IL LIBRO

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(“I sette cieli e la terra e tutto

ciò che vi si trova celebrano

le Sue lodi, e non v’è cosa

alcuna che non celebri le

Sue lodi, ma voi non comprendete

le loro lodi”. Ghazali)

I miei ricordi sono confusi.                                                87654896.jpg

Non mi è chiaro neppure dove abbia inizio

di preciso la mia memoria; a volte si

estendono di fronte a me panorami

agghiaccianti di anni senza numero,

mentre altre volte mi sembra che il

presente non sia che un semplice

attimo isolato in una eternità grigia e senza forma.

Non so neppure con certezza come sto comunicando questo messaggio.

Mi accorgo di parlare ma ho la vaga impressione che un agente mediatore di qualche

sorta, strano e forse terribile, sarà necessario per portare ciò che dico ai luoghi dove

desidero essere udito.

Anche la mia identità è avvolta nelle nebbie dell’incertezza.

Sembra che io abbia subito un grave shock: un’inattesa e mostruosa conseguenza, forse,

di qualcuna delle mie uniche e incredibili esperienze, che si snodano secondo cicli

interminabili.

Tutti questi cicli di esperienze, naturalmente, hanno avuto per origine quel libro roso

dai tarli. Ricodo quando lo trovai, in una bottega fiocamente illuminata sulla riva del

fiume, là dove la corrente limacciosa e inquinata sembrava attrarre una perenne coltre

di nebbia.

L’edificio era assai antico, tappezzato sino al soffitto di scaffali pieni di volumi in disfacimento,

in ciascuna delle stanze uniformamente prive di finestre. C’erano anche mucchi informi

di libri abbandonati sul pavimento o sistemati in rozze casse di legno.

Fu in uno di questi mucchi che trovai la ‘cosa’. Non ne ho mai saputo il titolo, perché

mancavano le prime pagine. Ma quando lo presi mi cadde di mano, aprendosi verso

la fine: e ciò che vidi fece vacillare i miei sensi.

C’era una formula – una specie di elenco di cose da dire e da fare – che riconobbi come

qualcosa di tenebroso e proibito; qualcosa di cui avevo letto in precedenza solo in frasi

evasive, trasudanti un misto di fascino e orrore, scritte da quanti avevano osato scavare

entro i più gelosi segreti dell’universo: singolari figure dalle cui opere, da tutti sfuggite,

io ero un lettore attento e appassionato.

Quella formula era una chiave – o una guida – verso certe ‘soglie’ o stati di transizione

dei quali i mistici hanno sognato e sussurrato sin da quando la nostra razza era giovane;

soglie che conducono verso ignoti stati di libertà, e verso scoperte al di là delle tre

dimensioni e dei reami della vita e della materia a noi già noti.

Da secoli, ormai, nessuno ne ricordava i passaggi essenziali, né sapeva dove cercarli:

ma quel libro era davvero molto antico. Non un torchio da stampa, ma la mano di un

monaco oscurato dalla follia aveva tracciato quelle terribili frasi latine in una grafia

onciale incredibilmente arcaica.

Ricordo l’occhiata furtiva e il sogghigno del vecchio che abitava quel posto quando

sollevai il libro, e ricordo il curioso gesto che fece con la mano quando me lo portai

via. Non volle essere pagato, e solo molto tempo dopo compresi perché.

Mentre tornavo verso casa, attraversando le vie strette e gonfie di nebbia dei quartieri

prospicienti il fiume abbi l’impressione spaventosa che dei passi silenziosi e leggeri mi

seguissero costantemente. Le case fatiscenti, vecchie di secoli, su entrambi i lati della

via, sembravano vive, e trasudavano una nuova, morbosa malignità: come se si fosse

all’improvviso riaperto un canale, da tempo chiuso, attraverso il quale una conoscenza

malefica si riversava sulla Terra. Mi sembrava che quelle mura, quegli abbaini sporgenti

di mattoni scoloriti, intonaci butterati da muffe, travi annerite – con finestre simili ad occhi

spalancati, le cornee lucide come diamanti – a stento si trattenessero dall’avanzare verso

di me per scacciarmi…eppure non avevo letto che un piccolissimo frammento di quella

formula blasfema, prima di chiudere il libro e portarlo via.

Ricordo, poi, in che modo lessi tutto il volume: il volto bianco come gesso, chiuso nella

stanza sui tetti nella quale da tempo conducevo le mie strane ricerche.

Il grande edificio era silenzioso, perché soltanto dopo mezzanotte avevo iniziato la mia

lettura. Mi sembra di ricordare che allora avevo una famiglia – anche se i dettagli sono

assai incerti – e so che c’erano anche molti servitori. Quale anno fosse, non posso dirlo:

da allora, ho conosciuto ère e dimensioni senza numero, ed il mio concetto di tempo

si è frammentato e ricomposto in maniera diversa.

Lessi a lume di candela – ricordo il gocciolare incessante della cera – e di tanto in tanto

giungevano sino a me rintocchi di lontani campanili.

Se rammento bene, seguivo, quei rintocchi con ansiosa attenzione, perché temevo che

ad essi si sovrapponesse una nota lontana ed estranea.

Quindi, vennero per la prima volta il rumore di colpi ed il fruscio dietro la finestra che

si apriva sugli alti tetti dalla città. Vennero mentre mormoravo il nono verso di quell’

antico incantesimo: fui scosso da un tremito, perché sapevo di che si trattava.

