Precedenti capitoli:
Dialoghi con Pietro Autier 2: gli orrori dei ghiacci e delle tenebre
Prosegue in:
Pagine di storia: In memoria di J. Ruskin &
gli occhi di Atget: 1891- Decifrare l’uomo che fu e sarà (1/10)
Da:
Klotz diventa sempre più taciturno.
Nessuno più riesce a confortarlo.
Vuole tornare a casa.
Deve tornare a casa.
Ma la terra!
In fondo, hanno scoperto una terra,
delle belle montagne.
Ora hanno una terra.
La terra?
Ah, questa terra.
Ma le montagne non hanno boschi di abeti né di pini silvestri,
né abeti nani, niente. E le valli sono colme di ghiaccio.
A casa vuole tornare, Klotz.
A casa.
E’ un buon pomeriggio di dicembre dell’anno 1873, il freddo è
atroce, ed è in quel pomeriggio che il cacciatore Alexander Klotz,
appena ritornato con Payer e Haller da una delle loro escursioni
sulla costa, getta via la pelliccia congelata, i guanti, il berretto di
pelo, il copriviso di pelle, getta via tutto e poi indossa i suoi abiti e-
stivi.
Là dove sta andando non ha bisogno di una pelliccia pesante.
Gli inverni a Sankt Leonhard, gli inverni nella Val Passiria so-
no nevosi e miti.
Klotz svuota la propria cuccetta, poi però lascia lì il sacco di te-
la con tutti i suoi averi. Prende con sé soltanto le cose più pre-
ziose, l’orologio con scappamento a cilindro, che ha vinto all’-
ultimo tiro a segno in onore del compleanno di sua maestà, le
banconote elargitegli da Payer per particolari servigi prestati al
signor tenente e, infine, un rosario di legno.
Poi, serio e maestoso, Klotz si presenta ai suoi compagni e
stringe la mano a ciascuno: ADDIO!
– Klotz! Sei impazzito?
chiede Haller.
– Addio anche te, Haller,
dice Klotz e sale sul ponte di coperta.
Chi lo segue lo vede ritto al parapetto con il fucile in spalla, im-
mobile come in un quadro, non risponde a nessuno e guarda
nel buio, sopra i ghiacci.
Forse lo si deve solo lasciar stare, Klotz.
Tornerà sicuramente in sé.
Bisogna solo lasciarlo stare.
– Ma quello si è preso una sbornia,
dice il fochista Pospischill.
– Solo una sbornia; si è scolato tutta la sua razione di rum e
vodka.
– D’accordo. Lasciamolo stare. Tornerà sotto coperta da solo.
Lasciamolo stare.
Ma quando, due ore dopo, Weyprecht viene dal quadrato uffi-
ciali dove i signori hanno ancora una volta discusso del futuuro
della spedizione senza accorgersi della follia di Klotz, e quando
il comandante ordina di andare a recuperare il cacciatore e…
Johann Haller sale obbediente sul ponte, al parapetto Klotz non
c’è più; il tirolese è scomparso.
Quella non era follia.
Quella non era una storia, quello era un congedo.
Il cacciatore e conducente dei cani Alexander Klotz è andato a
casa.
Adesso il tempo fugge come non mai.
Ora, che non c’è nemmeno un minuto da perdere, il tempo improv-
visamente vola.
Ed essi lo rincorrono!
Klotz, che morirà congelato nel giro di poche ore, se on lo ritrova-
no.
Quel maledetto passiriese!
Uscire con questo gelo in abiti estivi!
Si dividono in quattro gruppi e si precipitano in tutte le direzioni dei
punti cardinali; l’aria tagliente li colpisce alla gola come un coltello.
Non fermarsi.
Più veloci!
Klotz!
Ma che muoia congelato, QUEL PORCO!
Vuole morire congelato!
Ma quello è già morto.
Deve essere morto già da un pezzo.
Invece, non lo trovano così.
Dopo cinque ore, finalmente lo rintracciano:
lento e solenne, a capo scoperto, con il volto ormai quasi
completamente congelato, Alexander Klotz marcia verso sud,
la sua terra natia, la grande madre Russia.
Lo fermano; cercano di convincerlo; gli gridano addosso dei rim-
proveri.
Egli però non dice una parola.
Lo riportano sulla nave, lo conducono via.
Non oppone resistenza.
