INTANTO NEL LABORATORIO DI JEKYLL

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intanto nel laboratorio di jekyll

 

 

Improvvisamente dall’altoparlante risuonò la voce di Jessup:

– Okay, eccomi che parto. Puoi cominciare col registratore.

Rosemberg premette il pulsante di avvio del nastro e sussurrò

nel microfono:

– Sabato 15 ottobre 2011, ore 15 e ventisei.

Il nastro ora girava lentamente e dall’altoparlante venne la voce

di Jessup.

– Okay, sto partendo….c’è parecchia interferenza. Sento degli

odori. C’è l’odore dell’ospedale….Vedo anche dei riflessi nei

vetri.

Distorsioni spaziali

Il mio riflesso mi pare lontano un centinaio di metri. Ecco, ci

sono immagini intermittenti, un viale di menhir, un cromlech

di megaliti, uno scalmo grande quanto un pollice, una blastula

con amnio….

Okay, ora sono libero, chiaro…

Sono in cima.

Penso che le allucinazioni intermittenti e temporanee siano

qualcosa di legato al tempo. Sono immagini del passato remoto,

paleolitiche. Vecchie, vecchissime pietre; sempre vecchissime

pietre. Bisogna che mi ricordi di aggiornarmi un po’ di geologia.

Sì, sono convinto che le immagini della prima fase siano legate

al fattore tempo.

Bene, ora la consistenza delle cose sta mutando, acquista una

qualità pesante, come impastata, come se fosse stata applicata

con un grosso pennello, è rozza, bolle come al solito…

una pausa. 

intanto nel laboratorio di jekyll

Parrish, assai meravigliato, fissava il tracciato emesso dall’

apparecchio elettroencefalografica.

Si riudì la voce di Jessup, però diversa.

– Lo spiraglio, lo spiraglio, ecco che si sta formando….hai notato

che si forma sempre piegandosi all’interno come capita nella

prima fase di sviluppo di un tubo neurale fetale?

Okay, ecco la fase negativa, nero assoluto, uno spazio nero

infinito. Lo spiraglio è una linea liquefatta e bolle come un

vulcano, si allarga verso la punta secondo il solito processo,

tugumentazione, una ribollente struttura nucleare azzurra, le

solite esplosioni miniastronomiche, spirali di materia che si

proiettano in ogni direzione, la nascita di una stella, non so

cosa sia ma ecco che arriva, arriva…

– Ecco che arriva cosa?

domandò sottovoce Parrish.

– La struttura simile a una cellula esplode e poi ti viene incontro

come planando nell’aria,

spiegò Rosenberg.

– Poi cosa succede?

– Ti divora. 

intanto nel laboratorio di jekyll

– Cosa sarebbe, ti divora?

– Sarebbe che ti viene addosso, ti avvolge come un paramecio,

ti ingerisce e finisci digerito nel ribollente nucleo azzurro.

– Però!

– Sì, ma non fa paura. Succede tutto serenamente.

La voce di Jessup:

– Sono nell’Id, sono nell’Id….

La stanza divenne d’un tratto silenziosa e solo dopo un istante

si riudì il ronzio lieve del nastro che girava nel registratore.

Rosenberg stava sul suo sgabello, gli occhi serrati, le mani

strette tra le ginocchia. Dopo un po’ disse:

– E’ fatto.

– Come sarebbe, è fatto?

chiese Parrish.

– Dopo che entri nell’Id cosa succede?

– Ti addormenti,

disse Rosenberg.

– I nastri si fermano tutti a quel punto. Nell’Id ci sono entrato

tre volte e non ricordo assolutamente niente. Le registrazioni,

anche quelle di Eddie, si fermano tutte a questo punto.

Rimasero in silenzio. 

intanto nel laboratorio di jekyll

Attraverso il vetro vedevano Jessup rigido nella poltrona,

come incantato.

– Quanto dura questa fase?

mormorò Parrish.

– Venti minuti, mezz’ora, anche più dipende dal soggetto.

– Un bello spreco di nastro e di immagini agli infrarossi,

con quello che ci costa il binocolo…

– Che cosa succede quando torna normale?

– Niente. Di solito andiamo a farci un panino.

– Gesù, mi sembrate dei ragazzini alle prese col primo spinello.

– Dovresti provare tu. Un viaggio che non ti dico.

– No, grazie.

(prosegue in pagine di storia)

 

 

intanto nel laboratorio di jekyll

  

L’AGGRESSIVITA’ (socializzante…) (&) INTERGRUPPO

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l'aggressività intergruppo

 

 

Uno sguardo attento allo specchio è un’esperienza snervante.

A nessuno di noi piace vedere i propri difetti.

Ma anche se è uno sguardo che fa paura, perlomeno ci suggerisce

dei rimedi. Accettare il fatto che gli uomini abbiano una storia

molto lunga di violenza implica che sono stati plasmati nel

temperamento per usare la violenza con efficacia e che perciò

faranno fatica a frenarla.

E’ forse allarmante riconoscere l’assurdità del sistema: un sistema

che lavora per favorire i nostri geni e non la nostra coscienza e

che inavvertitamente mette in pericolo il destino di tutti i nostri

discendenti.

Ci aiuta a studiare i nostri difetti?

Ci aiuta ad avvicinarci a quel che vorremmo, a creare un mondo

dove l’umanità sia meno violenta di adesso?

Sarebbe bello rispondere ‘sì certo’.

Ma nulla indica che essere consapevoli del problema riduca 

efficacemente la violenza proiettata verso l’esterno della società

umana: il problema di Noi contro Loro, dell’aggressività inter-

gruppo. 

l'aggressività intergruppo

A livello internazionale, è certamente difficile immaginare come

un disegno evolutivo possa influire sui calcoli e le aspirazioni

dei leader, messi sotto pressione per lavorare nell’interesse della

propria tribù, nazione o impero.

E la storia indica che l’analisi intellettuale ha avuto scarso impatto

nel corso delle aggressioni intergruppo; se esaminiamo le società,

dall’antica Grecia alle nazioni moderne contemporanee, scopriamo

pattern non chiari nell’andamento totale delle morti causate dalla

violenza intergruppo, che sono comprese tra 5 e 65 per 100.000

all’anno. 

l'aggressività intergruppo

Per tradizione, nella società, quando un comportamento va fuori

dalle regole, il miglior modo per tenerlo sotto controllo è infliggere

delle sanzioni morali.

Nelle società primitive, i meriti di un antenato uniscono i discendenti

nella difesa dell’onore dell’antenato. In gruppi più grandi, le religioni

basate su principi morali tengono uniti i credenti.

Entrambi i sistemi fanno miracoli all’interno della società.

Purtroppo però quasi sempre lo spirito corporativo viene usato

contro altri, tanto che le diversità religiose diventano scuse per

giustificare aggressioni dirette verso l’esterno (e di conseguenza

canalizzare l’istinto innato della violenza). 

l'aggressività intergruppo

Uno dei pregi della visione evolutiva è che presenta gli umani

come un unico gruppo, che venera un unico antenato.

Mette in rilievo l’unità e banalizza le nostre differenze.

Una visione ampia ci induce a pensare che forse le nostre ridicole

strategie per raggiungere lo status, per aumentare la procreazione

individuale di una o due generazioni, potrebbe essere la causa

della fine della riproduzione della nostra specie…per sempre.

(Wrangham/Peterson, Basi biologiche della violenza umana)

 

 

l'aggressività intergruppo

    

UN INNO ALLA BICICLETTA (15)

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un inno alla bicicletta

 

 

Anni sono – e in quel tempo ancora si calunniava il timido e raro

ciclista, ed era ben viva la parola ‘ciclofobo’, ricordiamo di aver

veduto offrire alla universale ammirazione la fotografica sembianza

di un curioso e grottesco essere antropomorfo, cui non umana

forma aveva data la fantasia morbosa di un figurinaio decadente. 

un inno alla bicicletta

Repulsivo e gibboso, gli occhi vitrei fissi sotto la bassa fronte

volgare, enorme la mandibola e la bocca ferina, enormi le braccia

villose, enormi le mani afferrate al manubrio d’una bicicletta

da corsa, il mostro era forse creato a raffigurare, più che il voluto

bicyclantropos curvatus, la sintesi della enormità paradossale.

