CATENA (primo delatore)

Prosegue in:

Censore dei sogni (secondo delatore) &

Simmetria chirale

 

 

catena (primo delatore)

 

 

 

 

…..Si accostò all’Imperatore il capo dei silenziari di nome

Paolo, ma indicato da tutti col soprannome di Catena, per-

ché le sue macchinose delazioni avvolgevano le vittime in

un inestricabile maglia di ferro.

Il suo viso completamente sbarbato e quasi femminile: gli

occhi neri e languidi gli davano l’aspetto d’un uomo di ange-

lica bontà, il passo viscido.

Camminava con passi felpati, e in tutto il suo incedere ele-

gante v’era qualcosa di felino. A tracolla egli soleva portare

un largo nastro azzurro, distintivo dei cortigiani favoriti dell’

Imperatore, e spesso vestiva di nero.

Il delatore fece allontanare la massaggiatrice personale di

Costanzo con un energico gesto e gli mormorò all’orecchio:

– Ecco una lettera di Giuliano. L’ho potuta intercettare questa

notte…… Leggila Augusto….

Costanzo gli strappò violentemente la lettera dalle mani e la

lesse con avidità; ma il suo interesse si mutò quasi subito in

delusione:

– Stupidaggini!

diss’egli.

– Esercitazioni scolastiche! Si tratta di questo: mandando

una cesta di fichi in regalo ad un sofista, tesse le lodi dei

fichi stessi, e siccome i frutti sono cento, coglie l’occasione

per fare le lodi di questo numero….

– Ritengo che tutto ciò abbia qualche altro recondito signi-

ficato……

insinuò Catena.

– Davvero? Ma le prove?

eccepì Costanzo.

– Niente prove.

– Allora, o è un furbo di tre cotte, o ……

– Che intende dire la Tua Eternità?

– …..Oppure è innocente!

– Come credi, Augusto, 

biascicò il delatore.

– Come credo? Che c’entra quello che credo? Voglio soltanto

essere giusto….. Tu mi conosci…. Desidero sempre che ci 

siano le prove…..

(prosegue)

 

 

 

 

catena (primo delatore)

  

ARSINOE

L’inquisitore di Stato in:

eraclio-linquisitore-di-stato.html

Prosegue in:

arsinoe-2.html

 

 

arsinoe

 

 

 

 

 

 

– Dimmi che sei mio nemico!

insisté con voce tremante.

– Arsinoe, perché?

– Dimmi tutto! Voglio sapere! Non senti come siamo vicini?

Avresti forse paura?

– Fra due giorni parto,

mormorò Giuliano.

– Addio!

– Perché? Dove vai?

– Ho ricevuto un messaggio di Costanzo. L’Imperatore mi

richiama alla Corte, forse per farmi morire….

Sento che questa è l’ultima volta che ci vediamo.

– Giuliano, tu non credi in lui, vero?

esclamò Arsinoe, cercando di penetrare nello sguardo del

monaco. 

– Piano! Piano….che dici?

Egli si allontanò di qualche passo, camminando cautamente

e ispezionando con lo sguardo la via illuminata dal chiarore

lunare, le macchie d’alberi vicine e persino il mare, come se

dappertutto si potessero annidare spie di Cesare. Poi ritornò

rassicurato, ma ancora sconvolto. Appoggiatosi con un brac-

cio alla base della statua, egli avvicinò le labbra all’orecchio

di Arsinoe, tanto che questa sentì l’alito di lui come un soffio

bruciante, e mormorò in fretta quasi delirando:

– Ah! Ah! Credere in lui! Ascolta fanciulla…, ti dico quello

che non ho mai osato confessare neanche a me stesso…….

Odio i Galilei!

Ho sempre mentito! La menzogna è penetrata nella mia ani-

ma, si è sovrapposta ad essa….come questo abito da frate 

sul mio corpo….

Ricordati della tunica insanguinata del centauro Nesso. 

Ercole se la strappava insieme ai brandelli della propria

carne, ma non poté liberarsene, e morì soffocato. Così io

morirò sotto il peso della menzogna galilea!

Egli pronunciava ogni parola con sforzo.

Arsinoe lo guardava, e quel viso alterato dalla sofferenza

e dall’odio le parve ostile, quasi pauroso. Un demone anti-

co. Sconosciuto, mai rivelato. Uno straniero….

– Calmati, calmati! dimmi tutto…..Ti comprendo più di 

chiunque altro…

– Voglio parlare e non ci riesco….

diss’egli.

– Ho taciuto per troppo tempo. Vedi Arsinoe, chi cade nelle

loro mani è finito per sempre. Gli umili apostoli lo trasforma-

no a tal punto, gl’insegnano a mentire e a strisciare in tal modo,

che gli riesce poi impossibile, persino di trovare se stesso….

Dio.

Con loro Dio è perduto per l’eternità….

(D. Merezkovskij, Giuliano l’Apostata)

 

 

 

 

 

arsinoe

 

ROBINSON IL MURATORE

Prosegue in:

Il muratore

 

 

 

 

La natura crea ciò che non si svela,

l’idiota persevera e distrugge ogni cosa,

nellla sua strana idea….

di questa Terra.

 

 

 

 

 

Pomeriggio. Passaggio tra la Tasmania e le isole vicine – isole da cui

i poveri selvaggi tasmaniani esiliati guardavano la loro patria perduta

e piangevano; e morivano con il cuore spezzato.

Come sono lieto che tutte queste razze native siano morte e sepolte,

…o quasi.

 

robinson

 

Il lavoro fu pietosamente rapido e orribile in alcune zone dell’Australia.

Quanto alla Tasmania, lo sterminio fu completo: non resta neppure un

nativo.

Fu una lotta di anni, di decenni.

I bianchi e i neri si davano la caccia a vicenda, si tendevano le imbosca-

te a vicenda, si scannavano a vicenda.

I neri non erano numerosi. Ma erano circospetti, vigili, scaltri, e

conoscevano bene il territorio. Rispetto alla loro esigua quantità

durarono molto tempo e inflissero molte perdite ai bianchi. 

….Poi alla fine, un quarto di secolo dopo l’inizio dei problemi tra le

due razze, si trovò l’uomo giusto.

No! Fu lui a trovare se stesso.

Si trattava di George Augustus Robinson, passato alla storia come

il ‘Conciliatore’.

 

robinson

 

Uomo non colto, né in alcun modo eminente.

Era un muratore di Hobart Town.

Ma deve essere stato una straordinaria personalità; un uomo per

incontrare il quale valeva la pena fare un viaggio tanto lungo. E’

possibile che nella storia ricorra un suo equivalente, ma io non

so dove cercarlo.

Egli si pose questo incredibile obiettivo: andare nelle terre selvagge,

nella giungla e nei rifugi di montagna dove i nativi braccati e implaca-

bili si nascondevano, e presentarsi loro disarmato, parlando loro la

lingua dell’amore e della gentilezza, e persuaderli ad abbandonare

le loro case e la vita libera e selvaggia che aveva tanto cara, e anda-

re con lui e arrendersi agli odiati bianchi e vivere sotto il loro control-

lo e la loro tutela e grazie alla loro carità il resto della loro vita!

Sul suo volto vi era il sogno di un pazzo.

 

robinson

 

All’inizio, il suo progetto di persuasione era sarcasticamente

soprannominato ‘speculazione dello zuccherino’. Se il piano era

sorprendente, e nuovo nell’esperienza del mondo, la situazione

non era da meno.

Si trattava di questo.

La popolazione bianca assommava a 40.000 unità nel 1831; la

popolazione nera assommava a 300 (trecento).

Non trecento (300) guerrieri, ma 300 (trecento) tra uomini, donne

e bambini.

I bianchi erano armati di fucili, i neri di mazze e lance.

I bianchi avevano combattuto i neri per un quarto di secolo, e aveva-

no tentato in ogni modo immaginabile di catturarli, ucciderli o sotto-

metterli; e non vi erano riusciti.

….In quattro anni, senza versare una goccia di sangue, Robinson li

convinse a sottomettersi volontariamente e li consegnò al governa-

tore bianco, e pose termine alla guerra che la polvere da sparo e le 

pallottole, e le migliaia di uomini che le usavano, avevano portato

avanti senza risultato sin dal 1804.

Marsia che incanta le bestie feroci con la sua musica: questa è una

favola; ma il miracolo compiuto da Robinson (Il muratore) è un

fatto. E’ storia – e autentica; e di certo non v’è nulla di più grande,

nulla di più degno rispetto nella storia di nessun Paese, antico o

moderno.

 

robinson

 

E in memoria del più grande uomo che l’Australasia abbia mai

messo al mondo e mai metterà al mondo, vi è un maestoso monumento

intitolato a George Augustus Robinson il Conciliatore, che si trova…..

no, è intitolato a un altro uomo, il nome …l’ho dimenticato.

(Mark Twain, seguendo l’equatore)

 

 

 

 

 

 

robinson

 

LA SCIMMIA INDOVINA E I PIRATI

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Il mio ultimo libro:

 

la scimmia indovina e i pirati

 

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Realejo Nicaragua 16 aprile 1579

 

Salpai dal porto di Acapulco il 23 marzo e navigai sino al sabato 4

aprile: giorno in cui, un’ora prima dell’alba, avvistammo al chiaror

lunare una nave vicinissima alle nostre.

Il nostro timoniere le gridò di togliersi dalla nostra rotta e di non

affiancarsi al nostro bordo, ma non ebbe alcuna risposta; sembra-

va che tutti dormissero.

Il timoniere allora gridò ancora più forte, chiedendo questa volta

alla nave il porto di provenienza.

“Siamo del ‘Miguel Angel’ e veniamo dal Perù”, fu la risposta.

 

la scimmia indovina e i pirati

 

La nave avversaria mise in mare un battello di prua quasi voles-

se esserne rimorchiata; poi, improvvisamente, ci passò di poppa

ordinandoci di ammainare le vele e sparandoci sette o otto colpi

di archibugio.

Dapprima ritenemmo non fosse che un gioco, ma in breve la cosa

volse al serio. Da parte nostra non vi fu resistenza alcuna; a bordo,

se si accettuano cinque o sei uomini svegli, tutti dormivano, sì

che quelli poterono salire sulla nostra coperta senza correre

rischio, come se fossero stati nostri amici.

 

la scimmia indovina e i pirati

 

Non usarono violenze personali ad alcuno; si limatarono a privare

i passeggeri delle spade e dei denari che portavano su di sé.

Avuta la certezza di quanti erano a bordo, a me ordinarono di

passare sulla nave ove era imbarcato il loro generale, e ne fui

contento poiché in tal modo avrei avuto più tempo per raccomanda-

re la mia anima a Dio. Ma in breve giungemmo da lui, a bordo di

un ottimo galeone, così potentemente armato che in vita mia mai mi

era capitato di vederne uno simile.

Il generale passeggiava in coperta; avvicinandomi a lui, gli baciai le

mani. Mi accolse con atti di cortesia, mi accompagnò nel suo alloggio

e mi pregò di sedermi.

“Coloro che dicono la verità”, soggiunse, “possono contare sulla mia

amicizia, ma il mio umore si fa pessimo con i mentitori.

Sicché dovrete dirmi: quanto oro e argento trasporta la vostra nave?”.

 

la scimmia indovina e i pirati

 

“Punto”, risposi.

Mi ripeté la domanda.

“Né oro né argento abbiamo”, insistetti, “ad eccezione di qualche

piatto e qualche tazza come può ben vedere, siamo povera gente

di bordo; non vi è altro, eccetto scritti, libri e poesie…”.

Il generale tacque per qualche istante, poi, riprendendo la conversa-

zione, mi domandò se conoscevo Vostra Eccellenza.

“Sì”, risposi.

Questo generale inglese è nipote di John Hawkins ed è lo stesso

che, cinque anni or sono, conquistò il porto di Nombre de Dios.

Si chiama Francissco Drac, e ha circa 35 anni. 

E’ di bassa statura, con barba bionda, è uno dei più grandi marinai e

pirati (per non usare altro aggettivo offensivo a sua Eccellenza) che

solchino le onde, e come navigatore e come capitano.

Il suo vascello è un galeone di circa 400 tonnellate, un veliero

perfetto; il suo equipaggio è composto da circa 100 uomini, tutti

validi e in età da poter combattere; il loro addestramento è tale che

si possono paragonare a veterani d’Italia. Ognuno prende particolar

cura di tener pulito il proprio archibugio.

Il generale tratta amorevolmente i suoi soldati, e ne è ricambiato 

con il massimo rispetto. Al suo fianco vi sono sempre nove o dieci

cavalieri, cadetti di nobili famiglie inglesi.

Questi fanno parte del suo consiglio privato che viene convocato

anche per motivi più futili, sebbene il generale non segua che i

propri consigli: ma si diverte ad ascoltare ciò che dicono gli altri,

per ordinar poi solo ciò che più gli aggrada.

Non ha alcun favorito.

