GIUSEPPE TUCCI

Prosegue in:

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giuseppe tucci 3

 

 

 

 

 

 

Il destino dei fondatori delle grandi religioni è profondamente

tragico; essi sono i grandi solitari.

E’ vero che la solitudine è la sorte dell’uomo, chiuso in se medesimo

come un fiore che non riesce a sbocciare, perché la parola definisce il

visibile, ma, fuori di questo, esprime soltanto per illusioni o parziali

bagliori il senso particolare e personale che noi le diamo, provocando

in altri altre reazioni, o, in modo approssimativo, adombra il fondo

dell’anima incomunicabile.

Poi le consuetudini, i pregiudizi, gli universali consensi della vita

associata soffocano quel senso occulto che mai o raramente fiorisce

alla luce del sole (cerca di reprimerlo…).

 

giuseppe tucci 3

 

L’uomo allora si adegua a questa sua schiavitù, a questo livellamento,

a questo suo morire eternamente: perché pensare come tutti pensano,

inchinarsi agli stessi idoli, rispettare le strutture sociali vuol dire non 

pensare affatto, essere una cosa, non una creatura libera.

E’ un fatto che l’uomo nulla tanto teme quanto la libertà; e senza

dolersene la vende, per non trovarsi a faccia a faccia con la propria

solitudine, dove soltanto è riposta la sua luce e il suo mistero, il 

suo tormento e la sua grandezza. 

 

giuseppe tucci 3

 

Le esperienze dei Maestri sono dunque incomunicabili, capaci di

riflettersi soltanto, in apparizioni improvvise, negli eletti e nei puri

che hanno superato la trama della storia. 

La loro parola è allussiva; adoperano le parole che il mondo comprende,

ma le caricano di un senso diverso ed unico. Se dunque è difficile

conoscere la parola dei Maestri, altrettanto difficile è conoscere i 

particolari della loro vita. Anche quella del Buddha noi non la sapremo

mai.

Ma la cosa non conta.

 

giuseppe tucci 3

 

Perché la sua vita si riassume e si conclude in quell’istante irripetibile

nel quale gli apparve, nella evidenza abbagliante, la verità ricercata.

Tutto il resto non ha importanza.

Le vite dei santi sono tutte uguali: seguono uno schema identico sia

in Oriente sia in Occidente; la nascita immacolata, la consapevolezza

immediata della propria missione, la precoce onniscenza che confonde

i dotti chiamati ad istruirli, la rinuncia al mondo, la tentazione, la 

pietà, la resurrezione del morto, la guarigione dei malati, la redenzione

delle donne perdute, le vane insidie del traditore, il trapasso fra

oscuramenti del cielo, scatenamenti della terra od esaltazioni di luce.

Così nasce la leggenda intessuta di questi archetipi e avvolge e 

nasconde le nudità di una vita sublime.

Il Maestro diventa dio: anzi, secondo alcune scuole, egli è soltanto

apparenza illusoria che non ha pronunciato neppure una parola,

un riflesso del Vero, come un raggio di grazia che ha colpito la

mente di quelli che sono spiritualmente maturi per intenderla, 

come l’eco di una voce transumana che questi hanno tradotto, per

il proprio ed altrui beneficio in termini razionali.

L’uomo è tardo a seguire l’insegnamento sottile, a scendere nella

solitudine del proprio io, a sciogliersi dal vincolo o dai simboli del-

la vita associata.

La singolarità di un insegnamento semplice e difficile a seguire, 

perché va contro la corrente, lo turba…..

(Giuseppe Tucci)

 

 

 

 

 

 

giuseppe tucci 3

    

QUEL TRENO PER LHASA

 quel treno per lhasa

 

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quel treno per lhasa

 

 

 

 

 

 

 

Per quattro anni, Pechino accompagnò il Tibet verso un maggiore

grado di autonomia e una rinascita religiosa che erano diventati

inimmaginabili da quando il Dalai Lama era fuggito in esilio nel

1959.

Furono eliminate le tasse e il Paese ritornò alla proprietà privata,

dopo che vennero smantellati gli ultimi pezzi del sistema delle

comuni e i resti del Grande balzo in avanti. I cambiamenti ebbero

un effetto immediato e positivo sul benessere dei tibetani. 

 

quel treno per lhasa

 

Al centro di quelle politiche c’era la consapevolezza che fosse pos-

sibile ricondurli all’ovile del comunismo attraverso il progresso e

lo sviluppo economico più che con la forza bruta.

Ma alla metà degli anni’ 80, forse sentendosi sicura degli sforzi po-

litici fatti, Pechino cambiò la politica di riforme, allontanandosi dal-

la ricerca di progresso per i tibetani e sostituendola con un’aggressi-

va modernizzazione economica, definita su scala nazionale più che

locale.

 

quel treno per lhasa

 

In quegli anni di riforme, però, i tibetani avevano rafforzato la loro

identità culturale. La rinascita dei monasteri e la fiorente cultura

religiosa contribuirono alla crescita di un senso di indignazione 

nei confronti dei cinesi e un inorgoglito desiderio di protestare a

voce alta.

Nel settembre del 1987, i monaci inferociti dalla risposta al vetriolo

della Cina agli sforzi del Dalai Lama per risvegliare la consapevo-

lezza internazionale sulla situazione tibetana, protestarono fuori

dal tempio di Jokhang. 

Più di una decina furono arrestati e, di conseguenza, scoppiò una

rivolta di solidarietà. 

 

quel treno per lhasa

 

I tibetani assaltarono e incendiarono la stazione di polizia del

Barkhor. La polizia cinese sparò sulla folla dai tetti, uccidendo

dieci persone e ferendone moltissime altre.

Le agitazioni e la tensione continuarono per un anno e mezzo.

Intanto il Dalai Lama conduceva una campagna di opinione, ri-

volta ai governi occidentali, per far conoscere la causa dei diritti,

se non dell’indipendenza, del Tibet, che gli fece vincere il Premio 

Nobel per la pace nel 1989. 

Ancora una volta, Pechino fu costretta a reistaurare l’ordine sulle

sue rauche frontiere e nominò segretario del partito nella TAR Hu

Jintao, il giovane governatore della provincia del Guizhou, uno

dei candidati alla presidenza del partito.

Con la prospettiva di succedere a Jiang Zemin, Hu non poteva per-

mettersi errori. Il giorno dopo la sua nomina, la polizia represse un’

altra protesta nel Barkhor, questa volta sparando direttamente a chi-

unque facesse sventolare una bandiera del Tibet. 

 

quel treno per lhasa

  

Un mese dopo, Hu si recò a Shigatze per incontrarsi con il Panchen

Lama, che però gli oppose una certa resistenza, prendendo al volo

l’opportunità per criticare apertamente il dominio della Cina sul

Tibet, con un lacerante ed insolito richiamo ai laeder di Pechino.

Cinque giorni dopo, nonostante fossero note le sue buone condizio-

ni di salute, fu trovato morto nel monastero di Tashi Lhunpo, dove

viveva, apparentemente per un infarto: la sequenza di eventi portò

molti tibetani a convincersi che Hu avesse qualcosa a che fare con

quella morte.

La rabbia crebbe.

I tibetani si resero conto in fretta che per loro, senza protezione del

Panchen Lama, l’epoca delle riforme liberali era alla fine.

(prosegue…..)

 

 

 

 

 

 

quel treno per lhasa

 

FRA MICHELE DA CALCI

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fra michele da calci

 

 

 




XIX. Letta che fu la confessione, el capitano si tornò dentro, non dando

sentenzia, come è usanza agli altri, e niuno ordine si tenne a lui, che

s’usasse di tenere agli altri che vanno alla giustizia.