Riprodotto da qualche periodo freddurista, ebbe il suo quarto

d’ora di celebrità.

Non più.

Chi oggi ricorda?

E chi pur ricordandolo può trattenere il sorriso indulgente? 

un inno alla bicicletta

….Vale tuttavia la pena di richiamare alla memoria quella

creazione strana, solo perché essa volle a’ suoi tempi rappresentare

lo spirito della ‘pubblica opinione’.

In ogni avvenimento anche isolato e in apparenza trascurabile, 

lo studioso e l’osservatore possono ritrovare il ‘fenomeno’ di

psicologia collettiva, che in una data epoca afflisse l’umanità…

di epidemie misoneiste.

La figurazione paradossale dell’homo non-sapiens in sembianza

ciclo-belluina venne ben presto dimenticata. 

La buona bicicletta – superiorum permissu – già trascorreva

liberamente per le vie cittadine, e i campanelli trillavano cortesi:

guardatela, la buona bicicletta, e non odiatela, che non merita 

il vostro odio.

E’ modesta, costa poco e rende moltissimo, poiché risparmia tanto

tempo e il tempo è denaro.

E’ piccolissima, comoda, leggera, non mangia, non sporca, non

scappa all’improvviso come i cavalli imbizziti. Quando lavora,

un palmo di strada le basta: quando riposa, si contenta di un

sottoscala. Perché non vorreste fare amicizia con lei?… 

un inno alla bicicletta

E il pedone rimase ancora poco come quel cattivo sordo perché

non voleva sentire; burbero, brontolone e pusillanime.

Ma in quei tempi era già nato il Touring; ancora in fasce, allevato

da buone mamme e da ottime balie, sapeva già andare in 

bicicletta.

I più feroci misoneisti osservarono il grazioso fenomeno,

ammirando, e si persuasero che il nuovissimo mostricino d’

acciaio, apparso sulla faccia della terra per gli uomini di buona

volontà, non doveva poi essere tanto malefico.

E vennero, ad uno ad uno, poi a cento, a mille, a far atto di 

contrizione sincera: giovinetti di primo e di primissimo pelo,

uomini maturi e posati, vecchi barbogi e donne gentili.

(Umberto Grioni, Il ciclista)

 

 

un inno alla bicicletta

 

DALLA RELAZIONE DEL DOTTOR JEKYLL

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dalla relazione del dottor jekyll

 

 

 

Circa due mesi prima dell’assassinio di Sir Danvers, ero stato fuori

per una delle mie avventure ed ero rincasato molto tardi.

Il giorno dopo mi svegliai nel mio letto con un senso di curiosa

estraneità. Ma invano mi guardai intorno, invano considerai il

mobilio elegante e le proporzioni della mia stanza, con le sue alte

finestre sulla piazza; invano riconobbi i cortinaggi e il mogano

del mio letto a colonne: qualcosa insisteva a farmi pensare che

non fossi dov’ero, che non mi fossi risvegliato nel luogo dove

sembrava che mi trovassi, ma nella stanzetta dove dormivo di

solito quando ero nella pelle di Hyde.

Quella specie di illusione era così strana che pur sorridendone,

e ricadendo a tratti nel confortevole dormiveglia del mattino, mi

misi a studiarla col mio solito interesse per ogni fenomeno

psicologico (così bella, spoglia, nuda nei suoi primordiali istinti,

venere spoglia schizzo della mente da me sempre desiderata, ora

qui senza freni della fragile psiche, solo Hyde conosce i tuoi più

segreti desideri…).

Ma ero ancora lì che analizzavo come sempre, quando per caso,

in un lucido intervallo di veglia, lo sguardo cadde su una delle

mie mani.

Ora, le mani di Henry Jekyll erano tipiche mani di medico, grandi,

chiare e ben fatte, le mani del buon Jekyll.

Ma la mano che vidi lì sul risvolto del lenzuolo, nella luce giallastra

del mattino, era nodosa e scarna, d’un pallore grigiastro, fittamente

ricoperta di peli scuri: era la mano di Edward Hyde.

Restai a guardarla (la mano e lei così bella nella sua malattia)

almeno per mezzo minuto, (circa 320 sedute), istupidito dalla

mera sorpresa, prima che il terrore mi scoppiasse nel petto, con

lo schianto d’un colpo di piatti in un’orchestra.

Balzai dal letto, corsi allo specchio, l’evidenza m’agghiacciò: sì,

m’ero addormentato Jekyll e mi svegliavo Hyde.

‘Com’era possibile?’

mi chiesi.

E subito dopo, con un nuovo soprassalto di terrore:

‘Come rimediare?’

(R.L. Stevenson,Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde)

 

 

dalla relazione del dottor jekyll

     

UNA RIVOLUZIONE IN CAMPO LETTERARIO

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Innanzitutto, l’origine del libro.

E’ Stevenson stesso a dirci che lo spunto proviene da un sogno, in

un periodo nel quale, a Bournemouth, nel 1885, se ne stava a letto

in preda ai farmaci per curarsi da una serie di emorragie polmonari.

Un bonario e sconosciuto medico vittoriano che, per effetto di una

strana pozione da lui stesso preparata, subisce la trasformazione

in un bieco individuo senza freni inibitori.

Un sogno, dunque, più una malattia, più una terribile scoperta,

sono all’origine di questo breve, memorabile romanzo.

Dopodiché dobbiamo constatare la straordinaria qualità della

lavorazione di questa materia prima.

I risultati ottenuti spingono il breve romanzo nel territorio del

capolavoro ed innumerevoli gli spunti, non solo nel campo 

letterario, ma anche scientifico. 

una rivoluzione in campio letterario

Ad un certo punto della ‘Struttura delle rivoluzioni scientifiche’,

Kuhn fomulò quest’affascinante ipotesi:

 

Se ho ragione a ritenere che ogni rivoluzione scientifica alteri la

prospettiva storica della comunità che ne fa esperienza, allora

quel mutamento di prospettiva dovrebbe avere conseguenze sulla

struttura dei manuali e delle pubblicazioni scientifiche del periodo

postrivoluzionario. Un effetto come questo – una modificata

distribuzione della letteratura tecnica citata nelle note a piè di pagina

dei rapporti scientifici – dovrebbe essere studiato come un possibile

indice del verificarsi di rivoluzioni.

 

Kuhn non approfondì il discorso, ma non è difficile immaginare lo

sviluppo dell’ipotesi.

Lo scienziato assimila i principi della propria disciplina, sia questa

fisica delle particelle, la genetica o la cosmologia, e quando pubblica

una relazione cita una serie di testi che consentono agli addetti ai

lavori di collocare le sue terire nella rete locale di ‘buone idee’ della

disciplina in questione.

Più o meno indirettamente, le citazioni collegano le relazioni di

ricerca in maniera tale da indurle a rispecchiare la struttura del

paradigma, anche se le singole idee, di per sé, vivono nell’atmosfera

rarefatta della mente umana.

Le citazioni consentono di analizzare la natura dei cambiamenti

nella rete teorica.

Prendiamo come esempio i geofisici.

Quando si verifica un terremoto, misurano la magnitudo del sisma

con le onde dei sismografi e la magnitudo, a sua volta riflette il

grado di assestamento della struttura della crosta terrestre: i 

terremoti violenti producono un assestamento più estensivo del

paesaggio di quelli lievi.

Il terremoto avviene quando due blocchi rocciosi lungo un breve

segmento di faglia cominciano a scivolare, ma quanto intenso sarà

il sisma non dipende dall’evento in sé, bensì dal punto in cui 

avviene: potrebbe infatti comportare solo una limitata catena di

slittamenti nelle rocce contigue oppure interessare una delle lunghe

dita di instabilità che percorrono un esteso tratto di crosta.