Nella sala dell’equipaggio scongelano il fuggiasco russo, gli strap-
pano i vestiti di dosso, gli immergono le mani e i piedi congelati in
acqua frammista ad acido muriatico, lo frizionano con la neve, che
è dura come polvere di vetro, gli fanno bere acquavite e imprecano
per la disperazione.
Klotz lascia fare e rimane impassibile, ogni tanto ride.
Poi lo coricano nella sua cuccetta, lo coprono e lo vegliano.
Egli giace lì con lo sguardo fisso, non prende più parte alla loro vi-
ta, alle loro feste, ai balli, alle bevute.
Sta solo disteso e li fissa.
Ora hanno un pazzo a bordo.
Alexander Klotz resterà impietrito per intere settimane.
Talvolta, quando le spinte glaciali dell’inverno li colpiscono,
quando i malati di scorbuto gemono nella febbre e una tormen-
ta di ghiaccio ricorda loro la fine dei tempi, essi giungeranno a
invidiare il cacciatore che è così assorto in se stesso e sembra non
riconoscere più nulla della loro realtà.
Eppure quest’inverno sarà meno impetuoso e crudele del prece-
dente. Qui, vicino a terra, al riparo della loro terra, le spinte gla-
ciali sono meno violente, il vuoto non è così immenso e inoltre es-
si sono sorretti dalla speranza di esplorare la terra nella prossima
primavera per poi tornare a casa e, se dovesse essere, torneranno
anche a piedi marciando sul ghiaccio.
Torneranno, anche se ora diciannove di loro recano i segni dello scor-
buto. Per fortuna, il macchinista Krisch non sa nulla di quanto Kepes,
il medico della spedizione, ha esposto alla mensa degli ufficiali: anche
se il macchinista sembra ancora essere in forza e talvolta persino in
grado di svolgere il suo servizio, per lui in realtà non c’è alcuna spe-
ranza; i suoi polmoni sono irrecuperabilmente divorati dalla malat-
tia.
Krisch è vicino alla morte più di chiunque altro a bordo.
Che succederà, era stato poi chiesto alla mensa degli ufficiali dopo un
momento di silenzio, se Krisch ci cadrà infermo e non sarà più in grado
di muoversi, se si dovrà abbandonare la Tagetthoff e battere in ritirata
fino in Europa?
A piedi sul ghiacciaio?
Che si farà allora di Krisch?
– Allora, aveva detto Weyprecht, lo porteremo.
Krisch non desiste.
Krisch lotta; per la primavera sarà guarito e potrà nuovamente porta-
re tutti i carichi.
Payer gli deve permettere che lo condurrà con sé nei viaggi in slitta la
primavera successiva. Krisch camminerà sulla neve granulosa in ter-
re mai prima d’ora solcate da piede umano.
Payer glielo promette.
Ogni giorno, Krisch, come ogni scopritore che serva la patria e la scien-
za, registra accuratamente l’intensità, la direzione del vento e la tempe-
ratura; tuttora.
Ma già in dicembre la morte comincia a guidare la sua mano e il suo
diario sempre più il protocollo di un’agonia.
“Il 15 dicembre bonaccia, temperatura scesa da -28,6° R a -31° R, tempo
bello limpido, il mercurio è indurito, rappreso dal gelo, l’equipaggio co-
struisce un palazzo di neve, innumerevoli aurore boreali nel cielo verso
sud.
Ho sempre molto dolore e comincio anche a soffrire d’insonnia, cosic-
ché riesco a dormire solo dalle due alle tre ore al dì con delle interruzio-
ni, divento ogni giorno più debole.
Il 21 dicembre vento da SSO….
Alle ore 11 lettura delle Sacre Scritture, ispezione nei locali dell’equi-
paggio; lavorato nell’osservatorio magnetico; temperatura in aumento.
La mia malattia è nuovamente peggiorata, soffro di dolori spaventosi
alla parte destra del torace.
Il 23 dicembre vento da OSO….cielo coperto, leggera nevicata, l’equipag-
gio decora il palazzo di neve, osservazioni magnetiche….alle mie sofferen-
ze si è aggiunta anche la febbre, che mi toglie completamente l’appetito
per cui non posso mangiare null’altro che minestra, mi sento molto debo-
le e i piedi non mi reggono ormai più”.
(C. Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre)