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Che cos’è il tempo?
Salivamo cinque piani vero la luce e ci distribuivamo in tredici
file rivolti verso il dio che apre le porte del mattino.
Poi c’era una pausa, quindi arrivava Biehl.
Perché quella pausa?
A un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle
ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in silenzio.
Poi lui, che non diceva mai ‘io’ di se stesso, aveva detto, lenta-
mente e con grande serietà, come stupito della domanda, e for-
se anche della propria risposta: “Quando parlo dovete ascolta-
re soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole”.
Questo valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella
sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e sa-
liva SUL PULPITO.
Una pausa eloquente, per dirla con parole sue.
Poi veniva INTONATO UN CANTO MATTUTINO seguito da
una pausa, Biehl recitava un paternostro, pausa, un breve salmo,
pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la
sala come era arrivato, rapido quasi di corsa.
Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?
Nessun sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e
la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?, mi stava venendo
il mal di testa, ed era tardi, la campanella aveva già suonato, indi-
cai l’ora. Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un’altra cosa,
cioè il rapporto con il DOLORE. Nel corso di un esperimento, quan-
do sopravveniva il dolore, come ora il mal di testa, non bisognava
mai interrompere e abbandonarlo.
Bisognava invece dirigere su di esso la giusta luce dell’attenzione
(questo il male pretende da noi).
Disse così.
La luce dell’attenzione.
Così ci volgemmo verso la paura.
Bielh aveva scritto le sue memorie (e un ottimo libro, manuale da
psicoterapeuta distillatore del dolore, ….un vero bestseller per
professionisti).
Lì dentro c’erano i nomi di tutti gli insegnanti che avevano lavo-
rato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in locali mi-
gliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui era-
no stati premiati.
Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò
nemmeno SULLA PAURA.
Non una parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.
Da principio era incomprensibile.
Perché era quella la cosa importante.
Non il rispetto o L’AMMIRAZIONE, ….ma la paura.
Poi fu chiaro che quella reticenza RIENTRAVA IN UN PIANO
PIU’ VASTO.
E allora capii.
All’inizio del mese di gennaio girai tutta Copenaghen in bicicletta
per trovare un determinato orologio. Avevo passato più di un anno
a scrivere quello che sto raccontando, e avevo sempre rimandato
questo impegno: rientrare in una scuola dopo vent’anni.
Faceva freddo ed era molto buio, pur essendo giorno c’era un’oscu-
rità notturna.
Cominciai a caso, dalla Farimagsgades Skole, forse perché dalla col-
lina del parco intorno alla Biehl si vedeva sempre il campanile della
chiesa lì a fianco.
L’ufficio della scuola era in una sala dall’ampio soffitto.
Rimasi a lungo davanti alle segretarie, poi mi feci coraggio.
– Potrei vedere l’orologio della vostra scuola?,
dissi.
– Sto scrivendo un libro.
Era collocato molto in alto, incapsulato nel plexiglas, con le cifre
rosse digitali.
Mi dissero che era stato installato prima del loro arrivo, nessuno
ricordava quando, ma funzionava in maniera perfetta, solo di ra-
do veniva un uomo a controllarlo.
Mentre ero lì passò un insegnate (sembrava un’impiegato delle po-
ste, – potrei vedere le note di Pietro….scritte da…- …pensai fra me…).
Cinque anni prima aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole,
gli pareva che lì avessero un orologio antico.
Così pedalai fin laggiù.
Avevano la stessa scatola di plexiglas con le cifre digitali.
Ma mi diedero il numero di telefono dell’ingegnere della scuola.
Gli parlai qualche giorno dopo, lavorava alla direzione generale del
Genio civile ed era responsabile DELLA MISURAZIONE DEL TEMPO
in gran parte delle scuole di Copenaghen.
Mi raccontò che nel corso degli ultimi vent’anni la società privata
Dansk Tidskontrol era stata incaricata di sostituire la maggior parte
dei vecchi orologi con moderni apparecchi al quarzo, che erano molto
precisi e non richiedevano quasi nessuna regolazione, e quindi funzio-
navano praticamente da soli, senza l’intervento umano.
Ma aveva sentito dire di un paio del vecchio tipo. Alla Helling Kors
e alla Prinsesse Charlottes Gades Skole c’erano ancora le vecchie cam-
panelle. Quelle che si usavano negli anni 60 e 70, e che il tempo aveva
reso obsolete.
Alla Prinsesse Charlotte Gades Skole lo trovai.
Fu il vicedirettore ad accompagnarmi.
Mi sentivo molto piccolo, mentre lui mi parve più vecchio di una
generazione.
In seguito mi resi conto che dovevamo essere coetanei.
L’orologio era appeso molto in alto e lui mi resse la scala.
Era l’orologio che cercavo.
L’orologio che avevo visto e toccato una volta, per un attimo di ven-
tidue anni prima.
Un orologio a pendolo Burk a carica manuale. Aprii il vetro e osser-
vai il meccanismo.
Avrei voluto prendere degli appunti, ma non fu necessario.
Era come lo ricordavo (stesso tempo, stesso ritmo…stesse parole).
Il vicedirettore, l’ingegnere, le segretarie dell’ufficio, l’insegnante
che aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, tutti mi han-
no dimenticato subito dopo avermi incontrato.
Ma mentre eravamo insieme credevano di avere a che fare con
un adulto.
Si sbagliavano.
Stavano parlando con un bambino.
Davanti a loro non avevo pelle, niente per coprirmi.
Sentivo ogni loro cambiamento di tono, ogni loro sguardo, ne
sentivo la fretta e la cortesia, la distrazione e l’incomprensione.
Loro mi hanno dimenticato cinque minuti dopo che me ne sono
andato, MA IO LI RICORDERO’ PER SEMPRE.
Entrando in una scuola mi calavo nel bambino che ero ventidue
anni fa, e in quella forma incontravo gli adulti.
Loro erano protetti.
Il tempo li aveva avvolti in una membrana.
Erano spiritosi e frettolosi, e non rimanevano minimamente scal-
fiti dal nostro incontro.
Così era allora, quando andavo ….alla Biehl, così è adesso, e così
sarà sempre.
Intorno agli adulti il tempo si è depositato, con la sua fretta, con
la sua noia, le sue ambizioni, la sua amarezza e i suoi obiettivi a
lungo termine.
Loro non ci vedevano più veramente, e quello che vedono cin-
que minuti dopo l’hanno già dimenticato.
Mentre noi non abbiamo pelle.
E li ricorderemo per sempre.
Andava così….alla Biehl.
Noi ricordavamo ogni espressione del volto, ogni insulto e ogni
incoraggiamento, ogni osservazione buttata lì, ogni segno di po-
tere e di debolezza. Per loro eravamo la quotidianità, per noi
erano senza tempo, cosmici e potenti.
Mi è venuta questa idea: QUANDO PROVI DOLORE, e pensi
che la cosa sta crescendo qui, in laboratorio, è inutile, puoi rea-
gire pensando che forse è anche l’unico modo che hai per dire
come appariva il mondo.
Cose da adulti.
Cose precise, esatte.
Queste, certo, non mancano.
Anzi, rappresentano tutto quello che ci circonda.
Ma sentire senza pelle è possibile, forse, solo in condizioni simili a
quelle del laboratorio.
(P. Hoeg, I quasi adatti)