(Francisco da Zaratei, Incontro in mare con Drake)

 

 

 

 

 

la scimmia indovina e i pirati

  

IL RAGAZZO LUPO

Prosegue in:

lupo.html

 

il ragazzo

 

 

 

 

 

 

Da Romolo a Remo al Mowgli del ‘Libro della giungla’ di Kipling

non si contano le storie di cuccioli di uomo salvati da lupe, nonché

da scrofe, pecore, pantere, orse e ultimamente, nel Sahara, da gaz-

zelle.

Non c’è un solo caso su cui sia stata fatta luce al di là di ogni dubbio.

E’ possibile che Pascal, il nome dato al nuovo venuto dalle suore

della missione, si riveli finalmente l’eccezione che conferma la regola.

 

il ragazzo

 

Pascal fece subito amicizia con il cane dell’orfanatrofio, anche se un

giorno gli prese in bocca un orecchio e vi piantò i denti.

Durante la prima settimana si stracciava il vestito di dosso e gettava

via il cibo, e quando riuscì a mettere le mani su un paio di bicchieri

li sbatté l’uno contro l’altro come se fossero cembali.

Nella seconda settimana cominciò ad ambientarsi.

Imparò a salutare usando la formula hindi ‘Namaste!’.

Gli piaceva girare il giardino stando seduto ben dritto nel retro di

un risciò a pedali. Le suore dovevano sorvegliarlo quando era con

qualche altro bambino perché talvolta, all’improvviso, gli ficcava le

dita negli occhi.

Nel cortile sottostante crescevano alcune papaie lunghe ed esili. Un

canile ospitava un feroce pastore tedesco che al mio passaggio diede

uno strattone alla catena, abbaiò e mostrò i denti. Poi una collega di

padre Joseph, suor Clarice, offrì un tè in mio onore, durante il quale

lei e altre due religiose raccontarono la seguente versione dei fatti

della storia di Pascal.

All’inizio della settimana di Pasqua una donna mussulmana era ar- 

rivata alla scuola con la notizia che un bambino-animale si aggirava 

nella parte occidentale della città, cercando avanzi di cibo tra i rifiu-

ti.

 

il ragazzo

 

Le suore lo trovarono il Venerdì Santo, sporco e abbandonato,

nascosto dentro una nicchia nel muro di una casa di mattoni d’argilla.

I proprietari della casa dissero che una lavandaia, qualche giorno pri-

ma, era venuta a far valere i suoi diritti sul bambino.

‘Ma non ha voluto riprenderselo’ s’intromise padre Joseph ‘quando

ha visto che veniva dalla giungla, e così via. Ecco come stanno le

cose: quando un bambino è stato toccato da un animale, lo abbando- 

nano, e così via’.

Padre Joseph disse che nel corso del suo ministero aveva sentito

parlare spesso di ‘bambini-lupo’, ma non ne aveva mai visto uno con

i suoi occhi. Sapeva di una madre che aveva perso il suo bambino

al calar della sera e poi, quando era tornata sul posto, aveva trovato

una lupa che lo accudiva.

 

il ragazzo

 

(……) Suor Clarice fece da interprete, e col suo aiuto riuscii a ricostruire

la storia nelle grandi linee.

Tutto era accaduto un mattino di circa cinque anni prima. 

Era la stagione secca, ma il ‘thakur’ non ricordava esattamente il mese.

Era andato in bicicletta a trovare un cugino che abitava in un villaggio

dall’altra parte della foresta di Musafirkhana, più o meno a trenta chi-

lometri da Sultanpur. Mentre tornava verso la strada maestra

percorrendo un sentiero che attraversava macchie di bambù e di rovi,

udì una specie di guaito salire da dietro un cespuglio.

Si avvicinò furtivamente e vide il ragazzo che giocava con quattro

o cinque lupacchiotti. Non erano cani o sciacalli, tenne a ribadire:

erano lupi.

Il ragazzo aveva la pelle scurissima, le unghie così lunghe da sembra-

re artigli, una massa di capelli arruffati, le mani, i gomiti e i ginocchi 

coperti di calli.

Aveva denti irregolari: alcuni erano sottili e affilati come piccole lame.

Correva lesto a quattro zampe, ma non poté tenere il passo dei 

cuccioli quando questi schizzarono via in cerca di un riparo.

Della lupa non c’era traccia.

Il ‘thakur’ agguantò il bambino e si buscò un morso alla mano, ma

riuscì ugualmente a legarlo con il suo asciugamano, lo assicurò al

portapacchi della bicicletta e ripartì verso casa. 

(Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?)

 

 

 

 

 

il ragazzo