OPERAZIONE GERONIMO (3)

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Convinto che i Chiricahua sarebbero venuti a Fort Bowie con il suo gruppo

di guide, Crook corse là a telegrafare al dipartimento della Guerra a

Washington le condizioni che aveva concesso ai capi chiricahua.

Con sua grande delusione, ricevette la seguente risposta:

“Non possiamo approvare la resa degli indiani ostili a condizione che

vengano imprigionati per due anni con l’intesa di lasciarli tornare poi

nella riserva”.


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Lupo Grigio aveva fatto un’altra promessa che non poteva mantenere.

Come colpo finale, il giorno dopo venne a sapere che Geronimo e Naiche

si erano staccati dalla colonna a pochi chilometri da Fort Bowie e stavano

fuggendo nella direzione opposta, verso il Messico.

Un commerciante del ‘Tucson Ring’ li aveva riempiti di whiskey e di menzogne

su come i cittadini bianchi dell’Arizona li avrebbero certamente inpiccati,

se fossero tornati.

Secondo Jason Betzinez, Naiche si ubriacò e sparò in aria con il fucile.

‘Geronimo pensò che fosse iniziato il combattimento con le truppe. Egli e

Naiche, presi dal panico, fuggirono precipitosamente, insieme a circa

trenta seguaci.’

Forse accadde anche qualcos’altro.


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‘Temevo di essere tradito’ disse in seguito Geronimo ‘e quando diventammo

sospettosi, tornammo indietro’.

Naiche qualche tempo dopo disse a Crook:

“Avevo paura di essere portato da qualche parte dove non mi sarebbe piaciuto;

in un posto che non conoscevo. Pensavo che tutti quelli che venivano portati

via sarebbero morti…Ci ero arrivato con la mia testa da solo…Ne parlammo fra

noi. Eravamo ubriachi….perché vi era un sacco di whiskey e volevamo bere

qualcosa, e così bevemmo”.

Come risultato della fuga di Geronimo, il dipartimento della Guerra rimproverò

severamente Crook per la sua negligenza, per aver concesso condizioni di resa

non autorizzate, per il suo atteggiamento tollerante verso gli indiani.

Egli rassegnò immediatamente le dimissioni e fu sostituito da Nelson Miles,


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un camandante di brigata che aspirava a una promozione.

Cappotto d’Orso assunse il comando il 12 aprile 1886.

Con il pieno appoggio del dipartimento della Guerra, mise rapidamente in campo

5000 soldati.

Egli disponeva inoltre di 500 guide apache e di migliaia di civili raggruppati

nella milizia. Organizzò una colonna volante di cavalleggeri e un costoso sistema

di eliografi per trasmettere messaggi attraverso l’Arizona e il Nuovo Messico.

Il nemico che doveva essere sconfitto da questa potenza militare era Geronimo

e il suo ‘esercito’ di 24 (ventiquattro) guerrieri che per tutta l’estate del

1886 furono anche costantemente seguiti da migliaia di soldati dell’esercito

messicano.

Alla fine furono Grande Naso Capitano e due guide apache, Martine e Kayitah,

che trovarono Geronimo e Naiche nascosti in un canyon della Sierra Madre.

Geronimo depose il fucile e strinse la mano a Grande Naso Capitano, domandogli

tranquillamente come stava.

Chiese poi notizie degli Stati Uniti.

(Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee)




 

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OPERAZIONE GERONIMO

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Simmetrie ‘spazio temporali’ in:

cronologia-storica-di-un-terrorista


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….Per oltre un anno e mezzo Crook poté vantarsi che ‘nessun reato o razzia

di nessun genere’ erano stati commessi dagli indiani dell’Arizona e del Nuovo

Messico.


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Geronimo e Chato facevano a gara a sviluppare i loro ranchos e Crook teneva

d’occhio l’agente perché distribuisse provviste adeguate. Fuori dalla riserva e

dai presidi militari, tuttavia Crook veniva molto criticato e accusato di essere

troppo accondiscendente con gli Apache; i giornali che egli aveva accusato di

diffondere ‘ogni genere di esagerazioni e di falsità sugli indiani’ ora si volsero

contro di lui. Alcuni giornalisti, particolarmente in malafede, arrivarono al

punto di spargere la voce che Crook si era arreso a Geronimo nel Messico e

aveva fatto un accordo con il capo chiricahua per salvare la propria vita.


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Per quanto riguarda Geronimo, ne fecero una specie di diavolo, inventando

decine di storie atroci sul suo conto e invitando i membri del comitato di

vigilanza a impiccarlo, se non avesse fatto il governo.

Mickey Free, l’interprete ufficiale dei Chiricahua, raccontò a Geronimo queste

storie che circolavano sui giornali.


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‘Quando un uomo cerca di fare il giusto,’ commentò Geronimo ‘simili

storie non dovrebbero apparire sui giornali’.

Dopo l’epoca di Piantare il Mais (primavera 1885) i Chiricahua divennero

scontenti. C’era poco da fare per gli uomini, tranne che ritirare le razioni,

giocare d’azzardo, litigare, oziare e bere tiswin. Il tiswin era proibito nella

riserva, ma i Chiricahua avevano una gran quantità di mais per fare la

birra e il bere era uno dei pochi piaceri dei vecchi tempi che era rimasto

loro.

La notte del 17 maggio, Geronimo, Mangas, Chihahua e Nana, ubriachi

fradici di tiswin, decisero di andare nel Messico. Si reacarono a trovare

Chato per invitarlo a seguirli, ma Chato era sobrio e rifiutò. Egli e Geronimo

litigarono e per poco non passarono a vie di fatto prima della partenza

di Geronimo e degli altri. Del gruppo facevano parte 92 donne e bambini,

8 ragazzi e 34 uomini. Appena lasciarono San Carlos, Geronimo tagliò i

fili del telegrafo.


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Sia gli uomini bianchi sia gli Apache cercarono di spiegare in vari modi

questo improvviso esodo da una riserva dove tutto apparentemente sembrava

andare liscio. Alcuni dissero che la cosa era imputabile all’euforia del

tiswin; altri dissero che le brutte storie che circolavano sui Chiricahua

avevano fatto temere loro di essere arrestati.

‘Essendo stati messi in catene, una volta prima che la banda venisse spedita

a San Carlos,’ disse Jason Betzinez ‘alcuni capi erano decisi a non subire

un’altra volta un simile trattamento’.

Geronimo in seguito spiegò in questo modo: ‘ Qualche tempo prima che me

andassi, un indiano di nome Wadiskay ebbe un colloquio con me. Disse:

‘Stanno pensando di arrestarti’, ma non gli badai, pensando che non avevo

fatto nulla di male; e la moglie di Mangas, Huera, mi disse che stavano

pensando di prendermi e di mettere me e Mangas in prigione e venni a

sapere dai soldati americani e apache, da Chato e da Mickey free che gli

americani si stavano preparando ad arrestarmi e a impiccarmi e così

me ne andai’.

La fuga del gruppo di Geronimo attraverso l’Arizona diede il via a un

susseguirsi di voci incontrollate. I giornali uscirono con titoli a caratteri

cubitali: GLI APACHE SONO USCITI DALLA RISERVA!

La stessa parola ‘Geronimo’ divenne un sinonimo di sangue.

(Dee Brown, Seppelite il mio cuore a Wounded Knee)





 

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FUOCO SULLA MONTAGNA

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fuoco sulla montagna

 

 





– No!

Gridò il nonno.

– Gli hanno sparato, ti ho detto!

Aveva la mascella fracassata. E non l’hanno nemmeno ucciso sul

colpo: quella povera bestia dev’essere rimasta viva per ore.

Ha cercato di tornare qui.

Gli hanno sparato, per Dio!

Con un proiettile a punta cava, direi.

Il foro di uscita era grande come il mio pugno.

Il nonno picchiò sul tavolo della cucina facendo sobbalzare

la lampada. Luce e ombre si agitarono disordinate sulle pareti.

Lee studiò la sua sigaretta.

 

fuoco sulla montagna


Io stavo scrivendo una lettera a casa: avevo concluso un paragrafo

e non sapevo come andare avanti, senza mentire troppo.

Dato che non desideravo scrivere altro disegnai un bozzetto che

mi ritraeva a cavallo sulle White Sands. Per completare la scena

avevo messo due avvoltoi che volavano in cerchio sopra la loro

testa e un sole nero.

Quello che stavo facendo non mi interessava gran che.

Tenevo le orecchie ben tese per captare la rabbia del nonno e i

silenzi di Lee Mackie.

– Stanno forse cercando di spaventarmi?,

chiese il nonno, ruminando sul suo sigaro.

– Sono così pazzi da credere di potermi spaventare al punto di

farmi mollare il ranch e la mia casa?

Lee parlò misurando le parole. 

 

fuoco sulla montagna


– Non partire per la tangente, John. Sei tu che stai parlando come 

un pazzo adesso. Come fai a dire chi ha sparato al cavallo? O perché?

Magari si è trattato di un incidente. 

Un incidente, dissi tra me e me; avremmo dovuto farli fuori, quei

tipi…

– Succedono troppi incidenti qui intorno,

ruggì il nonno.

