CATTURATO IN TIBET

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l’invasione 2

La genesi in:

il giardino dell’eden 11

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catturato in Tibet

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i miei libri

Frammenti in rima

 

catturato in tibet

 

 




Ancora una volta, nel momento del bisogno i tibetani scoprivano

di essere soli.

Proprio come nel 1910, quando i Manchu invasero il Tibet, il loro

appello cadde nel vuoto.

Fu dall’Inghilterra, a lungo considerato un paese amico e un pro-

tettore contro i cinesi, che si sentirono particolarmente traditi.

Ciò che è peggio, il governo britannico sembrava aver dato un

riconoscimento ‘de facto’ al nuovo regime di Pechino.

 

catturato in tibet


‘Significa forse’ fu chiesto a Ford dai funzionari tibetani ‘che

gli inglesi sono diventati amici dei comunisti?’.

L’unica cosa che a Ford riuscì di fare, nel suo zoppicante ti-

betano , fu di cercare di spiegare il significato dell’espressione

‘de facto’. Non voleva dire che al governo britannico piacessero

i comunisti. 

‘Assolutamente’ li rassicurò.

‘Ma non vede quale vantaggio ci sia nel fingere che non esistano’.


catturato in tibet


Dopo aver conquistato gran parte del Tibet orientale e una fet-

ta consistente di quello occidentale, gli invasori si fermarono e

controllano il territorio. Aspettavano senza dubbio di vedere

le reazioni del mondo alla loro incursione e speravano anche

che i tibetani si rendessero conto della futilità di ogni ulteriore

resistenza, permettendo quindi che l’occupazione proseguisse

in modo pacifico.

A Lhasa, il governo consultò ansiosamente gli oracoli di Stato

per sapere cosa fare.

 

catturato in tibet


Per effetto di ciò, sebbene non avesse ancora raggiunto la

maggiore età, con una mossa senza precedenti il giovane

Dalai Lama fu invitato a prendere nelle sue mani la guida 

del paese. Dopo un lungo esame interiore, poiché era fin 

troppo consapevole della propria inesperienza nelle que-

stioni terrene, il giovane Dio-Re accettò.

Fu attorno a questo periodo che i già disillusi tibetani rice-

vettero un altro shock. Il giorno dell’invasione cinese si era-

no appellati alle Nazioni Unite chiedendo aiuto.

Ora appresero che l’Assemblea Generale aveva deciso di non

prendere neppure in considerazione il loro caso.

 

catturato in tibet


Come se non bastasse, tale decisione fu in gran parte dovuta al-

l’argomentazione britannica che il preciso statuto legale del

Tibet era incerto. Considerando che per più di trent’anni la Gran

Bretagna aveva trattato il Tibet come un paese che godeva di

un’indipendenza ‘de facto’, i tibetani trovarono tale atteggia-

mento inispiegabile, se non del tutto ipocrita. 

Non si dovevano stupire più di tanto, l’ipocrisia è la moneta 

di quello stato coloniale che curava altri interessi.

 

catturato in tibet


L’imbarazzante problema del Tibet fu in tal modo accantonato

dal mondo civile, solo per essere riesumato nove anni più tardi,

quando i tibetani cercarono penosamente di emanciparsi dal

giogo maoista.

(Peter Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)






 

 

catturato in tibet

     

L’INDIPENDENZA (1)

Prosegue in:

l’invasione 2

La genesi in:

il giardino dell’eden (11)

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

 

 

l'indipendenza 1

 

 

 

 

 

 

 

Dal 1912 al 1951 il Tibet ebbe modo di godere, si può dire per quattro

decenni, un’indipendenza che non aveva conosciuto da lunghissimo

tempo.

Il XIII Dalai Lama, personalità complessa, pensosa, accentratrice, si

rivelò col tempo molto abile nel giocare l’una contro l’altra le due

forze (Inghilterra e Cina) che minacciavano perennemente di limitare

l’indipendenza del suo paese.

 

l'indipendenza 1

 

Agli inglesi concesse quel tanto di apertura che bastava ad assicurare

rapporti diplomatici e commerciali vantaggiosi per ambedue; coi

cinesi, che nel 1917 tentarono ancora una volta di invadere il Tibet,

fu molto fermo, sconfiggendoli più volte.

Il confine tra Tibet orientale e Cina, se rimase maldefinito per le

immense difficoltà opposte dalla natura alpina del territorio ad

una sua demarcazione sul terreno, arrivò a coincidere più o meno

con quello etnico, tenendo tibetofoni lamaisti da un lato e sinofoni

confuciani dall’altro.

 

l'indipendenza 1

 

La morte del XIII Dalai Lama venne unanimamente compianta dai

tibetani; dall’epoca del Gran Quinto, duecento anni prima, non si

erano mai sentiti guidati da una mano tanto saggia, ferma, equilibrata.

La ricerca del XIV Dalai Lama fu lunga e laboriosa; il candidato venne

scoperto nel 1937 e condotto a Lhasa nel 1940.

 

l'indipendenza 1

 

Intanto, a reggente, era stato eletto l’abate di Reting, giovane e in

qualche modo progressista. Le sue idee parvero troppo avanzate a

molti conservatori; fu quindi costretto a dimettersi, e poco dopo

morì in circostanze oscure.

Il suo posto venne preso allora dall’abate di Takta, il quale si trovò

di fronte a una situazione internazionale difficilissima.

Gli inglesi si erano ritirati dall’India nell’agosto del 1947, e il Tibet

restava isolato di fronte alle dure e sempre rinnovate rivendicazioni

cinesi.

 

l'indipendenza 1

 

L’India ereditava fomalmente i trattati inglesi col Tibet, ma era gravata

da problemi interni di tale entità da dover abbandonare, in pratica

il Tibet al suo destino.