Perché chi passa attraverso una soglia acquista un’ombra, e dopo non è mai solo.

Io avevo evocato qualcosa, ed il libro era davvero ciò che sospettavo.

Quella notte attraversai la soglia.

Mi trovai in un vortice nel quale erano distorti il tempo e la percezione; quando, la

mattina seguente mi risvegliai nella stanza sui tetti, vidi nelle pareti, negli scaffali e

nei mobili strani particolari che non avevo mai osservato prima.

Da allora, il mondo non mi apparve più come quello che conoscevo.

Mescolate con il panorama del presente c’erano sempre delle schegge del passato e dei

frammenti del futuro: anche il più familiare tra gli oggetti assumeva sembianze ignote

nella nuova prospettiva apertasi di fronte alla mia percezione ingigantita.

Dopo di allora continuai a procedere come in un sogno fantastico, tra forme sconosciute

o appena riconoscibili; e ad ogni nuova soglia che varcavo, sempre meno chiaramente

potevo riconoscere gli oggetti propri della sfera ristretta alla quale ero stato sino allora

legato.

Ciò che vedevo io, nessun altro poteva scorgerlo; trascorrevo la mia esistenza nel silenzio

e nella solitudine, per timore di essere considerato un folle.

(H.P. Lovecraft)

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L’UOMO E LA NATURA (teologia dei bestiari)(13)

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Sia pure – dirà qualcuno -: l’Intelligenza contiene gli animali nobili.

Ma come potrebbero esserci in Lei delle bestie volgari e irrazionali?

E’ evidente che un essere è volgare perché è privo di ragione, mentre è nobile perché

ne è dotato; perciò, se il valore consiste nel possedere intelligenza, il contrario consisterà

nel non possederla. Ma come un essere privo di ragione e di intelligenza può esistere

dov’è Colei nel quale ogni cosa esiste e dal quale ogni cosa deriva?

Prima di affrontare e di discutere questo punto, cerchiamo di capire che l’uomo di

quaggiù non è come l’Uomo                                                  98ikj8u7.jpg

intelligibile e che perciò anche

gli altri animali di lassù non sono

come gli altri di quaggiù, ma

devono essere concepiti in modo

più eminente; lassù poi non c’è

affatto ragionevolezza, e se

qui esiste l’essere ragionevole,

nel mondo intelligibile esiste

invece l’Essere anteriore a

ogni ragionamento.

Perché dunque quaggiù

l’uomo e gli altri animali no?

E’ perché, essendo differente

lassù il pensare sia nell’Uomo

che negli altri Viventi, anche

quaggiù dev’essere il ragionare,

poiché anche negli altri animali

ci sono, non so come, molte forme di ragionevolezza.

Perché dunque non sono ragionevoli allo stesso grado dell’uomo?

E perché gli uomini, fra di loro, non sono ragionevoli allo stesso grado?

Dobbiamo riflettere a questo: che le molte vite, simili a movimenti, e i molti pensieri non

possono essere tutti eguali, ma che le vite sono differenti e differenti i pensieri; e le

differenze sono più luminose e più chiare e, a seconda che si trovano più o meno

vicine agli Esseri primi, sono vite di primo, secondo o terzo grado.

Perciò alcuni pensieri sono dei, altri formano una seconda categoria cui appartiene

l’essere che quaggiù vien detto razionale, dopo di questi viene subito quello irrazionale;

lassù, invece, anche l’essere che chiamiamo irragionevole, è ragione, come l’essere

privo di Intelligenza è intelligenza, poiché anche chi pensa un cavallo è intelligenza,

e il pensiero ‘cavallo’ è intelligenza.

E se fosse soltanto un atto di pensiero, non sarebbe assurdo che fosse pensiero di una

cosa senza pensiero; ma poiché il pensiero è identico al suo soggetto, come mai il

pensiero è dotato di intelligenza, mentre l’oggetto non lo è?

L’intelligenza allora renderebbe se stessa inintelligente.

Veramente, essa non si rende inintelligente, ma Intelligenza determinata: è infatti

una vita determinata.

Come una vita, qualunque essa sia, non cessa mai di esser vita, anche l’Intelligenza,

così determinata, non cessa di essere intelligenza; anche l’Intelligenza che ha per

oggetto un qualsiasi animale non cessa tuttavia di essere ‘intelligenza di tutte le cose’,

come, per esempio, anche dell’uomo, dal momento che lì qualsiasi parte tu prenda

è tutto, benché in un altro senso; poiché l’Intelligenza è in atto quella cosa singola

ed è tutto soltanto in potenza. Noi però cogliamo in ciascun essere solamente ciò che

è già in atto; e ciò che è già in atto all’ultimo posto; perciò il cavallo è all’ultimo

posto dell’Intelligenza e, poiché nel suo processo eterno verso una vita inferiore essa

si è soffermata, ecco apparire il cavallo, mentre un’altra intelligenza si sofferma

invece più in basso.

La potenza dell’Intelligenza, esplicandosi, abbandonano sempre qualcosa di sé in

alto; pur procedendo, perdono sempre qualcosa e malgrado queste continue perdite,

attraverso i difetti dell’animale che si manifestano in questo venir meno, trovano

sempre da aggiungergli dell’altro; e così, se non ci sono più mezzi che bastino per

vivere, ecco apparire unghie, artigli, denti aguzzi o corna.

Perciò, a misura che l’intelligenza si abbassa, trova in sé, a sua volta in forza della

sua autosufficienza, un rimedio per quel difetto.

