IL TEMPO (lo spartito) (4)

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Quella notte dormì nella stalla.

C’erano solo una ventina di animali, perlopiù cavalli e un

cammello, quasi tutti vecchi o senza valore.

Gli altri erano ancora in giro per la stagione invernale nei

circhi francesi e della Germania meridionale.

Aveva con sé il violino.

Posò il piumino e il lenzuolo nel box accanto a Roselil,

mezza berbera e mezza araba.

Era rimasta lì perché non obbediva che al suo cavaliere.

Anzi, nemmeno a lui.

Suonò la ‘Parita in la minore’.

Dal soffitto una lampadina solitaria gettava una luce,

dorata, sugli animali in ascolto.

In Martin Buber aveva letto che sono gli esseri umani

più spirituali e più vicini agli animali.

L’aveva detto anche Eckart, in ‘Il regno di Dio è vici-

no’.

E’ negli animali che bisogna cercare Dio.

Pensò alla bambina.

A diciannove anni, quando aveva raggiunto il succes-

so, aveva scoperto di poter guadagnare entrando nell’-

essenza sonora degli esseri umani, soprattutto dei bam-

bini.

Aveva subito messo a frutto questa sua capacità.

Dopo un paio d’anni aveva dieci allievi al giorno, co-

me Bach a Lipsia.

C’erano state migliaia di bambini.

Bambini spontanei, bambini rovinati, bambini prodi-

gio, bambini senza speranza.

Alla fine c’era stata lei.

Adagiò il violino nell’astuccio e lo prese in braccio,

come tiene suo figlio una madre che allatta.

Era un cremonese, un Guarnieri, l’ultima reliquia dei

tempi d’oro.

Recitò la sua preghiera serale.

La vicinanza degli animali l’aveva rasserenato.

Ascoltò la stanchezza che si addensava, circondandolo.

Nell’istante in cui stava definendo la sua tonalità, la spos-

satezza si cristallizzò in sonno.

(P. Hoeg, La bambina silenziosa)





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IL TEMPO (il ritmo) (3)

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…Il tempo,

finalmente, mi liberò delle paurose borse e mi ristabilii.

Ogni evento parlava a me una lingua misteriosa.

E i momenti della vita rivelarono a poco a poco il loro

significato segreto.

Vi fu la meraviglia che provai quando vidi per la prima

volta una coppia di cavalli pezzati bianchi e neri grossi

come montagne, caracollare giù per una strada polve-

rosa in mezzo a nuvole di polvere argillosa.

Vi fu la gioia che provai nel vedere lunghe e diritte file di

ortaggi rossi e verdi che si perdevano nel sole fino all’oriz-

zonte luminoso.

Vi fu il languido, fresco bacio sensuale della rugiada che

sentii sulle guance e sugli stinchi, quando corsi per i verdi

sentieri del giardino in un mattino presto.

Vi fu il vago senso dell’infinito quando guardai giù, alle

gialle, sognanti acque del Mississippi dai picchi verdeg-

gianti di Natchez.

Vi furono gli echi di nostalgia che sentii nelle strida degli

stormi d’anatre selvatiche in volo verso sud, contro un te-

tro cielo autunnale.

Vi fu la struggente malinconia del pungente odore della

legna d’hickory quando brucia.

Vi fu l’imbarazzante, impossibile desiderio d’imitare la

piccola superbia dei passeri che si voltavano e si dimena-

vano nella rossa polvere delle strade di campagna.

Vi fu il vivo desiderio di sapere suscitatomi dalla vista

d’una solitaria formica che trascinava un fardello verso

un misterioso viaggio.

Vi fu lo sdegno che m’invase quando torturai un delica-

to gamberetto bluastro che si raggomitolò terrorizzato

nel fondo melmoso d’una latta arruginita.

Vi fu la gloria dolente di masse di nubi accese di porpo-

ra da un sole invisibile.

Vi fu il liquido allarme che vidi nel bagliore rossosan-

gue del tramonto nei vetri delle casette imbiancate.

Vi fu il languore che sentii quando udii lo stormire del-

le foglie verdi con un rumore di pioggia.

Vi fu l’incomprensibile segreto racchiuso in un bianchic-

cio fungo velenoso nascosto nella buia ombra d’un ceppo

fradicio.

Vi fu la sensazione della morte senza esser morto che pro-

vai alla vista d’una gallina che saltellò qua e là, ciecamen-

te, dopo che mio padre le aveva spezzato il collo con un

rapido torcer di polso.

Vi fu la grande allegria che mi prese quando capii che Dio

s’era divertito con i gatti e i cani nel farli lambire il latte e

l’acqua con la lingua.

Vi fu la sete che mi prese nell’osservare il succo limpido e

dolce che sgorgava dalla canna da zucchero mentre veni-

va schiacciata.

Vi fu il cocente panico che mi salì in gola e mi scorse per

le vene quando vidi per la prima volta le pigre, flessuose

spire d’un serpente turchino addormentato al sole.

Vi fu l’ammutolita stupefazione nel vedere un maiale

tratto nel cuore immerso nell’acqua bollente, raschiato,

spaccato, sventrato e appeso aperto e sanguinante.

Vi fu l’amore che provai per la muta regalità delle alte

querce vestite di muschio.

Vi fu il senso di crudeltà cosmica quando vidi le tavole

contorte d’una baracca di legno, che erano state contrat-

te dal sole estivo.

Vi fu la saliva che m’empì la bocca ogni volta che sentii

l’odore di polvere argillosa impastata di pioggia fresca.

Vi fu l’oscura sensazione di fame quando respirai l’odo-

re dell’erba tagliata di fresco e stillante umore.

E vi fu il muto terrore che m’invase i sensi quando im-

mensi pulviscoli dorati scendevano verso terra dai cieli

carichi di stelle nelle notti silenziose…..

(Richard Wright, Ragazzo negro)





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IL TEMPO (lo spartito) (2)

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Tornò in un regno di dolore.

Era ovunque.

Una sensazione di paralisi e di insensibilità allo stomaco

e al ventre.

Il dolore continuo, pulsante, a un tempo sordo e chirurgi-

co della commozione cerebrale. 

Il dolore bollente delle tumefazioni delle fratture.

Il corpo che doveva abituarsi al sangue estraneo.

Il dolore quando il dentista aveva rimesso a posto i denti

staccati.

Il dolore dei denti che cominciavano a fissarsi sulla ma-

scella.

Era cosciente solo per brevi periodi.

In quei momenti pregava.

Non aveva forza per le parole, si aggrappava alle cure

di cui era oggetto il suo corpo, e si protendeva verso le

grandi cure tutto intorno, verso la Creatrice.

Ogni tanto apriva gli occhi.

Qualche volta vedeva l’africana o la Signora Azzurra.

Poi si allontanava di nuovo, verso il mare.

Ma ogni volta ritornava.

(P. Hoeg, La bambina silenziosa)





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IL TEMPO (immobile e …)

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Che cos’è il tempo?

Salivamo cinque piani vero la luce e ci distribuivamo in tredici

file rivolti verso il dio che apre le porte del mattino.

Poi c’era una pausa, quindi arrivava Biehl.

Perché quella pausa?

A un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle

ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in silenzio.

Poi lui, che non diceva mai ‘io’ di se stesso,  aveva detto, lenta-

mente e con grande serietà, come stupito della domanda, e for-

se anche della propria risposta: “Quando parlo dovete ascolta-

re soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole”.

Questo valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella

sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e sa-

liva SUL PULPITO.

Una pausa eloquente, per dirla con parole sue.

Poi veniva INTONATO UN CANTO MATTUTINO seguito da

una pausa, Biehl recitava un paternostro, pausa, un breve salmo,

pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la

sala come era arrivato, rapido quasi di corsa.

Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?

Nessun sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e

la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?, mi stava venendo

il mal di testa, ed era tardi, la campanella aveva già suonato, indi-

cai l’ora. Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un’altra cosa,

cioè il rapporto con il DOLORE. Nel corso di un esperimento, quan-

do sopravveniva il dolore, come ora il mal di testa, non bisognava

mai interrompere e abbandonarlo.

Bisognava invece dirigere su di esso la giusta luce dell’attenzione 

(questo il male pretende da noi).

Disse così.

La luce dell’attenzione.

Così ci volgemmo verso la paura.

Bielh aveva scritto le sue memorie (e un ottimo libro, manuale da

psicoterapeuta distillatore del dolore, ….un vero bestseller per

professionisti).

Lì dentro c’erano i nomi di tutti gli insegnanti che avevano lavo-

rato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in locali mi-

gliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui era-

no stati premiati.

Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò

nemmeno SULLA PAURA.

Non una parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.

Da principio era incomprensibile.

Perché era quella la cosa importante.

Non il rispetto o L’AMMIRAZIONE, ….ma la paura.

Poi fu chiaro che quella reticenza RIENTRAVA IN UN PIANO

PIU’ VASTO.

E allora capii.


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All’inizio del mese di gennaio girai tutta Copenaghen in bicicletta

per trovare un determinato orologio. Avevo passato più di un anno

a scrivere quello che sto raccontando, e avevo sempre rimandato

questo impegno: rientrare in una scuola dopo vent’anni.

Faceva freddo ed era molto buio, pur essendo giorno c’era un’oscu-

rità notturna.

Cominciai a caso, dalla Farimagsgades Skole, forse perché dalla col-

lina del parco intorno alla Biehl si vedeva sempre il campanile della

chiesa lì a fianco.

L’ufficio della scuola era in una sala dall’ampio soffitto.

Rimasi a lungo davanti alle segretarie, poi mi feci coraggio.


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– Potrei vedere l’orologio della vostra scuola?,

dissi.

– Sto scrivendo un libro.

Era collocato molto in alto, incapsulato nel plexiglas, con le cifre

rosse digitali. 

Mi dissero che era stato installato prima del loro arrivo, nessuno

ricordava quando, ma funzionava in maniera perfetta, solo di ra-

do veniva un uomo a controllarlo.

Mentre ero lì passò un insegnate (sembrava un’impiegato delle po-

ste, – potrei vedere le note di Pietro….scritte da…- …pensai fra me…).

Cinque anni prima aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole,

gli pareva che lì avessero un orologio antico.

Così pedalai fin laggiù.

Avevano la stessa scatola di plexiglas con le cifre digitali.

Ma mi diedero il numero di telefono dell’ingegnere della scuola.


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Gli parlai qualche giorno dopo, lavorava alla direzione generale del

Genio civile ed era responsabile DELLA MISURAZIONE DEL TEMPO

in gran parte delle scuole di Copenaghen.

Mi raccontò che nel corso degli ultimi vent’anni la società privata

Dansk Tidskontrol era stata incaricata di sostituire la maggior parte

dei vecchi orologi con moderni apparecchi al quarzo, che erano molto

precisi e non richiedevano quasi nessuna regolazione, e quindi funzio-

navano praticamente da soli, senza l’intervento umano.

Ma aveva sentito dire di un paio del vecchio tipo. Alla Helling Kors

e alla Prinsesse Charlottes Gades Skole c’erano ancora le vecchie cam-

panelle. Quelle che si usavano negli anni 60 e 70, e che il tempo aveva

reso obsolete.

Alla Prinsesse Charlotte Gades Skole lo trovai.

Fu il vicedirettore ad accompagnarmi.

Mi sentivo molto piccolo, mentre lui mi parve più vecchio di una

generazione.

In seguito mi resi conto che dovevamo essere coetanei.

L’orologio era appeso molto in alto e lui mi resse la scala.

Era l’orologio che cercavo.

L’orologio che avevo visto e toccato una volta, per un attimo di ven-

tidue anni prima.

Un orologio a pendolo Burk a carica manuale. Aprii il vetro e osser-

vai il meccanismo.

Avrei voluto prendere degli appunti, ma non fu necessario.

Era come lo ricordavo (stesso tempo, stesso ritmo…stesse parole).

Il vicedirettore, l’ingegnere, le segretarie dell’ufficio, l’insegnante

che aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, tutti mi han-

no dimenticato subito dopo avermi incontrato.

Ma mentre eravamo insieme credevano di avere a che fare con

un adulto.

Si sbagliavano.

Stavano parlando con un bambino.

Davanti a loro non avevo pelle, niente per coprirmi. 

Sentivo ogni loro cambiamento di tono, ogni loro sguardo, ne

sentivo la fretta e la cortesia, la distrazione e l’incomprensione.

Loro mi hanno dimenticato cinque minuti dopo che me ne sono

andato, MA IO LI RICORDERO’ PER SEMPRE.

Entrando in una scuola mi calavo nel bambino che ero ventidue

anni fa, e in quella forma incontravo gli adulti. 

Loro erano protetti.

Il tempo li aveva avvolti in una membrana.