Intanto in Cina il regime ormai debole e corrotto del Kuomintang,

guidato da Chang Kai-shek, aveva dovuto cedere all’avanzata dei

comunisti di Mao Tse-tung (1949).

Chang Kai-shek ed i suoi seguaci presero rifugio nell’isola di Taiwan;

ma ben presto il nuovo governo comunista si espresse in modo

inequivocabile – considerava il Tibet parte integrante del territorio

cinese.

 

l'indipendenza 1

 

Un personaggio come Mao Tse-tung diviene più facilmente com-

prensibile se lo si assimila ad una figura archetipa della storia

cinese, il cui prototipo risale a Shih Huang (246-210 a.C.): cioè il

Fondatore di Dinastia.

Tale individuo eccezionale si leva sui contemporanei come una

montagna, si trova al di là e al di sopra di ogni giudizio comune,

e gode di un carisma più divino che umano, poiché dimostra nella

sua persona e col suo successo d’avere ottenuto l’indefinibile bene-

dizione del Mandato Celeste. Che in questo particolare caso si trat-

tasse di un comunista, presumibilmente ateo, non ha importanza;

gli archetipi non poggiano su basi razionali, funzionano nel pro-

fondo irrazionale, emotivo e segreto degli uomini, e si nutrono di

occulte linfe del passato vicino e lontano. 

 

l'indipendenza 1

 

Che la dinastia appena iniziata si trasmetta il potere per cooptazioni,

elezioni o altro, invece che per seme ereditario, è circostanza contin-

gente.

Ciò che importa è che la nuova dinastia comporti rigenarazione so-

ciale profonda, da un lato, e riaffermazione della grandezza cinese

dall’altra.

Il Kuomintang aveva perso il mandato celeste perché lo si giudicava

corrotto, debole, rinunciatario, troppo legato agli stranieri. I comunisti

promettevano palingenesi sociale e grandeur per la patria.

A loro andò il Mandato.

 

l'indipendenza 1

 

Come s’è già visto, la Cina considera suoi quei territori sui quali,

in qualche momento della millenaria storia, ha esercitato una

qualsiasi forma di sovranità.

 

l'indipendenza 1

 

Era ovvio dunque che la nuova dinastia pensasse al più presto di

riportare le bandiere, questa volta senza draghi ma con stelle falce

e martello, sui confini di tutte le regioni periferiche, compresi il

Sinkiang e il Tibet, anche se abitate da genti diversissime dagli

Han. 

Le contraddizioni profonde, stridenti, tra idea imperiale e idea 

comunista non si presentavano neppure alla soglia di quelle menti.

La nuova dinastia era solo incidentalmente comunista, prima di

tutto era cinese.

(Fosco Maraini, Segreto Tibet)

 

 

 

 

 

l'indipendenza 1

   

LA GENESI (12)

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il giardino dell’eden 11

Prosegue in:

la genesi 13

Da:

i miei libri

Frammenti in rima &

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il giardino

dell’eden

Giuliano Lazzari &

Pietro Autier


 

la genesi 12







……E di seguito a riempire le successive cinque pagine e

quasi altrettanti anni, il lento e giornaliero incremento

di paghe corrisposte e cibo e vestiario – melassa e carne

e farina di mais e camicie resistenti da quattro soldi e

jeans e scarpe e occasionalmente una giacca contro la

pioggia e il freddo – inscritti sull’ammontare del bilan-

cio in lento ma costante aumento (e sembrava al ragaz-

zo di vedere davvero davanti a sé il nero, lo schiavo

che il proprietario bianco aveva manomesso per sem-

pre in virtù di quello stesso atto da cui il nero non si sa-

rebbe mai potuto liberare finché durava il ricordo, che

entrava nello spaccio magari chiedendo al figlio del bi-

anco il permesso di vedere la pagina del registro che

tanto non sapeva leggere, senza nemmeno mettere in

questione la parola del bianco, che doveva accettare

per la ragione che non c’era per lui nessun modo al

mondo di verificarla, circa lo stato del conto, e quan-

to mancava ancora al momento in cui avrebbe potuto

andarsene per non tornare mai più, anche se solo fi-

no a Jefferson, a 27 chilometri di lì) fino al doppio

tratto di penna che chiudeva l’ultima annotazione:

 

la genesi 12


3 Nov 1841 In contanti a Thucydus McCaslin $200

dolari Sistemato come maniscalco a J. Dic 1841

Mortto e sepelito a J. 17 feb 1854


Eunice Comprata da Papà a New Orleans 1807 $650.

dolari. Sposata a Thucydus Annegata nel Torente

Giorno di Natale 1832




 

la genesi 12


LA GENESI (8) (Rinunciare….)

Precedenti capitoli:

la genesi 7 &

l’ordine divino

Prosegue in:

la genesi 9 &

la genesi 10

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

 

 

la genesi 8

 

 

 

 

 

 

‘Rinunciare’ disse McCaslin. ‘Rinunciare.

Tu, discendente maschio diretto di colui che ebbe l’occasione

e la colse, comprò la terra, prese la terra, acquisì la terra non

importa come, e la mantenne per passarla in eredità, non im-

porta come, grazie alla vecchia concessione, la prima licenza,

quando era una distesa selvaggia di animali selvaggi e uomi-

ni più selvaggi ancora, e la disboscò e la convertì in qualcosa

da lasciare ai figli, che meritava di essere lasciata per il benes-

sere e la sicurezza e l’orgoglio dei suoi discendenti e a perpe-

tuazione del suo nome e della sua opera.