Tornato che fu il capitano dentro, la famiglia con grande impeto lo

trassono fuori della porta del capitano, e rimase tutto solo, tra’ mascalzoni,

scalzo, con una gonnelluccia in dosso, parte de’ bottoni; e andava

col passo larghetto e col capo chinato, dicendo ufficio, che veramente

parea uno de’ martiri: e tanto popolo v’era che appena si potea

vedere.

Et a tutti increscendone, diceano:

deh! non voler morire!

Et esso rispondea:

io voglio morir per Cristo.

E dicendogli:

oh! tu non muori per Cristo!

Et esso dicea:

per la verità.

E alcun gli dicea:

oh! tu non credi in Dio!

E esso rispondea:

io credo, e nella vergine Maria, e nella santa Chiesa.

E alcuno gli dicea:

sciagurato, tu ài il diavolo a dosso che ti tira.

Ed e’ rispondea:

Iddio me ne guardi.

E così, andando, rispondea di rado, e non rispondea se non alle

cose che gli pareano di necessità, e rade volte alzando gli occhi 

altrui.

XX. E quando giunse dal canto del Proconsolo, essendovi grande

romore del popolo che traeva a vedere, e alcuno fedele, veggendolo,

si mischiò tra gli altri dicendo:

Frate Michele, priega Iddio per noi.

A’ quali egli, alzando gli occhi, disse: andate che siate benedetti,

cattolici cristiani.

XXI. E da’ Fondamenti di santa Liperata, dicendogli alcuno:

sciocco che tu se’, credi nel papa.

E que’ disse, alzando il capo: 

voi ve n’avete fatto Iddio di questo vostro papa; come vi conceranno

ancora!

E più oltre, essendogli anche detto, e esso disse, quasi sorridendo:

questi vostri paperi v’ànno ben conci!

Onde molti meravigliandosi diceano:

e’ va alla morte allegramente!

XXII. Quando giunse a santo Giovanni, essendogli detto:

pentiti, non voler morire.

Et esso dicea:

io mi pento de’ peccati miei.

Ed alcuno gli dicea:

campa la vita.

E esso dicea:

campare i peccati.

XXIII. E di là dal Vescovado, dicendogli alcuno:

tu non ti raccomandi a persona che prieghi Iddio per te!

Et esso con voce alta:

io priego tutti i fedeli cristiani cattolici che prieghino Iddio 

per me.

XXIV. E da Mercato Vecchio a Calimala, essendogli detto:

campa, campa;

et esso, rispuose:

campate lo ‘nferno, campate lo ‘nferno, campate lo ‘nferno.

XXV. E giungendo in Mercato Nuovo, essendogli detto:

pentiti, pentiti;

ed e’ rispondea:

pentitevi de’ peccati, pentitevi de l’usure, delle false mercatanzie.

XXVI. E in su la piazza de’ Priori, essendogli detto:

pentiti di cotesto errore, non voler morire;

ed e’ diceva:

anzi è la fede cattolica, anzi è la verità, alla quale è obbligato

ciascuno cristiano.

XXVII. E alla Piazza del Grano, essendovi molte donne alle

finestre, e tavolieri, et gente che giucava, gli diceano:

pentiti, pentiti;

e que’ diceva:

pentitevi de’ peccati de l’usure, del giucare, delle fornicazioni.

E più oltre dicendogli molti:

non voler morire, sciocco che tu se’;

ed egli diceva:

io voglio morir per Cristo.

Et uno, infra gli altri, gli andò dando briga per più d’una balestrata,

dicendogli:

tu se’ martire del diavolo; credi tu saper più che tanti maestri; credi

tu che se ‘l maestro Luca conoscesse che cotesta fosse la verità, che

volesse perdere l’anima? vuogli tu sapere più di lui, che non sai

leggere a petto a lui!