Analogamente, ogni relazione scientifica (e non) è un insieme di

idee che, nel momento in cui viene introdotto nel paradigma

preesistente, provoca un piccolo o grande assestamento.

Per fortuna è facile ripercorrere la storia di una teoria basandosi

sull’eco che ha avuto sulla stampa.

Se per esempio prendiamo un articolo sulla teoria quantistica dei

campi pubblicato nel dicembre del 1967, potremo facilmente

scoprire chi da quella data in avanti l’ha citato.

Nel 1998 il fisico Sidney Redner, dell’università di Boston, condusse

una ricerca del genere su un campione di ben 783.339 articoli usciti

nel 1981. Naturalmente bisogna analizzare le relazioni pubblicate 

qualche anno prima della data ‘d’arrivo’ scelta, per lasciare a quelle

destinate a essere molto citate il tempo di acquisire risonanza; è

infatti chiaro che, se non si procedesse così, le cifre non darebbero 

la misura delle relazioni suscitate.

(Prosegue in Pagine di Storia)

 

 

una rivoluzione in campio letterario

     

33 GIORNI ALLA CADUTA DEL MURO (9 NOVEMBRE 1989) (1)

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33 giorni alla caduta del muro

 

 

L’americano porse a Leamas un’altra tazza di caffè e disse:

– Perché non andate a dormire?

– Vi telefoniamo se arriva.

Leamas non rispose, guardava fisso, oltre la finestra del posto di

blocco, la strada deserta.

– Non potete aspettare in eterno. Forse verrà un’altra volta. La

Polizei si metterà in contatto coll’Agenzia; impiegherete venti

minuti per tornare qui.

– No,

disse Leamas,

– Ormai è quasi buio. 

33 giorni alla caduta del muro

– Ma non potete aspettare in eterno. E’ in ritardo di nove ore.

– Se volete, andate pure. Siete stato molto gentile,

aggiunse Leamas.

– Dirò a Kramer che siete stato proprio gentile.

– Ma quanto aspetterete?

– Finché arriva.

Leamas si avvicinò alla finestra e si mise tra i due poliziotti

immobili.

Avevano i binocoli puntati sul posto di blocco orientale.

– Aspettate che sia buio,

mormorò Leamas.

– Lo so.

– Stamane avete detto che sarebbe passato cogli operai.

Leamas si voltò verso di lui. 

33 giorni alla caduta del muro

– Gli agenti non sono aeroplani. Non hanno orari. E’ bruciato,

è spaventato, deve fuggire. Mundt lo sta braccando, ora, in questo

momento. Ha soltanto una possibilità. Deve scegliere il momento.

L’uomo più giovane esitò. Voleva andare e non trovava lo spunto.

Un campanello suonò nell’interno della baracca. Aspettarono,

improvvisamente all’erta.

Un poliziotto disse, in tedesco: ‘Opel record nera, targa federale’.

– Non può veder tanto lontano nella penombra, tira a indovinare,

sussurrò l’americano e poi aggiunse:

– Come l’ha saputo Mundt?

– Zitto!, 

33 giorni alla caduta del muro

disse Leamas dalla finestra. Uno dei poliziotti uscì dalla baracca

e si avvicinò ai sacchi di sabbia, a mezzo metro dalla demarcazione

bianca che attraversava la strada come la linea di un campo di

tennis.

L’altro aspettò finché il compagno si raggomitolò dietro il 

telescopio della postazione, poi depose il binocolo, staccò dal

gancio accanto alla porta l’elmetto nero e se lo sistemò con cura

sulla testa. In alto, al di sopra del posto di blocco, le lampade ad

arco si accesero, lanciando raggi di luce teatrale sulla strada.

Il poliziotto iniziò il suo commentario.

Leamas lo conosceva a memoria. 

33 giorni alla caduta del muro

– Auto ferma al primo controllo. Soltanto un passeggero. Una

donna. Scortata baracca. Vopo per controllo documenti.

– Che cosa dice?,

domandò l’americano.

Leamas non rispose.

Prese un altro binocolo e lo puntò verso il confine della Germania

Orientale.