 

la genesi 8

 

Non solo il discendente maschio ma l’ultimo e unico discen-

dente in linea maschile e di terza generazione, mentre io so-

no non solo a quattro generazioni dal vecchio Carothers,

ma alla sua discendenza appartengo per via di una donna

e di McCaslin che porto per cognome è mio solo per la tol-

leranza e la cortesia e l’orgoglio di mia nonna per tutto quel-

lo che ha compiuto quell’uomo, la cui eredità e monumento

tu credi di poter ripudiare’

…..e lui

‘Non posso ripudiarla. Non è mai stata mia per ripudiarla.

Non è mai stata di mio padre né di zio Buddy perché la las-

ciassero a me per ripudiarla perché non è mai stata del

Nonno per passarla a loro che la passassero a me per ripu-

diarla perché non è mai stata del vecchio Ikkemotubbe per

venderla al Nonno per il passaggio e il ripudio. Perché non

 

la genesi 8

 

è mai stata dei padri dei padri di Ikkemotubbe per passarla

a Ikkemotubbe per passarla a Ikkemotubbe per venderla al

Nonno né a nessuno, perché nell’istante in cui Ikkemotubbe

scoprì, si rese conto di poterla vendere per denaro, in quell’-

istante una volta per tutte e per sempre smise di essere sua

di padre in padre in padre, e l’uomo che la comprò non com-

prò niente’.

‘Non comprò niente?’

e lui

‘Niente. Perché nel Libro Lui ha detto che creò la terra la fe-

ce e la guardò e vide che andava bene, e allora fece l’uomo.

Fece prima la terra e la popolò di creature prive di parola e

poi creò l’uomo perché fosse il Suo sovrintendente in terra

e in Suo nome avesse la sovranità sulla terra e sugli animali,

non per sé e per i suoi discendenti, titolo di proprietà in eter-

no inviolabile, generazione dopo generazione, fino ai rettan-

goli e ai riquadri della terra, ma per mantenere la terra indi-

visa e intatta nella comune anonimità della fratellanza, e

come compenso non chiese altro che pietà e umiltà e tolleran-

za e pazienza e il sudore della fronte.

 

la genesi 8

 

E so cosa dirai’

disse:

‘Ciò nonostante il Nonno’

e McCaslin

‘….la possedeva. E non per primo. Non da solo e non per pri-

mo visto che, come enuncia la tua Autorità, l’uomo fu espro-

 priato dell’Eden. E neppure per secondo e tantomeno da solo,

e così procedendo lungo la monotona e misera cronaca dei Su-

oi eletti discesi da Abramo e dei figli di chi espropriò Abramo,

e lungo i cinquecento anni nell’arco dei quali metà del mondo

conosciuto, e tutto ciò che conteneva, fu patrimonio di una so-

la città, come questa piantagione e la vita che conteneva finché

visse tuo nonno furono patrimonio inalienabile di questo spac-

cio e di quei libri mastri lassù, e nei successivi mille anni duran-

te i quali gli uomini si azzuffarono sui frammenti di quel crollo,

finché persino i frammenti finirono per esaurirsi e la gente ora

ringhiava sulle ossa spolpate del tramonto indegno del vecchio

mondo finché accidentalmente un uovo dischiuse loro un nuo-

vo emisfero.

 

la genesi 8

 

Così lascia che dica: ciò nonostante e malgrado, il vecchio Ca-

rothers la possedette. La comprò, se la prese, poco importa; la

tenne, la mantenne, poco importa; la trasmise; se no perché sa-

resti qui a rinunciare e ripudiare?

La tenne, la mantenne per cinquant’anni perché tu potessi ri-

pudiarla, mentre Lui – Arbitro, Architetto, Giudice – condonò –

o no? guardò giù e vide – o no? o quanto meno non fece nulla:

vide, e lasciò perdere, forse non voleva vedere – perverso, im-

potente, o cieco: chissà?’

e lui

‘Espropriato’ e McCaslin

‘Che cosa?’

e lui

‘Espropriato. Non impotente: Lui non condonò. E non cieco,

perché vegliava. E lascia che lo dica: espropriato dell’Eden.

Espropriato di Canaan, e chi l’aveva espropriato aveva espo-

priato Lui espropriato, e i cinquecento anni di padroni assenti

dalle loro terre per i bordelli, e i mille anni di selvaggi arrivati

dalle selve nordiche che li espropriano e divorarono i loro be-

ni rapinati, rapinati a loro volta, per poi restare a disputarsi

ringhianti le ossa spolpate del vecchio mondo in quello che

hai chiamato il crepuscolo indegno del vecchio mondo, bla-

sfemi in Suo nome finché Egli si servì di un semplice uovo

per rivelare loro un nuovo mondo dove nell’umiltà e nella

pietà e nella tolleranza e nell’orgoglio dell’uno per l’altro

potessero fondare una nazione di genti.

E ciò nonostante e malgrado la terra era del Nonno perché

Egli lo permise, né impotente né condonate né cieco perché

metteva ordine e sorvegliava. Vide la terra già dannata quan-

do la tenevano Ikkemotubbe e il padre di Ikkemotubbe, il vec-

chio Issetibbeha, e i padri del vecchio Issetibbeha, già conta-

minata prima ancora che l’avesse l’uomo bianco grazie a quel-

lo che il Nonno e la sua stirpe, i suoi padri, s’erano portati con

sé nel nuovo paese che Lui gli aveva concesso per pietà e tolle-

ranza, a condizione di pietà e umiltà e tolleranza e pazienza,

da quel crepuscolo corrotto e indegno del vecchio mondo, por-

tandoselo per così dire nelle vele spiegate dal vento contami-

nato del vecchio mondo che spingeva le navi…’

(prosegue in la genesi 9)

 

 

 

 

la genesi 8

 

L’UOMO E LA NATURA (dedicata ad un uomo ‘saputo’ e falsamente ‘arguto’)

Precedenti capitoli:

l’ordine-divino.html &

la genesi 3

Prosegue in:

la genesi 5

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l'uomo e la natura (2)

 

 

 





Oggi che il nostro predominio sulla natura sembra quasi totale,

un gran numero di commentatori sono pronti a riandare con

nostalgia a periodi precedenti in cui esisteva un miglior equili-

brio nella natura.