(Plotino, Enneadi)

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L’UOMO E LA NATURA (12)

 

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  he cosa dovrei dire dei lupi mannari?

Perché esistono dei lupi mannari che corrono per i villaggi

divorando uomini e bambini.

Come la gente dice di loro, essi corrono a gran galoppo, nuocendo agli uomini, e sono

chiamati ber-wolff e wer wolff.

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Mi chiedete se so qualcosa su di loro?

Vi risponderò di sì.

Essi sono, a quanto pare, lupi che mangiano uomini e bambini, e questo accade per sette

motivi: fame, selvatichezza, vecchiaia, esperienza, pazzia, il diavolo e dio.

Innanzitutto accade per fame: quando i lupi non trovano nulla da mangiare nella foresta,

devono andare tra la gente e divorare gli uomini, guidati dalla fame. Voi vedete, quando

fa molto freddo, che i cervi vengono in cerca di cibo fino ai villaggi, e gli uccelli persino

nella casa in cerca di provvigioni. Per quanto riguarda il secondo motivo, i lupi divorano

i bambini per la loro innata selvatichezza, perché essi sono selvaggi, e questo è ‘propter

locum ferum’.

Il loro stato deriva in primo luogo dalla loro condizione. I lupi che vivono nei luoghi

freddi sono più piccoli per quel motivo, e più selvaggi, degli altri lupi.

In secondo luogo, la loro selvatichezza dalle stagioni; essi sono più selvaggi intorno

alla Candelora che in qualsiasi altro periodo dell’anno, e gli uomini devono stare più

in guardia contro di loro in quel periodo che in qualsiasi altro.

C’è un proverbio che dice:”Colui che cerca un lupo alla Candelora, un contadino il

martedì grasso, e una persona a Lent, è un uomo di fegato”.

In terzo luogo la loro selvatichezza dipende dall’avere cuccioli.

Quando i lupi hanno un cucciolo, sono più selvaggi di quanto non ne hanno.        

Ciò accade in tutte le bestie.

Un’anitra selvatica, quando ha un giovane anatrocollo, vedete il trambusto che fa.

Un gatto combatte per i suoi gattini: i lupi fanno lo stesso.

Il terzo motivo per cui i lupi causano danni è dovuto alla loro età.

Quando un lupo è vecchio, è debole e fiacco nelle gambe, per cui non può correre

abbastanza velocemente per cacciare i cervi, e quindi sbrana un uomo, che può

afferrare più facilmente di un animale selvaggio.

Riesce a dilaniare uomini e bambini più facilmente degli animali selvatici, a

causa dei suoi denti, poiché i suoi denti cadono quando è molto vecchio, potete

facilmente notarlo nelle donne vecchie: come gli ultimi denti si muovono, ed è

rimasto loro a mala pena un dente in bocca, aprono la bocca affinché gli uomini

possano nutrirle con cibi passati e sostanze cucinate in umido.

Il quarto motivo per cui i lupi mannari commettono danni è dovuto all’esperienza.

Si dice che la carne umana sia di gran lunga più dolce di qualsiasi altra carne; così,

una volta che un lupo ha assaggiato la carne umana, desidera assaggiarla di nuovo.

Si comporta, quindi, come i vecchi ubriaconi, i quali, quando assaggiano il vino

migliore, non si lasceranno sviare da uno di qualità inferiore.

Riguardo al quinto motivo, l’aggressione deriva dalla pazzia.

Un cane quando è idrofobo è anche sconsiderato, e morde qualsiasi uomo;

non riconosce nemmeno il suo padrone: il lupo non è altro che un cane selvaggio,

idrofobo e sconsiderato,che non ha riguardo per nessun uomo.

(Il sermone sui licantropi, Johan Geiler Keiserberg, predicatore in Strasburgo, anno 1508)

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AVVENTURE DELLA DOMENICA POMERIGGIO: UNA GRANDE NAVE SFIDA IL TEMPO (7)

(Vorrei innanzitutto ringraziare, in apertura di questo post, in onore

della Cutty Sark, il National Maritime Museum di Greenwich, che

con la sua visita -on line – ha resuscitato emozioni antiche di un

tempo passato e smarrito, emozioni distillate in rari e preziosi

libri, come quello che sto proponendo in capitoli, e nella visita

con il vasto repertorio di notizie, documenti e immagini, che si

possono godere sul suo sito; illuminante esempio di completezza,

nelle poche volte in cui possiamo affermare, sotto questo punto

di vista, che il moderno mezzo proposto dalla nuova tecnologia –

a cui non ho risparmiato critiche costruttive – più e maggiormente

della televisione può e sà offrire, riconsegnandoci quelle emozioni

perse, di un buon libro accompagnato dal programma dal gradito

sapore di avventura, che purtroppo – sempre per ugual mezzi –

abbiamo del tutto perso sapore e piacere. Quelle avventure

indelebili, viaggi lontani, natura conquistata e inconquistabile,

sogni ad occhi aperti, dei quali la letteratura è solo una felice premessa,

compagna, maestra e sposa. I nostri genitori e nonni amavano Salgari

e non solo, ed il libro aveva un sapore vero, un sogno che dobbiamo

imparare a riconquistare anche con l’aiuto di una consapevole gestione

dei moderni mezzi che la tecnologia offre.)

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Terre eretiche in:

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Avendo ispezionato personalmente ogni particolare dell’attrezzatura, Woodget

conosceva alla perfezione le possibilità della vecchia nave.