– Eseguito controllo documenti. Ammessa al secondo controllo.

– Leamas, è il vostro uomo?,

insistette l’americano.

– Dovrei chiamare l’Agenzia.

– Aspettate.

– Dov’è l’auto adesso? Che fa?

– Controllo valuta,

scattò Leamas. 

33 giorni alla caduta del muro

Osservava l’automobile. C’erano due Vopo accanto allo sportello

del conducente, uno parlava, l’altro gli stava accanto in attesa.

Un terzo gironzolava intorno alla vettura. Si fermò davanti al

baule, poi tornò indietro. Voleva la chiave. Aprì il baule, guardò

dentro, restituì la chiave e proseguì per trenta metri lungo la

strada dove, a metà tra i due posti di controllo opposti, c’era 

una solitaria sentinella della Germania Orientale, una sagoma

tozza, con stivali e calzoni a sbuffo. I due presero a parlare,

disturbati dal bagliore delle lampade.

Con un gesto indifferente autorizzarono l’automobile a passare.

Passò, raggiunse le due sentinelle nel mezzo della strada e si

fermò un’altra volta.

(J. Le Carré, La spia che venne dal freddo)

 

 

33 giorni alla caduta del muro

     

DAL 43 D.C.

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dal  43 d.c.

 

 

 

Tengo ora le gambe divaricate, appoggiate sui lati opposti delle

secche, e un grasso pesce-luccico sguscia tra i miei piedi a piluccare

le alghe grigiastre.

Le mie dita stringono l’impugnatura della lancia, poi si rilassano

quando cambiano idea sul loro pasto. Quasi volesse darmi uno

schiaffo, il pesce batte la coda e scompare.

A volte mi fermo a pensare a come i pesci e le anatre vedano questa

scena.

Io sono qui, furtivo, invisibile, e mi considerano uno di loro.

Sono troppo ottusi per capire che io sono d’un genere più elevato,

che voglio solo il loro male, e così scompaiono, senza capire, uno

alla volta.

Guardano il grande uccello verde che a grandi passi cammina in

mezzo a loro, eppure non lo legano ai loro compagni scomparsi.

Ciò che si aspettano di vedere, li rende ciechi.

Ma forse è vero che esistono anche animali più ingegnosi di noi,

che camminano tra la gente e con ogni comodo scelgono la loro

preda; catturano ora una donna, ora un uomo, senza che nessuno

venga mai a sapere che fine abbiano fatto costoro, tanto sono rari i

loro delitti, se non quando queste scaltre mostruosità non cercano

pasti più abbondanti e non si ingozzano.

Un altro pesce, questa volta un barbo, si muove sfregando il muso

tra i puntoni che tengono piantati a terra.

Questa volta non aspetto e spingo la lancia su di lui.

Quasi mi sfuge e trafiggo il suo fianco.

Poi lo alzo alla luce del sole mentre ancora si dibatte sulla punta

 della mia asta.

Gocce d’acqua cadono intorno a lui, una fatale rugiada.

Cacciai per tutto il giorno e poi per un altro, rannicchiandomi nella

mia tana solo quando faceva buio e, nel momento in cui il sole si

immerse nell’acqua, avevo nella bisaccia molti uccelli e molte pertiche

di pesci e infine, quando venne ancora un altro mattino, mi misi in

marcia per tornare a casa.

Quel giorno l’aria era buona e limpida come quella che viene dopo una

tempesta, eppure nessuna tempesta era mai passata di là.

Il cielo azzurro dava il suo colore agli stagni e alle pozzanghere della

palude e sopra di me sfilavano immense nuvole bianche ammassate

in forme di fantasia a cui non sapevo dare un nome.

La mia bisaccia era piena.

Il sole era caldo sulle mie spalle.

Cantavo le uniche parole che ricordassi della vecchia Canzone della

via, quella che racconta la storia del ragazzo sul cammino e di come

trova la sua sposa, e gli aironi dello stagno vicino volarono via

spaventati, per quanto cantavo male.

E’ l’ultima volta che sono stato felice.