Ma in Inghilterra sotto i Tudor e gli Stuart l’atteggiamento tipi-

co era di esaltazione per quel predominio sulla natura tanto fa-

ticosamente conquistato.

La dominazione dell’uomo sulla natura era l’ideale orgogliosa-

mente proclamato dagli scienziati dell’inizio dell’età moderna.

Eppure, nonostante il linguaggio figurato aggressivamente di-

spotico dei loro discorsi sul ‘possesso’, il ‘dominio’, la ‘conquista’,

essi, grazie a generazioni d’insegnamento cristiano, erano con-

vinti che il loro compito, sotto il profilo morale, fosse assoluta-

mente innocente.

“Non ha mai fatto del male a nessuno”, – affermava Bacone –

“non ha mai gravato di rimorsi nessuna coscienza”.

(……) Le inibizioni relative al trattamento inflitto alle altre spe-

cie venivano respinte dal pensiero che esisteva una differenza

fondamentale tra l’uomo e le altre forme di vita.

La giustificazione di questa convinzione risaliva, di là del cri-

stianesimo, ai greci.

Secondo Aristotele, l’anima comportava tre elementi: un’anima

nutritiva, comune all’uomo e ai vegetali, un’anima sensitiva, co-

mune all’uomo e agli animali, e un’anima intellettuale o raziona-

le, peculiare dell’uomo.

Questa dottrina fu ripresa dalla scolastica medievale e si fuse

con l’insegnamento giudaico cristiano secondo il quale l’uomo è

fatto a immagine e somiglianza di Dio (Genesi, 1.27).

Anziché presentare l’uomo come un puro e semplice animale su-

periore, essa lo innalzava a uno stato completamente diverso, a

mezza strada tra la bestia e l’angelo. All’inizio dell’età moderna

questa dottrina non era priva di una buona dose di autocompia-

cimento.

L’uomo, si diceva, era più bello e il più perfettamente formato

degli animali. C’era ‘più maestà divina nel suo aspetto’ e ‘una

più squisita simmetria nelle sue parti’.

(……..) Questa particolare attitudine dell’uomo al libero arbitrio e

alla responsabilità morale sfociavano in un’altra differenza, se-

condo i teologi la più decisiva. Non si trattava della ragione che,

dopo tutto, le creature inferiori, in qualche misura, condivideva-

no con l’uomo, ma della religione.

Diversamente dagli animali, l’uomo era dotato di coscienza e

d’istinto religioso. Egli aveva anche un’anima immortale, men-

tre gli animali perivano e la vita futura era loro negata.

Non era il caso di dolersene: ‘La vita di una bestia’, secondo un

predicatore del 600, era effettivamente ‘abbastanza lunga per

una vita da bestia’.

L’idea che gli animali possano essere immortali, diceva nel 1695

un altro predicatore, è ‘di un’assurdità sconvolgente’.

Nel 600 il tentativo più notevole di accentuare al massimo gra-

do questa differenza fu una dottrina formulata originariamente

da un medico spagnolo, Gomez Pereira, nel 1554, ma sviluppata

indipendentemente e resa famosa, a partire dagli anni 30 del se-

colo, da Renato Cartesio. Secondo tale dottrina gli animali sono

delle semplici macchine o automi, simili a degli orologi, capaci

di un comportamento complesso ma totalmente incapaci di par-

lare, di ragionare o, secondo alcune interpretazioni, addirittura

di avere sensazioni.

Per Cartesio anche il corpo umano è un automa; dopo tutto esso

compie numerose funzioni involontarie, come quella della dige-

stione.

La differenza è che, all’interno della macchina uomo, c’è una

mente, e quindi un’anima separabile, mentre le bestie brute sono

degli automi senza mente né anima. Soltanto nell’uomo materia

e intelletto si combinano insieme. Questa dottrina anticipava gran

parte della psicologia meccanicistica successiva e conteneva in

germe il materialismo di La Mettrie e di altri pensatori del 600.

A tempo debito avrebbe consentito agli scienziati di sostenere

che la coscienza poteva essere spiegata meccanicisticamente, e

che la totalità della vita psichica di un individuo era il prodotto

della sua organizzazione fisica.

Un giorno si sarebbe detto dell’uomo ciò che Cartesio diceva de-

gli animali.

Nel frattempo però, la dottrina cartesiana ebbe l’effetto di declas-

sare ulteriormente gli animali nei confronti degli esseri viventi.

Cartesio negava che gli animali avessero l’anima poiché essi non

mostrano nessun comportamento che non si possa spiegare in ter-

mini di puro e semplice impulso naturale.

Ma i suoi seguaci andarono ben oltre.

Essi sostenevano che gli animali non sentono il dolore; l’urlo di

un cane picchiato non è segno della sofferenza dell’animale, non

più di quanto il suono di un organo indichi che lo strumento sen-

te dolore quando se ne percuote la tastiera.

Che l’animale gema e si dibatta è semplicemente un riflesso ester-

no, senza alcun rapporto con una sensazione interna.

D’altronte Cartesio si era limitato a portare alle sue estreme con-

seguenze una distinzione già implicita nella dottrina scolastica.

Tommaso d’Aquino, dopo tutto, aveva insegnato che quella che

si chiamava la prudenza degli animali non era altro che l’istinto,

posto in essi da Dio.

Inoltre il cartesianesimo pareva un eccellente strumento per la

difesa della religione.

(……) Tuttavia l’argomento più forte in favore della posizione

cartesiana era che essa forniva la migliore spiegazione raziona-

le possibile del modo in cui l’uomo trattava realmente gli anima-

li.

L’altra posizione, ammettendo che gli animali potessero soffrire

e soffrissero, avrebbe lasciato spazio alla colpevolezza dell’uomo

e a interrogativi inquietanti: quali erano le ragioni per cui Dio

poteva permettere che le bestie subissero delle sofferenze immeri-

tate e in così larga scala?

Il cartesianesimo, invece, assolveva Dio dall’accusa di provocare

ingiuste sofferenze a delle bestie innocenti tollerando che gli uma-

ni le maltrattassero; esso giustificava altresì la supremazia degli

uomini, liberandoli, secondo le parole di Cartesio, da ‘ogni sospet-

to di crimine, per quanto volte mangino carne o uccidano animali’.

(Keith Thomas, L’uomo e la natura)




 

 

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LA MELA

Prosegue in:

la mela 2 &

contra galilaeos &

io povero pagano

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la mela

Da:

Frammenti in rima &

i miei libri

 

 

la mela

 

 






I frutti salvifici erano stati donati a Era dalla Madre Terra alla

quale era sacro il melo: una delle epifanie della Grande Madre

che arcaicamente offriva il dono della conoscenza e dell’immor-

talità.

Nelle tradizioni celtiche la si raffigurava in una meravigliosa

fanciulla che montava un cavallo nero tenendo in una mano

una mela d’oro.

A Roma assumeva le sembianze della dea-madre Diana, che

il 13 agosto veniva celebrata con libagioni di sidro, un capret-

to arrosto infilzato su rami di nocciolo e grappoli di mele ap-

pese a un ramo.

Le statue la raffiguravano con un ramo di quest’albero in ma-

no. 

 

la mela


Simbolo della Grande Madre era anche la Luna nelle sue tre fasi

di luna nuova, piena e calante: ovvero luna primaverile, imperso-

nata da una fanciulla; luna estiva simile a una donna; luna inver-

nale, megera o comare secca o befana. 

Era la Triplice Dea che dava vita alle piante e agli alberi e regna-

va su tutte le creature viventi. Signora del cielo, della terra e dell’-

oltretomba, descritta da John Skelton in Garland of Laurell:

Diana nelle verdi foglie,

Luna che splendi così luminosa,

Persefone negli inferi.

Anticamente  in Europa nessun dio poteva eguagliarla.

La Triplice Dea aveva un amante.

Secondo il periodo dell’anno era il benefico Serpente della

Saggezza e la benefica Stella della Vita, ovvero suo figlio,

detto anche Lucifero, il ‘portatore di Luce’ perché come la

stella della sera egli precedeva la luce della Luna.

Rinasceva ogni anno, raggiungeva la maturità, uccideva il

Serpente e conquistava l’amore della dea.


la mela


Questo amore lo distruggeva, ma dalle sue ceneri nasceva un

nuovo serpente il quale a Pasqua deponeva un uovo rosso

che la dea mangiava per partorire successivamente il Figlio.

Nella religione egea i tre personaggi venivano rappresentati

in una Donna-luna, e un Figlio-stella e in un saggio Serpente

maculato sotto un albero da frutto.

La Grande Madre cui era sacra la mela era anche colei che 

trasmetteva il ‘furor poeticus’, l’ncantatrice del poeta.

(Prosegue in Pagine di Storia)



 

 

la mela

  

GLI EDUCATORI….della repubblica (agli amati intrallazzatori di Eraclio)

Precedente capitolo:

al cinico Eraclio

Prosegue in:

conosci te stesso &

io povero pagano 3

 

 





Una giusta educazione pensiamo che non consista nell’armonia

magnifica delle espressioni e della lingua, ma nella saggia dispo-

sizione di un pensiero razionale e nella vera opinione sul bene,

sul male, sulla virtù e sul vizio.

Chiunque perciò pensi una cosa e ne insegni un’altra ai suoi di-

scepoli, è, a mio parere, tanto lontano dall’essere un buon educa-

tore quanto dall’essere un uomo onesto.

Se la discordanza tra il pensiero e la parola fosse su punti di scar-

sa importanza sarebbe un male, ma fino a un certo livello soppor-

tabile; al contrario, se una persona in dottrine di somma importan-

za insegna l’opposto di ciò che pensa, non è questo il modo di agi-

re di bottegai, e non di onesti ma di pessimi uomini, che lodano so-

prattutto le merci che ritengono di infima qualità, ingannando e

adescando con lusinghe coloro a cui vogliono trasferire, io credo,

le loro merci cattive?

Dunque, tutti quelli che dicono di insegnare dovrebbero avere

un comportamento morale ed avere nell’animo pensieri non in

contraddizione con quelli che professano in pubblico; io credo

che dovrebbero comportarsi in tal modo soprattutto quelli che

istruiscono nella retorica i giovani, commentando gli scritti

antichi, tanto i retori, quanto i grammatici, e ancor più i sofisti

che vogliono essere più degli altri maestri non solo di letteratu-

ra, ma anche di comportamento morale ed affermano che sia

loro particolare prerogativa la filosofia politica.

(Giuliano Imperatore)



 

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RIDERE DEL MALE

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perché ride

Una lettera di Giuliano…(in):

gli occhi dell’anima &

il tuo malessere

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perché ride

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Frammenti in rima






 

– Perché? Mi batterei, la mia arguzia                                                 89786756.jpg

contro l’arguzia altrui. Sarebbe un mondo

migliore di quello in cui il fuoco e il

ferro rovente di Bernardo Gui

umiliano il fuoco e il ferro rovente

di Dolcino.