Perciò quando il Cutty Sark, dopo aver disceso l’Atlantico senza incidenti,

doppiò il capo di Buona Speranza e trovò un forte vento di nordest, egli poté

issare tutte le vele con assoluta sicurezza. Per tre giorni il Cutty Sark fendette

l’oceano Indiano a vele spiegate e a una velocità che rasentava i 16 nodi.

Woodget era un comandante molto coraggioso ma altrettanto prudente, e

l’equipaggio era contento di vederlo in azione.

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‘Si divertiva proprio’, scrisse una volta un ufficiale.

‘Mi sembra di vederlo ancora mentre, mordicchiandosi la punta di un baffo,

se ne sta appoggiato all’attrezzatura sopravvento con il corpo massiccio

avvolto nella cerata gialla e gli alti stivali di cuoio, osservando attentamente

l’alberatura senza mai muoversi fino all’ultimo minuto’.

Woodget governava gli uomini come la nave, rifiutava di lasciarsi distogliere

dal suo obiettivo ed esigeva obbedienza assoluta in ogni cosa e in ogni

momento, anche quando celebrava le sacre funzioni sul ponte.

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Una domenica un’ondata aveva spezzato il ponte rischiando di rovesciare gli

uomini inginocchiati, e un marinaio alzò su di lui uno sguardo implorante.

‘Chiudi quei maledetti occhi, Bill Jones’, gli gridò Woodget, ‘e lasciami finire

questa preghiera!’.

La sicurezza che emanava da lui si dimostrò utile in tutte le condizioni

meteorologiche. Quando il vento cadde cedendo alle brezze contrarie, il

capitano fu in grado di far marciare ugualmente il clipper, che coprì le

15.000 miglia del viaggio fino a Sydney in 78 giorni.

Tra i comandanti e gli equipaggi dei clipper della lana c’era molta competizione,

come era stato tra i clipper del tè trentanni prima. Ogni nave si batteva per

la gloria di tornare a Londra per prima, e ciascuna aveva i suoi partigiani

tra gli scommettitori delle taverne di Sydney.

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Nel 1885, i due clipper più quotati erano ovviamente il Cutty Sark e il

Thermopylae. I velieri sulla linea dell’Australia facevano il giro del mondo

verso est: all’andata doppiavano il capo di Buona Speranza e al ritorno il

temibile capo Horn. Woodget, che era nuovo alla rotta australiana, avrebbe

scapolato lo Horn per la prima volta. A Sydney, gli altri capitani scherzavano

sul fatto che probabilmente si sarebbe perduto. Tutti sapevano che

Woodget era troppo bravo perché gli potesse accadere una cosa del genere,

ma, come ogni altro clipper, il Cutty Sark si sarebbe trovato in difficoltà

nel mare burrascoso dei ‘quaranta reggenti’ del capo Horn.

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Il 6 novembre, a 23 soli giorni da Sydney, il Cutty Sark aveva scapolato capo

Horn. Aveva dimostrato di poter affrontare tranquillamente le onde più alte

e i venti più forti, di sopravvivere alle tempeste di neve e di grandine che

strappavano le vele, e raddrizzarsi dopo essere stato traversato. Nella seconda

parte del viaggio dovette risolvere problemi di diversa natura.

Risalendo verso nord lungo la costa orientale dell’America del Sud, avrebbe

dovuto lottare contro i venti contrari e navigare quasi controvento in quelli

di nordovest. Sarebbe stato in grado di battersi contro i venti prevalenti nell’

Atlantico meridionale con la stessa agilità con cui aveva dominato in poppa?

L’equipaggio ne era pienamente convinto, e aveva ragione, perché Woodget

diresse con mano sicura le manovre delle vele.

‘Era riuscito a instillare nei suoi uomini un’assoluta fiducia in lui’, così scrisse

uno dei suoi ufficiali.

‘Non ricordo di averlo visto una sola volta perdere la calma nelle burrasche’.

(Whipple e i redattori delle edizioni Time-Life, I clipper)

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VIAGGI IN ALTRI MONDI E TEMPI: IL JAZZ (Django Reinhardt) (13)

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Eretici in:

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(paginedistoria.myblog.it)

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…Django Reinhardt: genio istintivo, chitarra fatta uomo, poteri soprannaturali

venuti dal passato, anima primitiva marcata dal sigillo divino, tali sono le

formule che tornano più frequentemente a suo riguardo.

Come se si negasse al grande manouche (come lo si nega ancor oggi ai suoi

fratelli di razza) la facoltà di darsi uno scopo e di costringersi a uno sforzo

intenso per raggiungerlo. Inadatto a ogni lavoro individuale e a ogni progetto

collettivo, l’immagine dello zingaro indolente e irresponsabile resta viva nella

nostra società.

Non c’è niente di più falso.

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L’abbiamo visto con Django che rieduca con accanimento la sua mano atrofizzata,

lo vedremo più tardi quando imparerà a scrivere o si accosterà alla pittura.

In tutt’altro ordine di idee, lo constatiamo oggi con certe iniziative tzigane che

tendono a provare, nello stupore, dei più competenti che, pur senza

assistenza gadjo, questo popolo può, quando ne sente il desiderio, prendere

in mano e valorizzare il proprio patrimonio culturale.

Per ritornare a Django, si è ripetuto in coro che era nato musicista e per molti

questa spiegazione basta: dopotutto gli tzigani non hanno forse la musica

nel sangue, come i neri hanno il ritmo?