– E’ un incidente quando passano con i loro camion sulle mie

recinzioni? O quando i loro missili cadono dove pascolano le

mie vacche e le fanno fuggire terrorizzate? Il povero Eloy oggi

si è passato palmo a palmo tutto il nord-ovest e non è riuscito

a ritrovarne nemmeno una. Tu li chiami incidenti?

– A me sembrano incidenti,

rispose Lee.

– Sono cose successe anche agli altri che vivono qui intorno.

E poi, l’esercito non è comandato da una banda di delinquenti.

Non hanno certo bisogno di farsi dei nemici qui: semmai degli

amici, e di cercare di convincere la gente. Non è ancora venuto

a trovarti DeSalius?

Il nonno inclinò la brocca di rum dentro la sua cesta di vimini e

si riempì il bicchiere, aggiungendo del ghiaccio. Poi fece lo 

stesso per Lee.

– DeSalius…,

borbottò.

– E chi diavolo è questo DeSalius?

– Il colonnello Everett Stone DeSalius, del Genio Militare. Si occupa

di proprietà immobiliari per il Dipartimento della Difesa….

(E. Abbey, Fuoco sulla montagna)




 

 

fuoco sulla montagna

 

LETTERATI & SCIAMANI

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letterati & sciamani







Nato a Boston nel 1823, educato ad Harvard, Francis Parkman

viaggiò prima in Europa poi nelle terre selvagge dell’occidente

americano, attorno al 1846.

Gli aggettivi che gli nascono dall’incontro con gl’Indiani sono

carichi di orrore e di disprezzo, ma a poco a poco, vivendo fra 

di loro, quella sua visione gotica si illimpidisce e gli riesce di

tracciarne certi profili abbastanza schietti.

Fra i ritratti di ‘The Oregon Trail’ è quello del giovane cacciatore

che ha appena ucciso un cervo, dando prova di raggiunta virili-

tà, e che tuttavia sa, nonostante l’entusiasmo, mantenere un as-

petto apatico.

Parkman s’accorge che questa bravura nasce da una forza che

ferma l’espressione ma non sciupa l’empito, diversissima dal

‘self-control’ inglese che vieta qualsiasi sentimento di spiccare.

La gran forza che conferisce a Parkman l’oggettività è la forma

della sua prosa; eccola in pieno nella scena del passaggio d’una

tribù attraverso giogaie dove divampa un incendio di foreste.


Eravamo al versante orientale del monte e tosto giungemmo 

ad una gola aspra che portava ad un declivio scosceso.

Tutta la torma si precipitò compatta colmando il passaggio

roccioso come un ruscello turbolento. Le montagne davanti

a noi ardevano da settimane. 

La vista era oscurata da un ampio cupo mare di fumo, mentre

dalle due parti s’alzavano alte scogliere che reggevano in cima

le loro creste di pini ed i pinnacoli aguzzi e le frante catene del-

le montagne retrostanti si ravvisarono appena come attraverso

un velo.


Il metaforeggiatore non si nota quasi: bisogna porre una certa

attenzione alla pagina di Parkman per vederne il tessuto.

Egli usa l’artificio di presentarsi come chi dia un piatto raggua-

glio, ma in filigrana si scorge l’incastellatura dei tre piani so-

vrapposti: gl’indiani, il mare di fumo, le sagome delle montagne

in una linea accidentale, come attraverso un velo.

La descrizione continua determinando il centro animato dopo

il giro dell’orizzonte, secondo le norme della più complessa pros-

pettiva:


La scena era in se stessa grandiosa e imponente ma con la molti-

tudine selvaggia, i guerrieri armati, i bambini ignudi, le fanciulle

dall’abbigliamento così gaio che impetuosamente precipitavano

dalle alture, avrebbe formato un nobile tema per il pittore. 


Quando il libro uscì, nel 1847, tutto questo mondo ancora pitto-

resco era già per crollare: nel 1872 Parkman guarderà indietro,

ad un passato del tutto irredimibile.


Sapevamo che c’era più o meno dell’oro nelle costure di quelle

montagne mai calpestate; ma non prevedemmo che avrebbe e-

dificato città nella desolazione e impiantato alberghi e case da

gioco nei luoghi frequentati dall’orso bruno. Sapevamo che po-

chi reietti fanatici stavano avanzando a tentoni attraverso le

pianure per cercare un asilo dalle persecuzioni dei Gentili, ma

non immaginavamo che le orde poligame dei Mormoni allevas-

sero una Gerusalemme sciamante nel seno della solitudine.

(prosegue…)

(E. Zolla, I letterati e lo sciamano)







 

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