Ora siedo sulla riva e mangio il pesce, lasciando che la corrente trascini

con sé le mie gambe di legno.

All’inizio quando venni a vivere nelle Terre degli Annegati, cuocevo il

cibo prima di mangiarlo, ma ora mi sembra una seccatura.

Qui non lo cuoce nessuno.

Taglio con l’unghia il ventre dell’animale e provo una strana

soddisfazione nello scoprire quanta pelle riesco a staccare in un

solo tentativo.

Sto quasi per scostare il becco e mangiare, quando un movimento

all’orizzonte di mezzogiorno cattura i miei occhi.

Stendardi rossi.

Minuscoli stendardi rossi che prima si allontanano tra loro e poi si

riavvicinano, dietro i campi lontani, diretti verso di me.

Stringo forte gli occhi per vedere più lontano, poi tiro le gambe

fuori dall’acqua e cerco di mettermi in piedi meglio che posso.

Lascio il becco al suo posto.

Non sono stendardi.

No, stendardi no, ma mantelli, mantelli rossi sulle spalle di uomini

a cavallo.

Li riconosco.

Sono uomini di Roma.

(Alan Moore, La voce del fuoco)

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UN NOBEL PER LA PACE

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un nobel per la pace

 

 

Il 25 Novembre 1926 Martin Luther King senior sposa Alberta

Williams, dal quale il 15 Gennaio, nascerà Martin Luther King junior….. 

A quindici anni mi iscrissi al Morehouse College, che era stato frequentato

anche da mio padre e da mio nonno materno: perciò Morehouse aveva

visto tre generazioni della famiglia King.

Non dimenticherò mai le difficoltà che incontrai dopo essere entrato

all’università, perché sebbene al liceo fossi stato tra gli studenti migliori,

mi trovavo ancora al livello dell’ottava classe.

Mi iscrissi al college dell’undicesima classe; non frequentai mai la

dodicesima, e in precedenza avevo già saltato un anno: perciò a

Morehouse ero uno studente molto giovane.

Il periodo che trascorsi al college fu molto emozionante.

Il Morehouse era un ambiente libero, dove per la prima volta ebbi

modo di parlare con franchezza della QUESTIONE RAZZIALE.

I professori non erano costretti nelle grinfie delle sovvvenzioni

statali e potevano insegnare quel che desideravano, in uno spirito

di libertà accademica.

Ci incitavano a ricercare in modo positivo una soluzione ai mali

del RAZZISMO.

Mi resi conto che in quel college nessuno aveva paura; persone

eminenti venivano da noi per sottoporre a una lucida disamina

il problema razziale.

Nel 1944 quando entrai al Morehouse, il mio impegno per la

giustizia razziale ed economica era già radicato. Da studente lessi            

per la prima volta ‘La disobbedienza civile’, il saggio di Henry

Thoreau e fu proprio allora che ebbi il primo contatto con la teoria

della RESISTENZA NON VIOLENTA, nel diniego di questo coraggioso

cittadino del New England, che rifiutò di pagare le tasse e preferì

andare in prigione piuttosto che avallare con il proprio contributo               

una guerra che avrebbe esteso al Messico il regno della SCHIAVITU’.

Rimasi affascinato dall’idea della possibilità di non voler collaborare

con un regime malvagio; ne fui talmente commosso che rilessi il libro

parecchie volte.

Mi persuasi che rifiutarsi di collaborare con il male fosse un obiettivo

morale vincolante quanto quello di cooperare al bene.

Un concetto che nessuno ha propugnato con maggior passione ed

eloquenza di Henry Thoreau.

Grazie ai suoi scritti e alla sua personale testimonianza, abbiamo

eridato un patrimonio di protesta creativa.

Le dottrine di Thoreau presero vita nel nostro movimento PER I

DIRITTI CIVILI; anzi, sono più vivi che mai.

Sia che vengono espressi con una occupazione pacifica di una tavola

calda, o un corteo della libertà nel Mississippi, oppure con una protesta

pacifica di Albany in Georgia, un boicottaggio degli autobus a

Montgomery nell’Alabama, si tratta sempre di ramificazioni dell’

insistenza di Thoreau sul concetto CHE SI DEVE OPPORRE

RESISTENZA AL MALE, e che un uomo dotato di principi morali

non può adeguarsi con pazienza ALL’INGIUSTIZIA.