Erano spiritosi e frettolosi, e non rimanevano minimamente scal-

fiti dal nostro incontro.

Così era allora, quando andavo ….alla Biehl, così è adesso, e così

sarà sempre.

Intorno agli adulti il tempo si è depositato, con la sua fretta, con

la sua noia, le sue ambizioni, la sua amarezza e i suoi obiettivi a

lungo termine.

Loro non ci vedevano più veramente, e quello che vedono cin-

que minuti dopo l’hanno già dimenticato.

Mentre noi non abbiamo pelle.

E li ricorderemo per sempre.

Andava così….alla Biehl.

Noi ricordavamo ogni espressione del volto, ogni insulto e ogni

incoraggiamento, ogni osservazione buttata lì, ogni segno di po-

tere e di debolezza. Per loro eravamo la quotidianità, per noi

erano senza tempo, cosmici e potenti.

Mi è venuta questa idea: QUANDO PROVI DOLORE, e pensi

che la cosa sta crescendo qui, in laboratorio, è inutile, puoi rea-

gire pensando che forse è anche l’unico modo che hai per dire

come appariva il mondo.


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Cose da adulti.

Cose precise, esatte.

Queste, certo, non mancano.

Anzi, rappresentano tutto quello che ci circonda.

Ma sentire senza pelle è possibile, forse, solo in condizioni simili a

quelle del laboratorio.

(P. Hoeg, I quasi adatti)






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CHICAGO (2)

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chicago 2









(…da chicago.html) Era una macchina della polizia.

Quando se ne andò tirammo un sospiro di sollievo.

Ma i miei guai non erano finiti.

Arrivati all’albergo, il Trenier Hotel fra Oakwood Boule-

vard e South Parkway, un ragazzino mi fermò sul marcia-

piede per dirmi:

– Duke, nell’atrio ci sono un paio di gangster che ti aspet-

tano.

Un altro spavento, ma faceva freddo e mi dissi:

– Be’, che diavolo, stare fuori non serve a niente.

Allora, con aria impassibile infilai la porta, e una volta

nell’atrio non riconobbi nessuno e nessuno riconobbe me.

Presi un ascensore e salii in camera.

Mi tolsi il cappotto dopo aver chiuso la porta, mi misi

a sedere.

– Se ci sono guai nell’aria,

mi dissi,

– Che senso ha mettermi in trappola da solo?

Allora scesi nell’atrio, che era pieno di gente che chiac-

chierava e passava il tempo.

Adocchiai due tipi che avevano l’aspetto di quelli di cui

mi aveva avvertito il ragazzino e con una faccia ancora

più impassibile gli andai incontro.

– Salve,

dissi con un sorriso.

– Cercate me, per caso?

– Chi sei?

– Duke Ellington.

– Ehi, Duke, non ti ricordi? Sono il fratello di Mike Best.

– Certo, come no, ehi, tutto bene?,

dissi, anche se non li avevo mai visti in vita mia.

– Che piacere vederti.

(cercavano o volevano qualcosa, lo sapevo bene, e li a-

spettavo….)

Dopo un po’ di robe così uno di loro mi fa:

– Ci serve un favore. Un nostro compagno è stato ammaz-

zato ieri sera. Vogliamo 200 $ per spedire il suo corpo a

casa.

– Ragazzi, il fratello di Mike Best può avere tutto quello

che ho addosso. Passate in teatro domani. Al momento

non ho contanti in tasca…

– Non possiamo aspettare,

mi interrompono.

– E’ una cosa urgente, noi siamo i migliori, e ci servono

un po’ dei tuoi soldi…. e ci servono adesso!

– Be’, un attimo ragazzi, allora provo a chiederli alla re-

ception.

Ci andai e parlai con Phil, il cassiere, che era il cognato di

Ed Fox, l’uomo che dirigeva il Grand Terrace, l’albergo ac-

canto.

Fox li conosceva bene, ogni stagione lo andavano regolar-

mente a trovare e chiedevano sempre soldi…..

– Phil, mi servirebbero 200 $…….

(prosegue in chicago-3.html)






 

chicago 2


MESSAGGI E MESSAGGERI

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la-mafia-fuori-e-dentro-il-palazzolo.html









L’interpretazione dei segni, dei gesti, di messaggi e dei silenzi

costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore.

E di conseguenza del magistrato.