Ed e’ disse:

se bene mi ricorda, il maestro Luca sa bene che tiene cotanti danari

contro alla regola sua, e non gli lascia!

E colui dicendogli:

oh! voi dite che noi siamo battezzati nè cristiani!

Ed e’ disse, guatandolo:

anzi dico che voi siete cristiani e battezzati, ma non fate quello che

dee fare il cristiano.

E colui cominciò a dire:

voce di popolo, voce di Dio.

Ed e’ disse:

la voce del popolo fece crocifiggere Cristo, fè morire santo Pietro.

E qui gli fu data molta briga.

Chi diceva:

egli à il diavolo a dosso.

Chi:

egli muore eretico.

Quegli rispondea:

eretico non fu’ mai, nè voglio essere.

E qui chiamandolo uno fedele per nome, gli disse che pensasse

alla passione di Cristo.

Et esso si rivolse con volto lieto, e disse:

o fedeli cristiani cattolici, pregate Iddio che mi facci forte.





 

 

fra michele da calci

 

L’INVASIONE

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l'invasione

 

 

 

 

 

 

 

Il 7 ottobre 1950 i cinesi varcarono il confine tibetano.

Ciò avveniva centinaia di chilometri a est di Lhasa, per cui nella

capitale non scoppiò il panico.

…..A Shigatse non si aveva molta paura dei cinesi.

Accanto alla fortezza del governatore c’era il monastero di Trans-

hilhunpo, uno dei più grandi, con migliaia di monaci, nonché se-

de del Panchen Lama, la seconda autorità religiosa del Tibet, che

da generazioni veniva sostenuta dai cinesi in contrapposizione al

Dalai Lama.

 

l'invasione

 

L’attuale Panchen Lama si trovava ora in un monastero sotto sorve-

glianza cinese. Gli stupa dai tetti dorati di Trashilhunpo, monumento

funebre ai Panchen Lama defunti, assomigliavano ai mausolei del

Potala per i Dalai Lama del passato.

Rimasi particolarmente impressionato dalla costruzione più alta

di tutte, il rosso Jampa Lhaklang. La statua del Maitreya, alta 26

metri, superava i nove piani. La testa era così grande che per foto-

grafarla dovetti arrampicarmi su una serie di scale. 

 

l'invasione

 

Tornato a Gyantse, fui accolto da un agitatissimo Surkhang Wang-

chuk con la notizia che il Dalai Lama aveva lasciato Lhasa il 19

dicembre.

Era arrivato l’ordine di preparare tutti i posti tappa delle carovane

e di sistemare le strade per il suo arrivo. La madre e i fratelli erano

già a Gyantse. Ebbi un incontro particolarmente affettuoso con

Norbu, che non vedevo da tre anni. Il mio amico era in viaggio da

mesi; era sfuggito ai cinesi con l’astuzia, facendo credere di voler

convincere suo fratello a restare in Tibet.

 

l'invasione

 

Adesso era felice di essere libero e sarebbe andato a sud con la

sua famiglia.

Cavalcai incontro al Dalai Lama assieme a Surkhang Wangchuk.

Dopo tre giorni di viaggio, ci imbattemmo nell’avanguardia della

carovana sul passo di Karo. Si era levato un vento fortissimo, e lo

sventolio delle tante bandiere di preghiera variopinte soverchiò

il richiamo dei primi cavalieri…..

La scorta del giovane dio-re era composta da una quarantina di

nobili e da duecento soldati scelti, armati di mitragliatrici; segui-

vano uno stuolo di servitori e cuochi e un corteo pressoché infini-

to di 1500 bestie da soma che salivano in fila indiana verso il colle.

Al centro della colonna garrivano la bandiera nazionale del Tibet

e quella personale del XIV Dalai Lama, a segnalare la presenza

del sovrano.