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Conosciamo l’antifona di questo razzismo inconscio che iscrive sul conto dell’

eredità ciò che rifiuta allo spirito: si nasce musicista tzigano come si nasce

gobbo! Agli altri, i gadjé, la facoltà di sviluppare un vero talento artistico

a forza d’intelligenza, di austera disciplina e di studi sapienti.

Per interpretare la musica dei rom è sufficiente l’istinto.

Strani parti avvengono in questi campi nomadi dove si concepiscono regolarmente

dei piccoli prodigi del violino o della chitarra, adorni di tutti i doni della

buona fata delle roulotte. La realtà è un’altra: in genere gli tzigani sono

effettivamente sensibilizzati alla musica fin da giovanissimi, ma perché questa

è parte integrante del loro quotidiano, cosa che non accade più nella nostra

società; da loro nessun divertimento familiare, nozze, battesimi o feste, si

fa senza la musica. Ecco l’origine delle dinastie di musicisti come quella di

Django, Joseph, Lousson e Babik Reinhardt o quella di Sarane, Baro, Matelo

Ferret e i suoi figli, senza parlare dei cugini. Resta il fatto che gli tzigani

non sono tutti dei musicisti, e che fra quelli che suonano ci sono anche i

mediocri.

E poi queste tradizioni hanno tendenze a perdersi presso certi gruppi più

esposti degli altri alle diverse pressioni della vita moderna. Eppure chi mi

spiegherà come identifichiamo, senza colpoferire e fin dalle prime note,

un chitarrista gitano?

Quel profumo, quello stile indefinibile che troviamo nei Ferret e in Django…,

quasi tutti gli tzigani, dal più umile al più brillante, hanno quel qualcosa in

più nell’espressività che li rende immediatamente riconoscibili. Però non

possiamo affermare che ciò sia scritto nei loro geni. E’ piuttosto in questa

immersione musicale costante che dobbiamo vedere l’origine di caratteri

così specifici. Da lì la fioritura periodica di numerosi talenti presso gli

tzigani, che siano gitani, manouche o rom, o addittura di bambini

prodigio….

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Oltre l’impronta dell’ambiente sociale o il radicamento culturale, è evidente

che non dobbiamo trascurare lo sfondo artistico dell’epoca per quel che

riguarda la genesi di uno stile. Eppure, quando si tratta di un genio così

profondamente originale come Django, sembra che si siano sistematicamente

occultati tutti gli apporti esterni tranne quelli del jazz nero-americano.

Nessuno dubita del fatto che il manouche fosse un essere eccezionale,

però in tutta logica non poté sottrarsi al fascino delle musiche del suo

tempo. Così ci soffermeremo un po’ sul periodo fra le due guerre che

decise della sua carriera e dove tutto successe precipitosamente: i

generi musicali più diversi ed estranei tra loro si sarebbero felicemente

scontrati nel disdegno delle barriere geografiche o razziali.

(Billard/Antonietto, Django Reinhardt, il gigante del jazz tzigano)

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DIALOGHI FRA LUPI: LA GESTIONE DEL TERRITORIO (la mafia è solo bianca?)

Casa Guttadauro.

20 febbraio 2001.

Nel salotto di don Peppino, c’è Mimmo, Domenico Miceli.

Siamo nel pieno del dibattito sui candidati per le Regionali.

(una conversazione…)

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– Allora, io ho parlato con Totò. Ma gli ho detto delle Regionali, è giusto?

Anche oggi Totò mi ha chiamato per chiedermi, ‘Ci sei stato?’. ‘Totò, non

ti preoccupare, ti faccio sapere domani’.

Qual’è l’obiettivo?

Cosa dobbiamo fare?

Guttadauro inizia la canzone…o meglio il ritornello (ascoltiamo):

Il mio obiettivo è di dare una mano a quelle persone che stanno carcerate. 

Quindi di arrivare a livello nazionale per avere qualcuno là in grado di dire,

‘Signori miei…’, cioè qualcuno che ha il coraggio di spendere una parola in

un certo modo. Io non ho obiettivi né di appalti, né di piccioli, né di cazzi,

né di mazzi. La politica spicciola di questi signori che vogliono andarsi a

fare attaccare medaglie e vogliono andare a farsi piccioli. L’orgoglio del 

potere, a me personalmente non interessa.

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– Io parlo di obiettivi politici – precisa Miceli.

– Comunque ci dici a Totò di non aver nessun tipo… Quando ha delle cose

da dire, le dicesse a te. Io avrei anche piaere di vederlo Totò però non mi

pare che sia una cosa opportuna. Digli di non crearsi problemi. 

Lui è per una canditatura alle Regionali. Stop.

– Lasciami spegare. Al Cdu ne toccheranno due. Uno in Sicilia orientale,

l’altro Sicilia occidentale. In quello della Sicilia occidentale, Totò sta cercando

di piazzarci a Cintola. E a me non sta bene assolutamente. Cintola è depudato

regionale in carica ed è uno di chiddi chi ci ha fatto ‘u luogotenente a Totò.

– Cintola è di San Giuseppe? Io non conosco a Cintola.

– No, è di Partinico.

– Va be’, ma i suoi amici sono sempre gli stessi.

– Ma io parlo dal punto di vista politico. Non mi sta bene assolutamente. Totò

mi dice: ‘Se potessi scegliere, ci metterei un mio amico’ – continua Miceli.

– Certo.

– ‘Ma non posso scegliere io’. Il problema è che alle Regionali, di tutta la lista

del Cdu, di 18 candidati, ne viene eletto uno solo. E per me ‘u migliore di

tutti è Nino Dina.