– Saresti preso ormai tu stesso nella

trama del demonio.

Combatteresti dall’altra parte del

campo dell’Armageddon, dove dovrà

avvenire lo scontro finale.

Ma per quel giorno la chiesa deve saper imporre ancora una volta

la regola del conflitto.

Non ci fa paura la bestemmia perché anche nella maledizione di Dio

riconosciamo l’immagine stranita di Geova che maledice gli angeli

ribelli.

Non ci fa paura la violenza di chi uccide i pastori in nome di qualche

fantasia di rinnovamento, perché è la stessa violenza dei principi che

cercano di distruggere il popolo di Israele.

Non ci fa paura il rigore del donatista, la follia suicida del circoncellione,

la lussuria del bogomilio, l’orgogliosa purezza dell’albigese, il bisogno

di sangue del flagellante, la vertigine del male del fratello del libero

spirito: li conosciamo tutti e conosciamo la radice dei loro peccati che è

la radice stessa della nostra santità.

Non ci fanno paura e soprattutto sappiamo come distruggerli, meglio,

come lasciare che si distruggano da soli portando protervamente allo

zenit la volontà di morte che nasce dagli abissi stessi del loro nadir.

Anzi, vorrei dire, la loro presenza ci è preziosa, si iscrive nel disegno

di Do, perché il loro peccato incita la nostra virtù, la loro bestemmia

incoraggia il nostro canto di lode, la loro sregolata penitenza regola

il nostro gusto del sacrificio, la loro empietà fa risplendere la nostra pietà,

così come il principe delle tenebre è stato necessario, con la sua ribellione

e la sua disperazione, a far meglio rifulgere la gloria di Dio, principio

e fine di ogni speranza.

Ma se un giorno – e non più come eccezione plebea, ma come ascesi

del dotto, consegnata alla testimonianza indistruttibile della

scrittura – si facesse accertabile, e apparisse nobile, e liberale,

e non più meccanica, l’arte dell’irrisione, se un giorno qualcuno

potesse dire (ed essere ascoltato): io rido dell’incarnazione

…..Allora non avremmo armi per arrestare quella bestemmia,

perché essa chiamerebbe a raccolta le forze oscure della materia

corporale, quelle che si affermano nel peto e nel rutto, e il rutto

e il peto si arrogherebbero il diritto che è solo dello spirito, di

spirare dove vuole!

– Licurgo aveva fatto ereggere una statua al riso.

– Lo hai letto sul libello di Clorizio, che tentò di assolvere i mimi

dalla accusa di empietà, che dice come un malato fu guarito da un

medico che lo aveva aiutato a ridere.

Perché bisognava guarirlo, se Dio aveva stabilito che la sua giornata

terrena era giunta alla fine?

– Non credo lo abbia guarito dal male. Gli ha insegnato a ridere

del male.

– Il male non si esorcizza. Si distrugge.

– Col corpo malato.

– Se è necessario.

– Tu sei il diavolo, disse allora Guglielmo.

Jorge parve non capire. Se fosse stato veggente direi che avrebbe

fissato il suo interlocutore con sguardo attonito.

– Io?  disse.

– Sì, ti hanno mentito. Il diavolo non è il principe della materia, il

diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità

che non viene mai presa dal dubbio.

Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove

è venuto.

Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre.

Se volevi convincermi, non ci sei riuscito.

Io ti odio, Jorge, e se potessi ti rincodurrei giù, per il pianoro,

nudo con penne di volatili infilate nel buco del culo, e la faccia

dipinta come un giocoliere e un buffone, perché tutto il monastero

ridesse di te, e non avesse più paura.

Mi piacerebbe cospargerti di miele e poi avvoltolarti nelle piume,

portarti al guinzaglio nelle fiere, per dire a tutti: costui vi annunciava

la verità e vi diceva che la verità ha il sapore della morte, e voi non

credevate alla sua parola, bensì alla sua tetraggine.

E ora io vi dico che, nella infinita vertigine dei possibili, Dio vi

consente anche di immaginarvi un mondo in cui il presunto interprete

della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese

tanto tempo fa. 

– Tu sei peggio del diavolo, minorita, disse allora Jorge.

– Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo

Francesco che teneva sermoni dando spettacoli come i saltimbanchi,

che confondeva l’avaro mettendogli in mano monete d’oro, che umiliava

la devozione delle suore recitando il ‘Miserere’ invece della predica,

che mendicava in francese, e imitava con un pezzo di legno i movimenti 

di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere

i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali

e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo

da villaggio, invocava l’agnello di Berthlehem imitando il belato

della pecora….Fu una buona scuola…Non era minorita quel frate

Diotisalvi da Firenze?

– Sì, sorrise Guglielmo.

– Quello che andò al convento dei predicatori e disse che non avrebbe

accettato cibo se prima non gli avessero dato un pezzo della tunica

di fra Giovanni, onde conservarla come reliquia, e quando l’ebbe vi

si pulì il sedere e poi la gettò nel letamaio e con una pertica la rotolava

nello sterco gridando: ahimè, aiutatemi fratelli perché ho perso nella

latrina le reliquie del santo!

– Ti diverte questa storia, mi pare. Forse vorrai raccontarmi anche

quella dell’altro minorita, frate Paolo Millemosche, che un giorno

è caduto lungo disteso sul ghiaccio e i suoi cittadini lo dileggiavano

e uno gli chiese se non avrebbe voluto aver qualcosa di meglio sotto

di sé, ed egli rispose a quello: sì, tua moglie…. Così voi cercate la verità.

– Così Francesco insegnava alla gente a guardare le cose da un’altra

parte.

– Ma vi abbiamo disciplinati. Li hai visti ieri, i tuoi confratelli.