 

l'invasione

 

Mentre osservavo la lenta cavalcata del Buddha vivente verso il

passo, mi venne involontariamente in mente una profezia che si

sussurrava a Lhasa: il tredicesimo Dalai Lama, così avrebbe an-

nunciato un oracolo, sarebbe stato l’ultimo.

Qualche settimana prima, con due anni di anticipo rispetto al

compimento del diciottesimo anno d’età, il mio giovane amico

era diventato ufficialmente il sovrano del suo paese.

Ma ora il vaticinio pareva avverarsi.

Tenzing Gyatso era stato incoronato, ma i cinesi avevano invaso

il Tibet, e lui era stato costretto alla fuga. Quando mi passò da-

vanti in groppa al suo cavallo bianco, mi sembrò una felice coin-

cidenza che spesse nuvole di fumo d’incenso nascondessero i

nostri visi e dunque i nostri sentimenti.

(H. Harrer, La mia sfida al destino)

 

 

 

 

 

l'invasione

 

PROGRESSO & INDIVIDUALITA’

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progresso & individualità

 

 

 

 

 

 

 

…..Non è contro il progresso che abbiamo da ridire;…..

al contrario, anzi, ci vantiamo di essere il popolo più pro- 

gressista che sia mai esistito.

E’ contro l’individualità che siamo in guerra; siamo persuasi

che avremmo fatto meraviglie, se fossimo diventati tutti ugua-

li: e così, ci siamo dimenticati che la diversità di una persona

da un’altra è in genere la prima cosa che richiama l’attenzione

di entrambe sull’imperfezione dell’una e la superiorità dell’

altra, o sulla possibilità di combinare i rispettivi pregi e pro-

durre qualcosa di meglio rispetto a tutt’e due.

Abbiamo un esempio ammonitore: la Cina – una nazione di

gran talento e per certi aspetti anche di grande saggezza, gra-

zie alla straordinaria fortuna di essersi ben presto dotata di

un insieme di usanze particolarmente buone, opera in certa

misura di uomini cui anche il più illuminato degli Europei

dovrebbe riconoscere, pur con certi limiti, il titolo di sapienti

filosofi.

Notevolissimo è anche il loro metodo per inculcare il più

possibile tutto il meglio della loro sapienza nella mente di

tutti i membri della comunità, e per assicurarsi che chi ne

ha tratto maggior profitto vada a occupare i posti d’onore

e di potere.

Il popolo che ha fatto tutto ciò, di sicuro, avrà scoperto il

segreto del progresso umano e si sarà certamente messo ben

saldo alla guida del mondo sulla strada del progresso: esat-

tamente il contrario; i Cinesi si sono come paralizzati, sono

rimasti immobili per migliaia d’anni, e se mai più migliore-

ranno sarà necessariamente a opera di stranieri.

A essi è riuscito, ben al di là di ogni aspettativa, ciò per cui

i filantropi inglesi si adoperano con tanta lena: far sì che un

popolo diventi tutto uguale, che tutti ispirino i propri pen-

sieri e la propria condotta alle stesse massime e alle stesse

regole: i frutti, sono quelli che vediamo.

(J. S. Mill, La libertà)

 

 

 

 

 

progresso & individualità

 

IL GRANDE MALE

e una lettera donare

 

 

 

                                                                                                  e una lettera donare

 

 

 

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                                                   e una lettera donare

 

 

 

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e una lettera donare

                             

POVERE SPIE

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Negli incubi tedeschi, anche lo spionaggio ha il suo posto:

nel 73 scoprirono 315 casi, che si moltiplicarono l’anno se-

guente: 1788.

Credono che 10.000 agenti dell’Est, in maggioranza provenienti

dalla Germania Orientale, agiscano, più o meno indisturbati

per carpire i segreti della tecnologia capitalistica, e degli arma-

menti della Bundeswehr.

 

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Quando varcate la frontiera, il vostro passaporto (se non ve lo

hanno rubato prima) passa davanti a una piccola telecamera che

in pochi secondi lo trasmette a una centrale di Wiesbaden che

subito risponde se siete un ricercato o meno.