– Ma io quello lo conosco così, non è che lo conosco bene. E’ di un paese…

– Di Vicari. E’ sempre stato vicino a Totò, è ispettore sanitario come lui.

Io ho preso la posizione di Nino, sperando che all’ultimo Nino si tirasse

fuori per qualche ragione, perché lui può fare il manager.

– Ospedale Civico.

– Lui mi diceva: ‘Io piazzo Nino e ‘u candidatu ‘ u fai tu’.

– Ma se vai alla Regione, a me sta bene. Io all’avvocato Priola ci posso 

dire di andare a fare l’avvocato, per ora.

– Totò mi ha detto: ‘Se tu riesci da solo ad arrivare a 3500, 4000 voti, 1500

riesco a darteli io. Perché io, dice, lo devo fare in maniera tale da non scontentare

gli altri candidati’.

3500 voti?

– Totò mi dice: ‘Tu 2000 voti a Palermo, ‘i pigghi?’.

Nel 93 io ne pigliai 1200, dico, e alle comunali è molto più difficile picchì il numero

dei candidati è molto più alto……

(Bianchi/Nerazzini, La mafia è bianca)

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L’UOMO E LA NATURA: LUPI (11)

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Santi e muratori in:

muratori-3.html

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Lasciate che cominci con qualcosa di concreto: la predazione sul bestiame.

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Gli animali sono stati percepiti in vari modi nel corso della storia: come

oggetti per il divertimento umano, come schiavi ai suoi comandi, come

oggetti di interesse puramente simbolico.

Oggi sorridiamo di mettere sotto processo un animale per omicidio, ma

la nozione di processo e di punizione per gli omicidi commessi da animali

non dovrebbe essere liquidata come ignobile farsa.

Facevano sul serio nel XVI secolo; e comprendere perché un maiale venisse

processato, imprigionato e impiccato per omicidio aiuta a capire come

mai la gente dovrebbe desiderare lo stesso destino per il lupo.

Deriva dal principio della punizione.

La mentalità accademica dell’epoca faceva di tutto per osservare rigidamente

i principi e uno dei principi più vecchi della giustizia è quello della punizione.

La lex talionis, la legge ebraica dell’occhio per occhio.

Non si trattava di una semplice vendetta, ma tendeva a preservare un ordine

cosmico. Nessun atto di uccisione doveva rimanere impunito, inespiato. Se

una trasgressione così seria rimaneva impunita, i peccati del padre ricadevano

sui figli. Lasciare un omicidio impunito nella comunità, quindi, significava l’ira

di Dio sotto forma di malattia e carestia.

Sebbene non fosse più considerata sollecita, la legge della punizionerappresentava

una volta una forte influenza sul pensiero legale. E nonostante uomini come

Tommaso d’Aquino considerassero gli animali come inconsapevoli strumenti

del Diavolo, come il tramite con cui Dio portava il dolore e la sofferenza

che mettevano alla prova la tempra dell’uomo, non c’era alcuna differenza:

chiunque interferisse con il progetto e la giustizia divina doveva essere castigato.

Se un cavallo scalciava a morte un bambino pestifero, doveva essere processato

e impiccato. Portato al suo eccesso, questo pensiero voleva dire che l’uomo

suicida per mezzo di un coltello fosse processato, la sua mano mozzata e

punita in separata sede, e il coltello bandito, gettato oltre le mura cittadine.

Anche quando questi processi agli animali cessarono, l’idea che l’omicidio

umano dovesse essere espiato persistette. Di recente era ancora preservata

nella legge inglese dei deodanti. Il carro che investiva un uomo veniva venduto

e il ricavato andava allo stato che, in teoria, aveva perso i servigi di quel

cittadino. Non era certo necessario un ragionamento del genere per spingere

un uomo a volere la vita di un lupo sospettato di aver ucciso un essere

umano, ma è importante notare che gli uomini si sentivano in obbligo

morale, e non semplicemente in diritto, di trovare la bestia e abbatterla.

Non importava che i lupi fossero esseri senzienti o sciocchi strumenti di

Satana, che uccidessero deliberatamente o in modo accidenatale o che

fossero sospettati di aver ucciso qualcuno: lo spirito del deceduto doveva

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essere vendicato da un’azione punitiva.

L’idea del castigo al quale era connesso il macello di bestiame, cioè l’omicidio non

umano, prese piede per due ragioni. Anzitutto, esisteva una concezione di

pecore e bovini come creature innocenti incapaci di vendicarsi, quindi sotto la

tutela dell’uomo: ‘Uccidi la mia pecora e ucciderai me’.

In secondo luogo si credeva che gli animali domestici fossero innatamente buoni

e il lupo innatamente malvagio, e che quest’ultimo fosse in qualche modo al

corrente della natura del suo atto quindi un omicida intenzionle. In seguito,

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ossia nell’America del tardo XIX secolo, questo atteggiamento pretettivo del

bestiame innocente, della sua rettitudine, divenne un elemento centrale, un

fondamento giuridico delle bounty laws e dei programmi di avvelenamento

con cui si intendeva liberarsi dei lupi, elemento tanto cruciale quanto la 

perdita economica.

Altre idee presero origine dal Medioevo e contribuirono a far credere che 

uccidere lupi fosse moralmente corretto. Nella mentalità popolare veniva

fatta una distinzione tra animali come il cane e la vacca, che servivano l’uomo,

e il lupo e la donnola, che arrecavano dolore. Si discriminava tra bestes dulces

o bestie dolci, e bestes puantes o bestie fetide. Il contrasto tra lupo e daino,

tra corvo e colomba rende a sufficienza l’idea.

Un altra importante idea era la credenza che gli animali fossero stati portati

sulla Terra per servire l’uomo che ‘nessuna vita può soddisfare Dio se non

è utile all’uomo’. L’uomo riteneva di avere il dominio sugli animali alla

stessa stregua del dominio che esercitava sugli schiavi, per cui poteva

permettersi qualsiasi cosa. Ripulire la foresta dai lupi affinché l’uomo potesse

allevare bestiame era perfettamente giusto.

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Non solo, ma incontrava l’approvazione di varie denominazioni religiose che

ammiravano tale ingegno, e dello stato, il cui scopo era ottenere una campagna

soggiogata, adatta al pascolo e produttiva.

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Il pensatore francese René Descartes elaborò un’alta argomentazione a sostegno

dell’uccisione dei lupi. Sostenne che gli animali non fossero giunti sulla Terra a

uso e consumo degli uomini, ma che fossero di umili natali, senza anima, per

cui l’uomo non incorreva in alcuna colpa morale nell’ucciderli. Si trattava della

negazione formale di un’idea ‘pagana’ incompatibile con il pensiero della

Chiesa romana, secondo la quale gli animali avevano uno spirito, non dovevano

essere uccisi in modo arbitrario e non appartenevano all’uomo.

(Barry Lopez, Lupi)

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L’UOMO E LA NATURA: LUPI (10)

Precedente capitolo in:

l-uomo-e-la-natura-9.html

Santi e muratori in:

muratori-3.html

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Sin da quando l’uomo ha preso a interessarsi al lupo, facendone discendere i

cani o ammirandolo come cacciatore, ha trasformato la sua uccisione in routine.

A prima vista le ragioni sono semplici e giustificabili.

I lupi sono predatori.

Quando l’uomo arriva in una ‘terra’ per domarla, rimpiazza la selvaggina con

animali domestici. I lupi predano queste bestie, e l’uomo a sua volta li uccide,

riducendone la popolazione come misura preventiva per proteggere il suo

investimento economico.

I due non possono proprio vivere accanto

L’uccisione dei lupi va naturalmente ben oltre il controllo dei predatori.

I cacciatori di taglie uccidono per i soldi, i trapper per le pelli, gli scienziati per

i dati, gli appassionati di caccia grossa per il trofeo. In questi casi le ragioni addotte

sono difficilmente sostenibili, eppure molte persone non vedono proprio nulla

di sbagliato in tali attività. Anzi, questo è il modo in cui trattiamo comunemente

i predatori, inclusi orsi, linci, e puma.

Ma il lupo è in sostanza diverso, poiché la storia del suo sterminio mostra un

autocontrollo decisamente inferiore e una perversione assai superiore. Sono

numerosi coloro che non ammazzavano i lupi tout court, ma li torturavano.

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Li bruciavano vivi, strappavano loro le mascelle, tagliavano loro i tendini

d’Achille, li facevano inseguire dai cani. Li avvelenavano con stricnina,

arsenico e cianuro su scala così vasta che milioni di altri animali come procioni,

mustele dai piedi neri, volpi rosse, corvi imperiali, falchi dalla coda rossa,

aquile, citelli e ghiottoni morirono accidentalmente di conseguenza.

All’apice della febbre sterminatrice, avvelenarono persino se stessi e bruciarono

i propri possedimenti boschivi nel tentativo di sbarazzarsi dei rifugi dei

lupi.

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Negli Stat Uniti, come altrove, nel periodo compreso tra il 1865 e il 1885, gli

allevatori di bestiame uccidevano i lupi con dedizione quasi patologica.

Nel ventesimo secolo uno sport diffuso consisteva nell’affiancarsi ai lupi a

bordo di aeroplani e motoslitte e abbatterli a colpi di fucile. Nel Minesota

degli anni 70 la gente soffocava al laccio i lupi nordamericani per manifestare

il proprio disprezzo a chi aveva dichiarato il lupo un animale in via d’estinzione.

Questo non è un controllo dei predatori e si spinge oltre la casuale crudeltà che

i sociologi affermano manifestarsi tra le persone sotto stress o dove non esiste la

percezione della responsabilità.

E’ l’epressione violenta di un presupposto terribile: che l’uomo abbia il diritto

di uccidere altri esseri viventi non per le loro azioni ma per le azioni che temiamo

possano intraprendere.

Ho quasi scritto ‘o per nessuna ragione’, ma di ragioni ce ne sono sempre.

L’uccisione dei lupi ha a che fare con una paura fondata sulla superstizione.

Ha a che fare con il ‘dovere’.

Ha a che fare con dimostrazioni di virilità.

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E a volte, poiché è un atto considerato ‘giusto‘ e al tempo stesso del tutto privo

di coscienza, uccidere i lupi penso abbia a che fare con l’omicidio.

Storicamente la spinta più manifesta, e quella che meglio spiega l’eccesso di sterminio,

è un tipo di paura: la teriofobia.

La paura delle bestie.

La paura delle bestie come creature irrazionali, violente e insaziabili.

La paura della proiezione della bestia che è in noi.

Questa paura è costituita da due fattori, l’odio per se stessi e l’ansia per la perdita

umana di inibizioni presenti in altri animali che non stuprano, non commettono

omicidi e non saccheggiano.

