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…Non recava segni di violenza, ma il modo in cui il corpo si
muoveva in catene, con le membra dislogate, quasi incapace
di muoversi, trascinato dagli arcieri come una scimmia legata
alla corda, palesava molto bene il modo in cui doveva essersi
svolto il suo atroce responsorio.
– Bernardo lo ha torturato…
sussurrai a Guglielmo.
– Per nulla,
rispose Guglielmo.
– Un inquisitore non tortura mai. La cura del corpo dell’imputato
è affidata sempre al braccio secolare.
– Ma è la stessa cosa!
dissi.
– Niente affatto. Non lo è per l’inquisitore, che ha le mani monde,
e non lo è per l’inquisito, che quando viene l’inquisitore trova
in lui un improvviso appoggio, un lenimento alle sue pene, e
gli apre il cuore.
Guardai il mio maestro:
– Voi state celiando,
dissi sgomento.
– Ti paio cose su cui celiare?
rispose Guglielmo.
Bernardo stava ora interrogando Salvatore, e la mia penna non
riesce a trascrivere le parole rotte e, se pur fosse stato possibile,
ancora più babeliche, con cui quell’uomo già dimidiato, ora
ridotto al rango di un babbuino, rispondeva, compreso a fatica
da tutti, aiutato da Bernardo che gli poneva i quesiti in modo
che lui non potesse risponder altro che sì o no, incapace di ogni
menzogna.
E ciò che disse Salvatore il mio lettore può bene immaginare.
Raccontò, o ammise di aver raccontato durante la notte, una
parte di quella storia che io avevo già ricostruito: i suoi
vagabondaggi come fraticello, pastorello e pseudo apostolo;
e come ai tempi di fra Dolcino egli avesse incontrato Remigio
tra i dolciniani, e con lui si fosse salvato dopo la battaglia di
monte Rebello, riparando dopo varie vicende nel convento
di Casale.
In più aggiunse che l’eresiarca Dolcino, vicino alla sconfitta e
alla cattura, aveva affidato a Remigio alcune lettere, da portare
egli non sapeva dove o a chi.
E Remigio aveva sempre recato quelle lettere con sé, senza
osare recapitarle, e al suo arrivo all’abbazia, timoroso di
trattenerle ancora seco, ma non volendo distruggerle, le aveva
consegnate al bibliotecario, sì proprio a Malachia, perché le
nascondesse da qualche parte nei recessi dell’Edificio.
(U. Eco, Il nome della rosa)