Appena entrato al college, cominciai a lavorare con le organizzazioni

che cercavano di tradurre in realtà la giustizia razziale.

I buoni rapporti che potemmo allacciare nell’ambito del consiglio

interuniversitario mi persuasero che potevamo contare tra i nostri

alleati molti bianchi, soprattutto fra i più giovani. In passato ero stato

propenso a considerare con risentimento l’intera razza bianca, ma a

mano a mano che ne frequentavo di più, il mio risentimento si andò

attenuando, sostituito da uno spirito di cooperazione.

Ero arrivato a un punto in cui il mio interesse per la politica e i 

MALI DELLA SOCIETA’ era molto spiccato; potevo immaginare

me stesso impegnato nel compito di abbattare le barriere della legge

che IMPEDIVANO AI NEGRI IL GODIMENTO DEI LORO DIRITI.

(Martin Luther King, I have a dream) 

 

un nobel per la pace

 

  

 

DESTRUTTURALIZZAZIONE DEL MITO (1)

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…Ma a prescindere da quale sia la causa dei miti filosofici, un filosofo

davvero degno di questo nome, almeno secondo Giuliano, racconta

un mito quale che sia al solo scopo che ‘non vi creda’ o, almeno, che non

lo si prenda alla lettera, e comunque non troppo sul serio.

Ed è in verità unicamente in questo spirito che il filosofo Giuliano

raccontava dei miti nei suoi scritti filosofici, per definizione destinati

ai soli ‘INIZIATI’.

Tuttavia, sappiamo che l’imperatore Giuliano si comportava rispetto

ai miti teologici pagani in tutt’altro modo.

Anche se non li raccontava di persona al volgo, egli incitava gli altri

a farlo e faceva tutto quanto era in suo potere perché questi miti

apparissero nuovamente credibili alla maggior parte degli uomini

che erano sotto il suo governo.

In quanto filosofo, Giuliano doveva quindi render conto del suo

comportamento di imperatore o, se si vuole, ‘giustificare’ tale

comportamento.

Ed è proprio a una simile ‘giustificazione’ dell’imperatore da parte

del filosofo che è dedicato il ‘Discorso contro Eraclio’.

In questo Discorso (Dialoghi con Pietro Autier), Giuliano pone

il problema di sapere:” Come e con che mezzo dobbiamo comporre

i miti se, in generale, la Filosofia ha anch’essa bisogno in qualche modo

dell’invenzione poetica dei miti?”

Per dare una risposta a questo problema, Giuliano comincia col

domandarsi quale branca della Filosofia possa aver bisogno dei miti,

cioè, ricordiamolo, di storie false che hanno una forma ‘credibile’.

Ed ecco quel che ci dice al riguardo:” Per quel che concerne queste

diverse branche (della Filosofia, cioè, secondo la tripartizione storica:

la Logica, la Fisica e l’Etica), l’invenzione poetica dei miti non appartiene

né alla Logica, né alle Matematiche che fanno parte della Fisica;

ma se davvero si vuole ammettere che questa invenzione è accertata

in una qualsiasi di queste discipline, si tratta della Filosofia pratica,

ovverosia della parte di essa che si occupa dell’uomo ‘singolo’, così

come da parte della Teologia che si occupa delle azioni e della mistica”.

Egli ingloba la Teologia nella Fisica.

Solo che per lui, la Fisica può essere vera solo nella misura in cui essa

è matematica, mentre tutto il resto della Fisica non è altro per lui che

un’accozzaglia di ‘miti’, cioè di storie false sotto una forma più o meno

‘credibile’.

E’ proprio perché noi non possiamo dire nulla di vero su questo mondo,

per la semplice ragione che esso non esiste affatto, che siamo costretti a

ricorrere ai ‘miti’ dei quali abbiamo intenzione di parlare.

(Alexandre Kojève)

 

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