Ma è difficile individuare coloro che, favoriti dalla lingua e dal-

la grande emigrazione che ha preceduto il muro, si mimetizzano

nella folla.

E’ l’intricato compito di Richard Meier, il capo del controspionag-

gio, un servizio che ha un nome burocratico e grigio: Dipartimen-

to per la difesa della Costituzione. Il suo rivale maggiore è ritenu-

to il sovietico Juri Andropov, che guida il potente KGB.

 

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E’ tanto scabroso il suo lavoro, che il cancelliere Willy Brandt te-

neva accanto a sé un ex fotografo, piazzista di manichini, sommoz-

zatore occasionale, venditore ambulante di salsicce per ragioni

di sopravvivenza, o di mimetizzazione, che nel 56 era scappato

da Ulbricht, si era iscritto tra i socialdemocratici, aveva fatto car-

riera, e Willy se lo era preso accanto affidandogli l’incarico di

curare le relazioni col partito e il sindacato.

Quanto a Gunter Guillaume, gran lavoratore, grassoccio, stem-

piato, occhiali, compostamente vestito con abiti confezionati,

discreto ed efficiente, i segreti li andava a cercare sulle scrivanie

e in camera da letto, e le precise segretarie dell’ambasciatore di 

Bonn a Berlino Est, o del capo della sezione economica della

Cancelleria, davanti a questo fascino insistente, non nasconde-

vano nulla.

 

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Probabilmente Brandt faceva altrettanto, anche se quando lo

scandalo scoppiò disse:

– Non mi piaceva perché lo ritenevo soprattutto limitato.

Limitato ma tenace: accompagnava il suo superiore ogni dome-

nica nella solitaria passeggiata tra i boschi di Venusberg, lo se-

guiva in vacanza nelle ventose spiagge di Norvegia. 

Quando una mattina di buonora alla modesta abitazione di Herr

Guillaume si presentarono due personaggi dai modi spicci, che 

lo invitarono a seguirli, lo spione non si scompose:

– Signori,

disse…

– Sono un ufficiale dell’Armata Popolare della Repubblica Demo-

cratica Tedesca. Desidero essere trattato con riguardo…. 

(prosegue….)

 

 

 

 

 

 

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LA GUERRA FREDDA

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Nel retrocucina, Smiley aveva controllato ancora una volta il

suo itinerario, aveva spostato delle sedie a sdraio a appuntato

con spilli un filo di spago al mangano come guida, perché nel

buio non vedeva bene. 

Fece una telefonata per dare modo di essere rintracciato.

Poi attese. 

 

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Lo spago portava fino alla porta aperta della cucina, e questa

dava nel soggiorno e nella camera da pranzo attraverso due

porte, l’una accanto all’altra.

La cucina era stretta e lunga, praticamente un corpo aggiunto

alla casa prima che vi fosse aggiunto ulteriormente il retrocu-

cina a vetri. Aveva pensato di usare la stanza da pranzo ma era

troppo rischioso, e inoltre da lì non poteva trasmettere segnali

a Guillam.

 

06.jpg

 

Così attese nel retrocucina, sentendosi assurdo e ridicolo senza

scarpe, in calzini, e pulendosi gli occhiali perché il calore del

viso continuava ad appannarli.

Faceva molto freddo in quel retrocucina.

Ma la cosa che lo invigoriva era la certezza che la talpa si sareb-

be presentata.

…La talpa arriva per prima, pensò, la talpa fa gli onori di casa: è

il protocollo, fa parte della finzione, la talpa ti controllerà borsa

e denari, ti terrà d’occhio….

 

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…Sentì il fruscio di un paio di scarpe sulla ghiaia, crepitante e

forte.

I passi si arrestarono.

Hai sbagliato porta, pensò, assurdamente, sono decenni che sba-

gli porta.