Sono rientrati nelle nostre file, non parlano più come i semplici.

I semplici non debbono parlare. Questo libro avrebbe giustificato

che la lingua dei semplici sia portatrice di qualche saggezza.

Questo occorreva impedire, questo io ho fatto.

Tu dici che io sono il diavolo: non è vero. Io sono stato la mano

di Dio.

– La mano di Dio crea, non nasconde.

– Ci sono dei confini al di là dei quali non è permesso andare.

Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: ‘hic sunt leones’. 

– Dio ha creato anche i mostri. Anche te. E di tutto vuole che si parli.

Jorge allungò le mani tremule e trasse a sé il libro. Lo teneva aperto,

ma capovolto, in modo che Guglielmo continuasse a vederlo per

il verso giusto.

– Allora perché, disse, ha lasciato che questo testo andasse perduto

lungo il corso dei secoli, e se ne salvasse solo una copia, che la copia

di quella copia, finita chissà dove, rimanesse seppellita per anni nelle

mani di un infedele che non conosceva il greco, e poi giacesse

abbandonata nel chiuso di una vecchia biblioteca dove io, non tu, io fui

chiamato dalla provvidenza a trovarla, e a portarla con me, e a nascon-

derla per altri anni ancora?

Io so, so come se lo vedessi scritto a lettere di diamante, coi miei occhi

che vedono cose che tu non vedi, io so che questa era la volontà del

Signore, interpretando la quale io ho agito.

NEL NOME DEL PADRE, DEL FIGLIO, E DELLO SPIRITO SANTO.

(U. Eco, Il nome della rosa)





 

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IL RICCO E IL POVERO

Precedente capitolo:

la rivolta continua

Prosegue in:

Dialoghi con Pietro Autier 2


 

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Cominciamo dai padroni.

Il carattere generale della moderna classe dei proprietari di schiavi

derivò da due diverse fonti: da una comune origine nell’espansione

europea, che storicamente significò l’espansione del mercato mon-

diale e, conseguentemente, stabilì una pronunciata tendenza verso

lo sfruttamento commerciale e la massimizzazione del profitto; e dai

rapporti tra padrone e schiavo, che dettero vita a qualità antitetiche

alle precedenti. 

 

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Non importa quanto variassero le circostanze; il rapporto padrone-

schiavo, che era profondamente diverso da quello tra il capitalista

e il salariato o tra il rentier e il contadino, lasciò il suo marchio su

entrambi i partecipanti. Più precisamente, esso generò una speciale

psicologia, costumi, vantaggi e svantaggi economici, e problemi so-

ciali che si manifestarono in tutte le società a schiavi, anche se solo

come deboli tendenze.

Per comprendere la schiavitù, dobbiamo disegnare il destino di que-

ste tendenze immanenti in specifici regimi a schavi, perché le loro

particolari combinazioni generano tutte le differenze riscontrabili

in una analisi comparativa.

Tutte le classi di proprietari di schiavi manifestarono questi due

gruppi antitetici di tendenze, ma ciascuna le combinò in una ma-

niera unica, e le caratteristiche particolari di ogni combinazione

derivano pure da due distinte fonti.

In primo luogo, ciascuna classe di proprietari di schiavi, con le sue

origini europee, si era sviluppata da un passato nazionale distinto,

in qualche caso fondamentalmente borghese e in altri signorile; in

alcuni protestante ed in altri cattolico; in alcuni liberale ed in altri

autoritario. All’interno di queste dicotomie, tracciate a grandi linee,

esistevano grandi varietà; solo dei non-Iberici, per esempio, possono

commettere l’errore di credere che l’origine portoghese o spagnola

facesse poca differenza. In secondo luogo, l’immediato contesto

sociale ed economico – residenza o assenza dei piantatori, grado di

acculturazione dei negri, tipo della monocultura, livello tecnologico,

particolarità del meccanismo di mercato, e sede del potere politico

– fornivano qualità specifiche in ciascuno caso. 

 

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Ogni classe di proprietari di schiavi portava una specifica eredità

europea nel suo presente americano, ma l’estensione e la natura

di quanto era stato trasferito dipendeva dal contesto immediato.

Le relazioni razziali, si può sostenere, non determinarono i caratteri

della schiavitù nel Nuovo Mondo; furono i caratteri della schiavitù

in quanto condizionata dal passato e dal presente, dalla storia e 

dall’economia, e manifestantisi in particolari forme di dominio di

classe, che determinarono le relazioni razziali.

 

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Il più importante problema inerente lo studio delle società a schiavi

afro-americane può essere risolto solo dall’analisi dei tipi di classi 

che lo costituirono, cominciando dalle classi dominanti; conseguen-

temente la schiavitù deve essere intesa prima di tutto come un pro-

blema di classe e solo secondariamente come una questione razziale

o angustamente economica.

Per dimostrare l’utilità di questo punto di vista bisognerà conside-

rare  i rapporti tra le società a schiavi americane e i loro tutori europei;

le specifiche classi di proprietari di schiavi dell’emisfero; e tentare, sia

pure in modo sommario, di esporre i vari tipi di rapporti razziali. 

 

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Se il metodo risulterà giusto, ogni problema importante, dagli attri-

buti generali e particolari della struttura della piantagione sino alla

natura ed alle dimensioni delle tendenze fondamentali delle econo-

mie a schiavi, dovrà esser considerato da tale punto di vista; ma sa-

rà bene limitarsi al problema dell’abolizione come caso probante.

Una osservazione sulla questione del trattamento degli schiavi sa-

rà consentita ad illustrare le diverse direzioni in cui una analisi di

classe ci può condurre.

Come problema di storia comparata, la questione del trattamento

in se stesso si presenta estremamente complessa e pone gravi diffi-

coltà metodologiche. Ma come problema di storia delle classi socia-

li essa, anche se più complessa, diventa immensamente più fertile.

