo.

Questa sera veniamo da voi, cantando il pane,

per il sentiero dell’aia,

o granai, granai;

nell’oscurità del vostro seno immenso

lasciate che sorga il raggio della gioia;

la ragnatela sopra di voi

lasciate che sia come un velo d’argento;

poiché carri, file di carri vi hanno portato

il grano in mille sacchi.

(Daniel Varujan, 1884 – 1915, poeta armeno, poesia scelta dalla sua raccolta postuma,

Il canto del pane)

 

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