La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mu-

tismo, è proverbiale.

Nell’ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo.

L’uomo d’onore deve parlare soltanto di quello che lo riguarda

direttamente, solo quando gli viene rivolta una precisa doman-

da e solo se è in grado e ha diritto di rispondere.

Su tale principio si basano i rapporti interni alla mafia e i rap-

porti tra mafia e società civile.

Magistrati e forze dell’ordine devono adeguarsi.

Nei miei rapporti con i mafiosi mi sono sempre mosso con estre-

ma cautela, evitando false complicità e atteggiamenti autoritari

o arroganti, esprimendo il mio rispetto ed esigendo il loro.

E’ inutile andare a trovare un boss in carcere se non si hanno do-

mande precise da porgli su indagini che riguardano la mafia, se

non si è bene informati o se si pensa di poterlo trattare come un 

qualsiasi criminale comune.

I messaggi di Cosa Nostra diretti al di fuori dell’organizzazione –

informazioni, intimidazioni, avvertimenti – mutano stile in funzio-

ne del risultato che si vuole ottenere.

Si va dalla bomba al sorrisetto ironico accompagnato dalla fra-

se:

‘Lei lavora troppo, fa male alla salute, dovrebbe riposare’,

oppure:

‘Lei fa un mestiere pericoloso; io al suo posto, la scorta me la porte-

rei pure al gabinetto‘  

due frasi che mi sono state rivolte direttamente.

Le cartoline e lettere decorate con disegni di bare o con l’even-

tuale data di morte accanto a quella di nascita, e i pacchetti con

proiettili sono riservati generalmente ai novellini, per sondare il

terreno.

Quando la mafia fa telefonate del tipo: ‘La bara è pronta’, accen-

tuando l’inflessione siciliana, ottiene senza alcun dubbio un certo

effetto.

In questo caso facili da interpretare, le minacce tendono a mettere

in moto un processo di autocensura.

Direi anzi che si minaccia qualcuno solo quando lo si ritiene sen-

sibile alle minacce. 

La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi.

Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a un secondo livel-

lo, riuscendo a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parla-

mentari, inducendoli a sollevare dubbi sull’attività di un magi-

strato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a ridurre il per-

sonaggio scomodo al silenzio.

Alla fine ricorre all’attentato.

Il passaggio all’azione è generalmente coronata da successo, da-

to che Cosa Nostra (ed – aggiungo io – i suoi molteplici interessi…)

sa fare il suo mestiere ( cioè è capace….).

Tra i vari attentati falliti, voglio ricordare quello organizzato con-

tro di me nel giugno 1989.

Gli uomini della mafia (ed i servizi….) hanno commesso un gros-

so errore, rinunciando all’abituale precisione e accuratezza pur

di rendere più spettacolare l’attacco contro lo Stato.

Al punto che qualcuno ha concluso che quell’attentato non era

di origine mafiosa (ecco forse il fine…).

Mi sembra che, più banalmente, capita anche ai mafiosi di soprav-

valutare le proprie capacità, sottovalutare l’avversario, voler stra-

fare…

(Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra)







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ERA SEMPRE VITA DA PIANTAGIONE

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era sempre vita da piantagione

 

 







La musica che si faceva, nella seconda metà degli anni 30,

e poco dopo, nelle case di cinque piani allineate lungo la

‘Strada’ era, in linea generale, piuttosto diversa da quella

che suonavano le grandi orchestre nelle sale degli alberghi

e nelle ‘ballrooms’ di New York, di Chicago, di Los Angeles,

e di altre grandi città.

Era più negra, più vicina alle forme del jazz degli anni 20,

e non era destinata al ballo. Tuttavia il divario che separa-

va quel jazz da quello che si era ascoltato una decina di

anni prima nel South Side di Chicago, e più ancora dal

genuino blues, era notevole.

Salvo eccezioni, magari vistose come quelle rappresenta-

te dalle orchestre di Count Basie e di Woody Herman, il

blues aveva soltanto un posto secondario nel 


era sempre vita da piantagione


repertorio delle formazioni swing, e lo si poteva riconoscere di

solito nelle armonie e nella struttura di alcuni pezzi strumenta-

li, piuttosto che nello spirito delle esecuzioni.

