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Dal 1912 al 1951 il Tibet ebbe modo di godere, si può dire per quattro
decenni, un’indipendenza che non aveva conosciuto da lunghissimo
tempo.
Il XIII Dalai Lama, personalità complessa, pensosa, accentratrice, si
rivelò col tempo molto abile nel giocare l’una contro l’altra le due
forze (Inghilterra e Cina) che minacciavano perennemente di limitare
l’indipendenza del suo paese.
Agli inglesi concesse quel tanto di apertura che bastava ad assicurare
rapporti diplomatici e commerciali vantaggiosi per ambedue; coi
cinesi, che nel 1917 tentarono ancora una volta di invadere il Tibet,
fu molto fermo, sconfiggendoli più volte.
Il confine tra Tibet orientale e Cina, se rimase maldefinito per le
immense difficoltà opposte dalla natura alpina del territorio ad
una sua demarcazione sul terreno, arrivò a coincidere più o meno
con quello etnico, tenendo tibetofoni lamaisti da un lato e sinofoni
confuciani dall’altro.
La morte del XIII Dalai Lama venne unanimamente compianta dai
tibetani; dall’epoca del Gran Quinto, duecento anni prima, non si
erano mai sentiti guidati da una mano tanto saggia, ferma, equilibrata.
La ricerca del XIV Dalai Lama fu lunga e laboriosa; il candidato venne
scoperto nel 1937 e condotto a Lhasa nel 1940.
Intanto, a reggente, era stato eletto l’abate di Reting, giovane e in
qualche modo progressista. Le sue idee parvero troppo avanzate a
molti conservatori; fu quindi costretto a dimettersi, e poco dopo
morì in circostanze oscure.
Il suo posto venne preso allora dall’abate di Takta, il quale si trovò
di fronte a una situazione internazionale difficilissima.
Gli inglesi si erano ritirati dall’India nell’agosto del 1947, e il Tibet
restava isolato di fronte alle dure e sempre rinnovate rivendicazioni
cinesi.
L’India ereditava fomalmente i trattati inglesi col Tibet, ma era gravata
da problemi interni di tale entità da dover abbandonare, in pratica
il Tibet al suo destino.
Intanto in Cina il regime ormai debole e corrotto del Kuomintang,
guidato da Chang Kai-shek, aveva dovuto cedere all’avanzata dei
comunisti di Mao Tse-tung (1949).
Chang Kai-shek ed i suoi seguaci presero rifugio nell’isola di Taiwan;
ma ben presto il nuovo governo comunista si espresse in modo
inequivocabile – considerava il Tibet parte integrante del territorio
cinese.
Un personaggio come Mao Tse-tung diviene più facilmente com-
prensibile se lo si assimila ad una figura archetipa della storia
cinese, il cui prototipo risale a Shih Huang (246-210 a.C.): cioè il
Fondatore di Dinastia.
Tale individuo eccezionale si leva sui contemporanei come una
montagna, si trova al di là e al di sopra di ogni giudizio comune,
e gode di un carisma più divino che umano, poiché dimostra nella
sua persona e col suo successo d’avere ottenuto l’indefinibile bene-
dizione del Mandato Celeste. Che in questo particolare caso si trat-
tasse di un comunista, presumibilmente ateo, non ha importanza;
gli archetipi non poggiano su basi razionali, funzionano nel pro-
fondo irrazionale, emotivo e segreto degli uomini, e si nutrono di
occulte linfe del passato vicino e lontano.
Che la dinastia appena iniziata si trasmetta il potere per cooptazioni,
elezioni o altro, invece che per seme ereditario, è circostanza contin-
gente.
Ciò che importa è che la nuova dinastia comporti rigenarazione so-
ciale profonda, da un lato, e riaffermazione della grandezza cinese
dall’altra.
Il Kuomintang aveva perso il mandato celeste perché lo si giudicava
corrotto, debole, rinunciatario, troppo legato agli stranieri. I comunisti
promettevano palingenesi sociale e grandeur per la patria.
A loro andò il Mandato.
Come s’è già visto, la Cina considera suoi quei territori sui quali,
in qualche momento della millenaria storia, ha esercitato una
qualsiasi forma di sovranità.
Era ovvio dunque che la nuova dinastia pensasse al più presto di
riportare le bandiere, questa volta senza draghi ma con stelle falce
e martello, sui confini di tutte le regioni periferiche, compresi il
Sinkiang e il Tibet, anche se abitate da genti diversissime dagli
Han.
Le contraddizioni profonde, stridenti, tra idea imperiale e idea
comunista non si presentavano neppure alla soglia di quelle menti.
La nuova dinastia era solo incidentalmente comunista, prima di
tutto era cinese.
(Fosco Maraini, Segreto Tibet)