Vattene via.

Aveva la pistola in mano e aveva abbassato la sicura.

Tese ancora l’orecchio, non udì nulla.

Sei sospettoso, Gerard, pensò.

Sei una vecchia talpa, avverti subito se c’è qualcosa che non va.

Poi senti lo scatto della serratura: un primo scatto, ti ha bloccato

ad una frontiera. Un secondo scatto, guarda la tenda. 

Sei una vecchia talpa ti conosco bene.

 

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Ora la talpa s’era fermata a frugarsi in tasca in cerca della chiave.

Un tipo nervoso l’avrebbe già avuta in mano, l’avrebbe tenuta ben

stretta tra le dita in tasca durante tutto il tragitto…in taxi; ma non

la talpa.

La talpa poteva insospettirsi, preoccuparsi, ma non innervosirsi.

La porta d’ingresso s’aprì, qualcuno entrò in casa: udì lo stropic-

cio della stuoia, poi la porta che si chiudeva, quindi lo scatto

degli interruttori della luce, e sotto la porta della cucina vide

una striscia pallida.

Mise in tasca la pistola e s’asciugò il palmo della mano contro

la giacca, quindi la tirò fuori di nuovo, si mosse agitato, fece

dei numeri, il visore del cellulare gli illumina le dita e le un-

ghie come rami appassiti di un albero morto. 

 

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…..- Qual’è la nostra copertura nel caso fossimo disturbati?

chiese in buon inglese.

Una bellissima voce – ricordò Smiley – pastosa come la tua.

Spesso ascoltavo due volte i nastri solo per sentire quella vo-

ce. Dovresti sentirlo adesso, Connie……

(prosegue…)

 

 

 

 

 

 

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I FUCILI DELLA GUERRA

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i fucili della guerra

 

 

 

 

 

 

 

Il presidente Kennedy un giorno del 1961 disse che la tecnologia

moderna aveva reso molto improbabile la guerra totale, perché

se fosse giunta avrebbe significato la fine della civiltà come la

concepiamo.

Ma oggi ci troviamo di fronte, invece, a ‘un altro genere di guerra,

nuovo per intensità, antico per origini, una guerra di guerriglieri,

di sovversivi, di insorti, di assassini, una guerra di imboscate e

non di battaglie, di infiltrazione e non aggressione, che cerca la

vittoria consumando le forze del nemico fino all’esaurimento to-

tale, anziché impegnarlo direttamente’. 

 

i fucili della guerra

 

Negli ultimi vent’anni quasi tutte le guerre hanno assunto questo

volto anche se nascevano da cause diverse e si proponevano fini

diversi: in Algeria e a Cipro l’obiettivo era l’indipendenza dalla

dominazione straniera; in Birmania, nell’Iraq e sui monti Naga

dell’India era la difesa dell’autonomia regionale o tribale contro l’

autorità centrale dello stato; in Malesia e in Grecia erano minoran-

ze comuniste che cercavano di impadronirsi del potere. 

….Ma per i vietmaniti essa doveva apparire come l’avverarsi della

profezia di san Giovanni Evangelista:

 

E guardai, e vidi un cavallo pallido: e il nome che portava scritto

era Morte, e l’Inferno lo seguiva. E potere gli fu dato sopra la quarta

parte della terra, di uccidere con la spada, con la fame e con la morte. 

 

i fucili della guerra

 

Ecco i numeri della profezia:

La marina e l’aviazione americane, in Vietnam, hanno lanciato più

tonnellate di esplosivo di quante ne siano state impiegate sull’Euro-

pa durante tutta la seconda guerra mondiale: nel solo 1966, due ton-

nellate circa di bombe per ogni chilometro quadrato, una tonnellata

ogni quaranta persone su tutto il Vietnam del Nord e del Sud.

(prosegue…..) 

 

 

 

 

 

i fucili della guerra