Per sentire nuovamente dell’autentico blues del South Side chi-

cagoano e, prima ancora, del Sud-Ovest – si dovette attendere

la riscoperta del boogie woogie e il grande successo che i miglio-

ri suoi esponenti riportarono alla Carnegie Hall e che si ripeté

durante la loro permanenza al Cafè Society, nel Greenwich

Village, un locale frequentato dalle celebrità.

 

era sempre vita da piantagione


Nel Village, il jazz più autentico, e più precisamente il Dixie-

land, trovò un altro sicuro rifugio, sul finire degli anni 30, in

un locale gestito da Nick Rongetti, il Nick’s. 

Lì finirono per ritrovarsi molti dei musicisti che avevano im-

parato a suonare il jazz a Chicago una quindicina di anni pri-

ma, e che avevano  ora il loro condottiero in Eddie Condon.

 

era sempre vita da piantagione


Sempre nel Village, al Café Society, si cominciarono anche a

presentare, proprio in quel periodo, dei jazzmen negri assie-

me ai bianchi, anticipando una prassi che si sarebbe genera-

lizzata nella 52a Strada solo più tardi. 

Più tempo ci volle, sia nel Village che nella ‘Swing Street’,

perché mutasse anche la politica di questi locali per quanto

riguarda il colore della pelle dei loro clienti, che per anni,

salvo eccezioni, doveva essere necessariamente bianco.

  

era sempre vita da piantagione


Soltanto nel 1942-43 i pregiudizi dei gestori dei clubs (e dei clienti

bianchi) nei confronti del pubblico di pelle scura poterono consi-

derarsi in larga misura superati. 

Ricordando gli anni in cui era una delle vedettes della 52a Strada,

Billie Holiday ha avuto parole amare su questo argomento:

 

era sempre vita da piantagione


‘Non c’era cotone da raccogliere tra il Leon & Eddie’s e l’East

River, ma, credetemi, da qualunque punto di vista la guarda-

ste, era vita di piantagione.

E noi non andavamo lì per guardare; dovevamo viverci.

Fraternizzare coi bianchi era proibito nel modo più assoluto:

appena finito il nostro numero, ci toccava scappar via dalla

porta posteriore e metterci a sedere nel vicolo, fuori’. 

Un giorno Billie fu licenziata, insieme con Teddy Wilson, 

perché si era trattenuta al tavolo con Charlie Barnet, che

veniva spesso a farle visita. 

La discriminazione in atto nei locali jazzistici ebbe notevoli

conseguenze sia sull’atteggiamento degli artisti negri che sul-

la qualità della loro musica. 

 

era sempre vita da piantagione


Soprattutto durante l’era dello swing, in cui videro allargarsi smi-

suratamente il loro pubblico e aumentare conseguentemente, an-

che se non in proporzione, i loro guadagni, molti musicisti negri

furono tentati di assumere verso i bianchi che li ascoltavano un

atteggiamento compiacente, fondamentalmente servile, che i lo-

ro più dignitosi fratelli di razza definiscono con disprezzo ‘zio

Tommismo’. 

 

era sempre vita da piantagione


Nel mondo del jazz, fare lo zio Tom non significa soltanto dare

al pubblico bianco ciò che questo vuole, ma recitare la parte del

negro visto secondo l’ottica distorcente del pregiudizio razziale,

proprio come i negri furono costretti a fare negli spettacoli dei

minstrels.

Significa presentarsi dinanzi all’auditorio con l’aria e gli atteg-

giamenti del negro infantile, allegro, che riconosce con letizia la

propria inferiorità.

Significa anche presentare la propria musica come qualcosa di

deteriore, di scarsamente importante, che serve solamente a far

passare qualche ora di allegria.

(A. Polillo, Jazz)




 

 

era sempre vita da piantagione

  

GLI UNNI

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gli unni








Il popolo degli Unni,                                                        

poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche

lungo l’Oceano glaciale e supera ogni limite di barbarie.

Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un col-

tello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba,

quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle ru-

ghe delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e

simili ad eunuchi.

Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente

brutti e curvi, tanto che si potrebbe ritenere animali bipedi o si-

mili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui

parapetti dei ponti.

Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così

rozzi nel tenor di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi

conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne se-

micruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tem-

po fra le loro cosce ed l dorso dei cavalli.

Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come

tombe separate dalla vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio

con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano

attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sop-

portare geli,  fame e sete.

Quando sono lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a

meno che  non siano costretti da estrema necessità né ritengo-

no di essere al sicuro trovandosi sotto ad un tetto.

Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici,

né dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori.

Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di co-

lore appassito, non la depongono né la mutano  finché, logo-

rata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli.

Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli

caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedente-

mente modellate, impediscono di camminare liberamente.

Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi,

ma inchiodati, per così dire, su  cavalli forti, anche se de-

formi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, atten-

dono alle consuete occupazioni.

Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa

gente acquista e vende, mangia e beve, appoggiato sul corto

collo del cavallo, si addormenta così profondamente da ve-

dere ogni varietà di sogni. 

E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti,

tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli inte-

ressi comuni.

Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma,

contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò

che si oppone a loro.

Combattono alle volte se sono provocati ed ingaggiano bat-

taglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci.

E come sono armati alla leggera ed assaltano all’improvviso

per essere veloci, così, disperdendosi a bella posta in modo

repentino, attaccano e corrono qua e là in disordine e provo-

cano gravi stragi.

Senza che nessuno li veda, grazie all’eccissiva rapidità attac-

cano il vallo e saccheggiano l’accampamento nemico.

Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i più

terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con

giavellotti forniti, invece d’una punta di ferro, di ossa aguzze

che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percor-

so rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lot-

tano a corpo a corpo con la spada senz’alcun riguardo per la

propria vita.

Mentre i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli

scagliano su di loro lacci in modo che, legate le membra de-

gli avversari, tolgono loro  la possibilità di cavalcare o di

camminare.

Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro.

Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o

una legge o uno stabile tenor di vita.

Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono

loro da abitazione. Quivi le mogli tessono loro le orribili vesti,

qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono ed allevano i fi-

gli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine, nessu-

no può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lonta-

no da quello in cui è stato concepito ed in una località diversa

è stato allevato. 

Sono infidi ed incostanti nelle tregue, mobilissimi ad ogni sof-

fio di una nuova speranza  e sacrificano ogni sentimento ad

un violentissimo furore.

Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il

bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando  parlano, né

mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizio-

ne, ma ardono  d’una immensa avidità d’oro.

A tal punto mutevoli di temperamento e facili all’ira che

spesso in un sol giorno, senza alcuna provocazione, più

volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza biso-

gno che alcuno li plachi, si rappacificano.

(Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri)






 

gli unni

UN BUSINESS CHE SPARA (2)

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un business che spara 2








– ….. Commovente. Non lo sapevo. E Vito Genovese, il don

Vito Genovese descritto da Mario Puzo che aveva quella

curiosa morale:

‘Può rubare più un avvocato con le sue scartoffie di mille

uomini armati di pistola’,

lo hai mai visto?

– Lo conoscevano i nostri padri, perché lo incontravano per

strada, viveva nel quartiere. Era molto gentile, non attacca-

va briga, non cercava di farsi notare. Tutti lo rispettavano.

Per Natale faceva regali, pacchi e cestini, e aiutava a sfama-

re le famiglie bisognose. Nessuno manifestava mai sentimenti

di ostilità nei suoi confronti.

– Ma perché lo hanno condannato? Pare fosse impegnato nel

gioco, nelle corse, nei sindacati, sembra che la sua potenza si

facesse sentire anche a Hollywood.

– A noi non ha mai fatto del male, non ha mai fatto nulla con-

tro gli italiani della comunità. Non so quale fosse il suo lavo-

ro; forse era contrario al modello di vita che il governo voleva

imporre. Fu ritenuto colpevole in base alla deposizione di un

unico testimone; giurò che Vito vendeva stupefacenti ed era

un grosso trafficante di droga.

Ma non è vero…..

Può darsi che abbia fatto altre cose, ma quella no!

Tra noi, polverine e siringhe non circolavano. Se qualcuno

ne faceva uso o c’era in mezzo, veniva guardato con sospet-

to e spesso anche punito: non volevamo che quella merce

penetrasse nel nostro quartiere, ed era Genovese che control-

lava. Accadde nel 1960, e nel giudizio erano coinvolte 17

persone, tra le quali mio fratello Vincent. Particolare strano:

il caso scoppiò clamorosamente all’avvicinarsi della Conven-

zione repubblicana.

Si sbarazzarono di Vito Genovese, ma non riuscirono a pro-

vare nulla.

– Quando morì, ai funerali ci fu un solo prete: LEI!

– Già. Fu una bella messa, con tanti poliziotti attorno e mol-

ti osservatori che prendevano nota di chi arrivava e dei ma-

fiosi presenti.

MA LEI SA, E’ VERO, CHE LA MAFIA NON ESISTE?

(prosegue in un-business-che-spara-3.html)

(E. Biagi, America)





 

un business che spara 2

L’ETERODOSSIA DI LESTER E LA VOCE DI BILLIE

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In un suo approfondito saggio sulla cantante, Demètre Ioakimidis

scrisse:


Possiamo trovare nelle incisioni di Billie del periodo 1935/40

tutti i procedimenti per mezzo dei quali essa trasformava una

melodia: l’accentanzione di certe note, che faceva precedere da

brevi silenzi che attiravano su di esse l’attenzione; l’affrancamen-

to, in rapporto al tempo della frase, cominciata generalmente con

un leggero ritardo su quello; un effetto da cui la Holiday ricavava

un considerevole swing; le improvvise opposizioni dei registri; o

la combinazione di questi due ultimi effetti.

Per tutta la durata di queste registrazioni, si resta colpiti dal mo-

do in cui Billie Holiday ‘pensa’ o ‘sente’ i suoi vocali: ella lo fa

molto più alla maniera d’uno strumentista che a quella di una

cantante, tanto che quando, in ‘She funny that way’, ella segue

Lester Young, sembra continuare il pensiero musicale di quest’-

ultimo.

 

lester & billie


Intanto nel 1934 Lester Young, mentre si trovava con la for-

mazione di Basie a Little Rock, ricevette un’offerta da Fletcher

Handerson che lo invitava a prendere il posto lasciato vacante

da Coleman Hawkins, partito per l’Europa.

Era un’offerta allettante per vari motivi: si trattava infatti di

sostituire, per una paga adeguata, il più famoso tenorsassofo-

nista del mondo in un’orchestra che aveva un passato glorioso.

Non si poteva rifiutare.

Con la benedizione di Basie, Lester partì allora alla volta di New

York, per sottoporsi a un’audizione al Cotton Club. Era presente

Hammond, che si entusiasmò subito, come gli capitava frequen-

tamente:


Pensavo che fosse il più grande tenore che avessi mai sentito.

Ricordò poi, Era così diverso dagli altri.

Ci fu una scena penosa. Tutti gli uomini dell’orchestra avreb-

bero voluto che Hawkins fosse rimpiazzato da Chu Berry, per-

ché Chu aveva un suono simile a quello di Hawkins.

Lamentavano che il suono di Lester somigliava a quello di un

alto. Buster Bailey, Russell Procope e John Kirby mi diedero

sulla voce, quel giorno.


lester & billie

 

Henderson volle tentare egualmente.

Sua moglie, Leora, si fece un dovere di svegliare ogni matti-

na di buon’ora la recluta, che era venuta ad abitare con loro,

per farle ascoltare i dischi di Hawkins nella speranza che im-

parasse ad imitare il suo stile.

Ma Lester tenne duro:


Io volevo suonare alla mia maniera – disse poi – ma stavo e-

gualmente ad ascoltare. Non volevo offenderla.


Quando venne la grande ora di Basie, che lasciata Kansas

City, si trasferì prima a Chicago e poi a New York, il nome

di Lester Young fu conosciuto da un largo pubblico.

La voce nasale del suo sassofono cominciò a essere registrata

sui dischi nel 1936: i primi da lui realizzati furono quelli inci-

si a Chicago, semiclandestinamente, da un gruppo di basiani

nascosti sotto il nome di Jones-Smith Inc.

Ascoltati ora, rivelano che Lester era già musicista del tutto

maturo, e originalissimo; allora sollevarono molte critiche, per

la sua eterodossia, della sua voce strumentale, che sembrava

troppo leggera, snervata.

Negli anni in cui rimase nella formazione di Basie, Lester 

Young partecipò alla registrazione di molti dischi e attraversò

il periodo più felice della sua carriera. Gli giovò certamente la

disciplina di una grande orchestra, e lo rincuorò l’affettuosa

amicizia di Billie Holiday, che per qualche tempo lo consolò

del naufragio del suo matrimonio e fu una sua ardente soste-

nitrice…….

(A. Polillo, Jazz)






 

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