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….L’ultima opera…..
A posare per Rembrandt non era qualche persona semplicemente
agiata, ma il fior fiore della società di Amsterdam.
Tra mercanti come Nicolaes Ruts, con la sua prosperità precaria,
e le grandi dinastie di plutocrati – i Trip, i de Graeff e i Witsen –
c’era un divario abissale.
Quest’ultima era gente che vantava patrimoni di centinaia di migliaia
di gulden, che costituiva il cuore della classe dirigente cittadina,
che veniva ritenuta sufficientemente ricca da poter offrire ospitalità
ai principi di passaggio.
Quando andavano a posare per un pittore, persone di tale levatura
si portavano dietro una piccola corte di serve, segretari e paggi neri
in pantaloni di seta.
Come ritratttista dell’alta società, Rembrandt guardava più a Van Dyck
che a Rubens; voleva celebrare la fresca eleganza di questi giovani
patrizi in ascesa. E per assecondare il loro amor proprio, raffinò la
sua già eccelsa maestria nel rendere i tessuti, attingendo vette di
puro e suadente illusionismo.
Nelle sue mani lino, trina e seta acquistano respiro e personalità:
ricadono, si torcono. si increspano e si piegano, quasi eseguissero
un’elegante e solenne danza attorno alla sagoma del corpo.
Ma a differenza di Van Dyck e dei suoi aristocratici soggetti,
Rembrandt e i suoi principi del commercio dovevano stare attenti
a non cadere nella trappola della vanità.
Non vivevano in qualche contea o nelle ville all’italiana di Londra,
e durante gli anni Quaranta nei sinodi calvinisti i pronunciamenti
contro la stravaganza che caratterizzava glia abiti e le folte capigliature
alla moda divennero particolarmente infuocati. Così, mentre si
industriava a rendere mirabilmente tangibili i sontuosi dettagli
dell’abito, Rembrandt fu probabilmente costretto a tener conto della
necessità di suscitare un’impressione generale di modestia e
pacatezza.
Durante quegli anni, Rembrandt sfruttò espedienti di questo genere
anche negli altri ritratti dei suoi ricchi committenti.
Alijdt Adriaensdochter era la vedova del massimo uomo d’affari
di Dordrecht, che in quell’epoca di continui conflitti aveva messo in
piedi un colossale impero multinazionale e paneuropeo del ferro e
delle munizioni.
Compito di Rembrandt era di far apparire la modestia e la devozione
autentica della vedova, sì da trasmettere l’impressione che ella fosse
uscita direttamente dalle pagine di uno dei sentenziosi brevari di
morale dedicati da Jacob Cats alle fasi della vita femminile.
La parte più spettacolare doveva essere riservata ai dettagli.
Così nell’ossequiare i costumi dell’antica virtù – la grande gorgeria -,
l’artista riesce a farne terreno di vistuosismo pittorico, dedicandovi
maggiori cure che a qualsiasi altra parte del dipinto.
Il candore del collare è talmente intenso da illuminare gli scabri,
mediocri della donna, immergendoli in una pallida aura di virtù.
Come si conveniva a una persona del suo rango, Alijdt Adriaens-
dochter viveva in una delle più fastose dimore dello Herengracht,
dove il suo ritratto teneva probabilmente compagnia a quello della
figlia, Maria Trip.
Da brava ragazza nubile della nuova generazione – quando Rembrandt
la ritrasse aveva circa vent’anni -, Maria indossa un abito più sfarzoso
e deliberatamente alla moda. Il vistoso colletto a più strati, con smerlo
di pizzo, è raffigurato con stupefacente verosimiglianza.
Tuttavia, la tecnica di Rembrandt non è affatto asservita alla pura
descrizione. Al contrario, per rendere la tridimensionalità della
superficie, il pittore comincia qui a distribuire audaci colpi di pennello,
pastosi tocchi sciolti e spezzati. Nel ritratto della dama, il suo volto
è semplice quanto il suo costume è elaborato.
Maria indossa il proprio lusso, ma il suo oro è la virtù.
Al di là di quelle trine, è la figlia di sua madre, una brava fanciulla
cristiana.
Come far vivere quei soggetti, come infondere loro movimento mentre
se ne stavano seduti in trono o rimanevano in piedi a osservare il
ritrattista?
Rembrandt si trovò sempre più impegnato a sperimentare soluzioni
compositive che, invece di chiudere i soggetti in uno spazio pittorico
convenzionale, li proiettassero all’esterno, facendoli entrare nello
spazio ‘reale’ dell’osservatore. Naturalmente non fu lui ad inventare
l’illusione ottica.
Rembrandt fece un passo più in là dei suoi maestri, trasformando
la cornice del quadro da limite solido esterno della rappresentazione
a suo elemento interno. Invece di fungere da chiaro confine tra il
mondo concreto dell’osservatore e il mondo delle immagini, la cornice
si trasforma sorprendentemente in una soglia capace di dissolversi,
come lo specchio di Alice, un’inquietante porta attraverso la quale
osservato e osservatore hanno libero passaggio.
(S. Schama, Gli occhi di Rembrandt)