Si è scritto molto sul modo brutale con cui gli africani venivano sti-

vati nelle navi negriere per traversare l’Atlantico, ma tali dati signi-

ficano poco se non vengono connessi a quelli relativi alle navi che

trasportavano servi o emigranti europei o alle condizioni di vita dei

marinai bianchi che lavoravano sulle navi negriere o mercantili.

Egualmente, se il vanto dei proprietari di schiavi sudisti era corret-

to – ed in parte lo era -, e i loro schiavi vivevano altrettanto bene ed

erano trattati altrettanto umanamente quanto molti contadini e ope-

rai, allora ne consegue che l’aperto sfruttamento e la brutalità erano

meno questioni di razza che di classe e che gli africani non avrebbero

potuto esser trattati così non in base al modo con cui erano trattate

le stesse classi inferiori bianche. 

 

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Questo argomento ed altri simili non implicano che gli africani non

abbiano sofferto più dei bianchi né assolvono gli europei per il

barbaro trattamento a danno degli africani; essi suggeriscono che

tale barbarie scaturiva assai più dall’atteggiamento del ricco verso

il povero, del signore verso il contadino, del borghese verso la

merce-lavoro che non da quello del bianco verso il non-bianco.

Con ciò e per concludere, vanno esaminati dettagliatamente i due

sistemi sociali, signoriale e capitalista, in lotta per la supremazia

all’alba dell’età moderna.

(Eugene D. Genovese)




 

 

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ALL’INFERNO ROVENTE

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i negri si sono rivoltati

Prosegue in:

la rivolta continua &

Dialoghi con Pietro Autier 2

Da

i miei libri &

Frammenti in rima


 

all'inferno rovente

 






L’unico suono americano alla loro altezza era la tromba di Louis

Armstrong, ma per il coraggio che sapeva opporre alla disperazione,

il canto dei detenuti texani non aveva eguali.

I prigionieri neri guardavano la morte in faccia tutti i giorni, soffrivano

umiliazioni di gran lunga peggiori della morte, eppure avevano creato

canzoni di forza ineguagliabile, capaci di mantenere vivi i loro cuori.

A quei tempi avevo 17 anni e il loro coraggio mi era sembrato quasi

ultraterreno. Ancor oggi, a distanza di molti anni, la mia opinione non

è mutata.

 

all'inferno rovente


Questi sono i ribelli del Sud, pensavo, i ‘cattivi’, quelli che si sono

rifiutati di essere miti e di soggiacere a un destino avverso sorridendo

pazientemente. Hanno deciso di combattere un sistema legislativo

organizzato per favorire un solo gruppo di persone, che a loro offre,

invece, molte umiliazioni e nessuna protezione: per questo si scagliano

contro di esso a testa bassa.

 

all'inferno rovente


Gli atti violenti di questi assassini, stupratori, rapinatori, sono gesti

individuali di protesta contro la durezza e le privazioni della vita

dei neri nei ghetti del Sud. Le guardie li trattano come se fossero

rivoluzionari, non delinquenti.

Sì, pensavo, queste guardie dai lineamenti di pietra, che mi sorridono

ipocritamente perché sono sicure che, essendo bianco, ne condivida

i pregiudizi, se potessero leggere nel mio cuore mi tratterebbero

come un prigioniero ribelle.

Perciò camuffai i miei sentimenti.

Non potevo discuterne neppure con mio padre che, malgrado

provasse un’intensa compassione per i prigionieri e un reale interes-

se per la qualità della vita dei neri, tutto sommato era convinto della

complessiva bontà del sistema vigente al Sud. In effetti a quel tempo

erano ben pochi i bianchi del Sud, e non molti gli americani che la

pensavano in modo diverso.

 

all'inferno rovente


Le registrazioni effettuate in quel pomeriggio nella prigione di stato

nel Texas servirono probabilmente a indebolire i pregiudizi esistenti

e certamente cambiarono le nostre vite, spingendoci alla ricerca

di canti di lavoro in tutti i penitenziari del Sud.

I volti dei prigionieri, così ombrosi e servili quando erano a riposo,

così infuocati  e intensi durante il canto, le melodie toccanti e possenti,

le voci preziose e piene di grazia: tutto cospirava per conquistare il

nostro impegno.

Nel corso degli anni successivi ci recammo in doloroso pellegrinaggio

presso tutte le colonie penali del Sud, una serie di succursali dell’infer-

no che costellavano il territorio per rammentare a tutti i neri del Sud,

come le croci incendiate, che se avessero osato ribellarsi avrebbero

trovato catene, guardie armate e morte.

 

all'inferno rovente


Imparammo a conoscere il cibo, il gergo, gli orrori della prigione,

sperimentando sulla nostra pelle il disprezzo delle guardie che, per

l’interesse che nutrivamo verso le canzoni dei detenuti, ci considera-

vano di poco superiori alla ‘feccia nera’. Tornammo molte volte nei

penitenziari del Sud a effettuare registrazioni, mio padre negli anni

trenta, io negli anni quaranta e cinquanta.

Scoprimmo quella che è, a mio giudizio, la più trascinante delle tradi-

zioni canore: un patrimonio afro-americano immortale, creato e ricre-

ato davanti ai nostri occhi da compositori capaci di inondarci il cuore

di melodie avvincenti, di dolci armonie, di poesia arguta e scarna, in

un gioco ritmico collettivo che serviva a proteggerli e a farli più forti.

Rendevamo le orecchie sorde a tutto, tranne che alle loro voci!

(A. Lomax, La terra del Blues)

Leggi anche:

alzati-morto-intermezzo-blues.html



 

 

all'inferno rovente