Al cuore della teriofobia vi è la paura della propria natura.

Nella sua manifestazione più acuta, la teriofbia è proiettata su un animale solo, che

diventa un capro espiatorio e viene annichilito.

L’odio alligna le sue radici nella religione: il lupo era il Diavolo travestito.

E tali radici sono secolari: i lupi uccidevano il bestiame e rendevano gli uomini poveri.

A un livello più generale atteneva, da un punto di vista storico, ai sentimenti provati

nei confronti della wilderness, ossia della natura incontaminata, integra e non ancora

domata dall’uomo. Quando gli uomini parlavano del primo aspetto, generalmente si

riferivano al secondo. Celebrare la wilderness voleva dire celebrare il lupo; alla stessa

stregua, porre fine alla wilderness, e a tutto ciò che rappresentava, significa volere la

testa del lupo.

Nel cercare di comprendere la nostra avversione riguardo la natura selvaggia, lo storico

Roderick Nash ha individuato antecedenti religiosi secolari. In Beowulf, per esempio,

si trova un’espressione della wilderness secolare costituita da foreste disabitate, una

regione le cui fredde e umide profondità, con le sue paludi miasmatiche e i suoi dirupi

battuti dal vento, ospitano creature orribili predatrici dell’uomo.

Nella Bibbia la wilderness è definita come il luogo senza Dio, un deserto avvizzito e

sterile.

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Questo contorto senso della natura in quanto luogo per essenza pericoloso e senza

Dio era qualcosa che conduceva, in modo inevitabile, al lupo, l’abitante più temuto

della tetra terra del wilderness.

Col maturare dell’uomo civilizzato e con la misurazione dei suoi progressi in base

all’assoggettamento della natura, sia abbattendo alberi per le fattorie sia livellando

le menti pagane per far posto alle idee cristiane, uccidere i lupi divenne un atto

emblematico, un modo di scagliarsi contro quell’enorme e rudimentale ostacolo:

la wilderness.

L’uomo dimostrava la sua forza prodigiosa e la fedeltà a Dio uccidendo i lupi.

(B. Lopez, Lupi)

Prosegue in:

l-uomo-e-la-natura-lupi-11.html

Medioevo ritrovato in:

orrore-senza-fine-lettera-aperta-al-direttore-del-parco-monti-sibillini-1

Libi:

giulianolazzari.myblog.it

storiadiuneretico.myblog.it

lazzari.myblog.it

pietroautier.myblog.it

Un sito:

www.giulianolazzari.com

 

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LA GENESI DI QUELL’ESSERE

Prosegue in:

di quell’essere &

a quell’essere nascosto nel folto del bosco


 

la genesi








Amin al-Husayni nacque nell’ultimo decennio del XIX secolo.

Fonti diverse indicano l’anno della sua nascita come il 1893,

il 1895 e il 1897, certo che di strada da allora ne fece imbevu-

to del suo feroce odio.

Comunque generalmente si concorda che sia nato nel 1895.

Studiò prima a Gerusalemme, dove frequentò una scuola pub-

blica turca, e poi al Cairo presso la scuola di Sayh Rasid Rida.

Qui il giovane al-Husayni ricevette un’istruzione intrisa di

rabbioso antisemitismo.

 

la genesi


Durante l’adolescenza apprese per la prima volta della stori-

ca antipatia di Maometto verso gli ebrei di Medina, che ave-

vano osteggiato attivamente il Profeta e respinto il suo mes-

saggio. In quanto discendenti di coloro che avevano rifiutato

di accettare l’Islam, gli ebrei – così fu insegnato ad al-Husayni

 – sarebbero sempre stati condannati dai mussulmani come

infedeli che negano la verità del messaggio di Maometto.

Durante gli studi al Cairo l’influenzabile al-Husayni imparò

bene questa lezione, senza mai dimenticarla e lasciando che

condizionasse per tutta la vita il suo atteggiamento nei con-

fronti degli ebrei.

 

la genesi


Nel 1913, dopo aver brevemente frequentato l’Università al-

Azhar in Egitto, assolse l’obbligo religioso islamico di recarsi

in pellegrinaggio alla Mecca e poté quindi aggiungere il tito-

lo ‘Hag’ al suo nome.

Da allora fu conosciuto come ‘Hag’ Amin al-Husayni (non è

certo la marca di caffè del suo informatore….).

Nel corso di tutta la sua carriera pubblica al-Husayni ebbe

la tendenza a reinventare la propria autobiografia, dichia-

rando di avere la credenziali e un’esperienza professionale

che in realtà non possedeva.

Allo scoppio della prima guerra mondiale al-Husayni si ar-

ruolò nell’esercito turco e divenne ufficiale. L’Impero ottoma-

no, nel cui esercito egli combatteva, si era alleato con la Ger-

mania, unendosi agli Imperi Centrali nel conflitto perso in

partenza contro Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti.

 

la genesi


La storia ha dimostrato che questa fu una decisione tragica-

mente fatale e sciocca: come osservò all’epoca il primo mini-

stro inglese Herbert Asquith, l’Impero ottomano, un tempo

temibile, ‘con quella decisione di fatto si suicidava e decreta-

va la propria rovina’.

Nel 1918, dopo la sconfittta di Germania e Turchia, al-Husayni

tornò a Gerusalemme, la sua città natale, dove lavorò prima

come impiegato presso l’ufficio del consigliere arabo del gover-

natore militare britannico e poi….come insegnante…..

(prosegue in di quell’essere)




 

la genesi